Fantasia

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La brama della scrittura arde come una fiamma in un cuor propenso. Vivì

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domenica 26 luglio 2020

Creature mitologiche: Il Fauno


Il Dio Fauno era un'antica divinità nata dalla fantasia italica, considerato un genio dei boschi e protettore dell'agricoltura e dei pascoli, da qui il primo appellativo "Lupercus."

Fauno, da non confondersi con il Dio Silvano, per i greci Pan, anch'esso frutto della fantasia italiana.

Alcune leggende lo descrivono come una divinità minore, dalla forma umana ma dalle gambe ricoperte di pelo e gli zoccoli caprini e con due corna che spuntano sulla fronte.

Spesso dipinto mentre suona un flauto e con in mano una cornucopia, simbolo di abbondanza e prosperità mentre, nell'altra, brandisce una clava da pastore.

Sembra che uno dei suoi passatempi preferiti fosse, oltre la caccia,  il corteggiamento delle ninfe dei boschi, che spesso insidiava con un comportamento a dir poco disdicevole.



Alcune leggende lo descrivono come appartenente al seguito del dio Bacco, Dioniso per i greci.

Le leggende narrano che, come genio dei boschi, amasse spaventare gli uomini apparendo loro all'improvviso, sia che si avventurassero nel folto, sia sotto forma di sogno mentre dormivano, da qui il secondo appellativo affibbiatogli di "Incubus."

Il dio Fauno aveva anche un corrispondente al femminile “Fauna”, non molto rinomata e conosciuta anche come Bona Dea. Questa divinità considerata minore venne presto dimenticata e il suo appellativo assimilato dalla dea greca Damia.


Il detto più famoso di Fauno era “Ogni tipo di saggezza umana è vana”, e forse anche per questo è diventato il simbolo di coloro che agiscono per istinto e senza perdere tempo a valutare le conseguenze.

Fauno era anche denominato Fatus, ovvero colui che svela il futuro interpretando il volo degli uccelli, i rumori naturali del bosco o ancora tramite i sogni. 

Quello che pare certo e che la sua rinomanza divina diminuì ben presto di importanza anche perché, nel frattempo, crebbe la popolarità del dio Silvano. Così che Fauno venne relegato come dio minore e mortale, confondendosi nella schiera di Satiri, Pani e Ninfe. Sopravvissero invece a queste due divinità le feste di Lupercalia celebrate con riti di purificazione e di fecondità.







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martedì 21 luglio 2020

Una favola da sogno o un sogno favoloso?

                          


Se vi dico che da ragazzina sono stata rapita da un Fauno voi non ci credete, vero?

Ebbene, di seguito vi racconto com'è andata e poi starà a voi giudicare se si tratta di realtà o di pura fantasia.

Non so quantificare il tempo in cui la mitica creatura mi trattenne nel regno silvestre, luogo che, evidentemente, considerava di sua proprietà. Forse furono poche ore o forse solo una manciata di minuti, ma quel tempo indefinibile è rimasto impresso nella mia memoria a volte come un bel sogno, altre come un incubo.

A quei tempi avrò avuto una decina d'anni o poco più ed ero molto graziosa con la gaiezza di una farfallina leggiadra e curiosa. 

Con Lulù, la maggiore delle mie sorelle, mi recavo spesso nel nostro bosco preferito alla ricerca di funghi, di cui lei è tuttora molto ghiotta.

Non so proprio come accadde, ma a un certo punto ci perdemmo di vista e io mi ritrovai da sola in una parte del bosco totalmente sconosciuta.

In quel momento non mi resi conto dei pericoli che poteva correre una ragazzina sperduta nel folto, anche perché la mia attenzione venne subito catturata dall'atmosfera idilliaca che mi circondava.

Mi ritrovai in una radura dove gorgogliava l'acqua cristallina di una sorgente che, formando un ruscelletto si tuffava a valle. Intorno alla polla risuonavano i cinguettii e i vari richiami di uccellini del tutto invisibili tra i rami. Ma, il massimo della meraviglia fu lo scorgere di uno sciame di farfalle che mi circondarono, volteggiando intorno a me. Sorpresa e felice iniziai a danzare con loro cercando di accarezzare tutte quelle ali colorate.

A un certo punto, però, avvertii strani bisbigli e alcuni misteriosi  fruscii. Mi fermai perché mi parve di sentire anche delle risatine soffocate. In quel momento sussultai: “Le fate! “mormorai estasiata, ma subito dopo sentii sulla pelle uno sguardo truce e malevolo.

In pochi secondi il sangue mi si gelò nelle vene! Nascosto nel folto c 'era qualcosa di malvagio che mi stava osservando e io ero sola, terrorizzata e del tutto incapace di muovere un passo. 

La paura mi mozzò il respiro in gola così che non potei urlare e nemmeno feci in tempo a fuggire. Come avrei potuto? Una creatura misteriosa era comparsa alle mie spalle, senza che io me ne rendessi conto e con una morsa ferrea mi teneva bloccata per le braccia.


Completamente inebetita dal terrore, mi volsi lentamente e notai subito le orecchie a punta, le corna sulla fronte e la lunga barbetta in un viso scavato, in cui spiccavano due occhi immensi e verdi come acque di lago o come il verde delle fronde. Per fortuna, le gambe ricoperte di pelo e gli zoccoli caprini li notai solo dopo, altrimenti, credo proprio che sarei svenuta.

La creatura mi scrutava con aria sorpresa, poi mi parlò: “Da dove vieni bella fanciulla? Non ti ho mai vista da queste parti! Sei forse la nuova ninfa della fonte?”

La sua voce era tanto cavernosa da mettermi i brividi, la sua forza impressionante. Iniziai a tremare come una foglia e balbettai una risposta:

“No ... no, signore! Io… mi chiamo Vi...vì!”

Lui sorrise. Per la verità un sorriso un po’ sghembo: “Sei tanto carina e leggiadra! Danzi così bene, che devi essere per forza una ninfa!” Poi aggiunse, indicando con un flauto che teneva nell'altro mano pelosa, (o era una zampa?) un punto tra gli alberi: “Dai, unisciti a noi! Vedrai che ti divertirai.”

In quel momento si udirono dei nuovi fruscii e altre risatine ma, nonostante aguzzassi lo sguardo nel punto indicato, intravvidi soltanto lo svolazzare d’impalpabili vesti colorate.

“Le fate!” esclamai ancora estasiata e lui scosse il capo cornuto: “Le fate? No, no! Sono le tue sorelline, le ninfe!”

Sorelline? In quel momento mi ricordai di Lù e immaginai  quanto fosse disperata non trovandomi.  Cercai di liberarmi dalla stretta e fu allora che sentii il richiamo accorato di mia sorella: “Vivì! Dove sei?”

Anche quella creatura sentì la voce e, rinforzando la presa su di me, mi si rivolse con tono roboante: “E quell'umana chi è? Da dove viene? “

Ormai in preda al terrore iniziai a piangere: “Mia... sorella! Mi sta... cercando! Lasciami!”

Mi divincolai, o meglio, cercai di farlo, ma lui mi teneva saldamente con sguardo che era ghiaccio e fuoco nello stesso tempo. Ne avvertivo gli strali dolorosi sulla pelle.

“Tua sorella? Come... allora non sei una ninfa?"

Non riuscii a rispondere e scossi più volte la testa. Le labbra mi tremavano, forse ancor più delle gambe e del corpo. 

Ero sul punto di strillare e lui implacabile mi domandò." Cosa ci fai nel mio regno? Vattene e non farti più vedere se non vuoi che ti mangi viva!” terminò, con quel tono terrificante, ma lasciandomi libera.

Non me lo feci ripetere e scappai a gambe levate da quella radura, più veloce di una gazzella.

La mia corsa terminò nelle braccia di mia sorella e lì, al sicuro, singhiozzai come una disperata per alcuni minuti.

Solo quando mi calmai le raccontai quanto mi era accaduto, ma lei non mi credette anzi, mi sgridò per essermi allontanata e per aver inventato quella storia.

E voi, mi credete?

                               

                                                                                                          


Racconto pubblicato sul sito Scrivere

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lunedì 20 luglio 2020

Creature mitologiche: Pegaso


Da bambina avevo un animo sognatore e nei momenti in cui il mondo reale svaniva intorno a me, mi ritrovavo per incanto in groppa a un cavallo alato, a cui avevo dato addirittura un nome: Candido Sogno. Il mio pegaso era docile e ubbidiente e mi portava in volo nel mondo onirico, ovunque io desiderassi.
In una di queste magiche cavalcate mi raccontò la sua storia, la stessa che ora mi appresto a narrare a voi e che a quei tempi, mi era sembrata una bellissima fiaba.
Ditemi voi che ne pensate.
                                     
Secondo la leggenda più famosa Pegaso nacque nel momento stesso in cui Perseo staccò la testa della gorgone chiamata Medusa e, dall'impetuoso zampillo di sangue che fuoriuscì dall'orrenda ferita, nacque Pegaso. Ma un altro mito narra che il cavallo alato venne generato dall'unione di Poseidone con Medusa.
Comunque fosse, Pegaso nacque libero e selvaggio e solo di rado Zeus gli ordinava di trasportare per lui le sue folgori fino al Monte Olimpo.
Non esisteva nessuno sul pianeta che fosse in grado di catturare e addomesticare il selvaggio Pegaso, una creatura considerata troppo forte, agile e astuta per essere assoggettata facilmente.
Allora la dea Atena comparve in sogno a Bellerofonte, principe di Corinto ed eroe famoso per aver sconfitto la Chimera. Nel sogno, la dea gli fece dono delle briglie d'oro indicandogli anche la sorgente dove era solito abbeverarsi Pegaso e dandogli anche preziosi suggerimenti per la cattura del mitico cavallo alato.
“Dormi, principe della casa di Aiolo? Vieni, prendi questo incantesimo per il destriero e mostralo al Domatore tuo padre e come sacrificio ponigli un toro bianco.”
                                                             
Le parole risuonarono a lungo nella mente intorpidita dal sonno di Bellerofonte, fino a quando l'eroe si svegliò e trovò al suo fianco le briglie. Nonostante l’impresa apparisse assai difficile, ma certo di avere l’appoggio della dea, l’umano decise di tentare, appostandosi nei pressi della fonte.
L’attesa fu lunga ma, nel momento stesso in cui il cavallo alato chinò il lungo collo per abbeverarsi, il principe lo imbrigliò e la magia contenuta nei finimenti donati dalla dea gli permisero di imprigionarlo.
Secondo questa versione fu il signore dell'Olimpo ad addomesticare Pegaso, qualcun altro ha scritto che fu Bellerofonte stesso.
Comunque, fu proprio con l'aiuto del cavallo alato che l'eroe greco riuscì a prevalere sul mostro chiamato Chimera e a ucciderlo e, in seguito, fu sempre con il supporto di Pegaso che riuscì a sconfiggere le guerriere Amazzoni.
Ma il principe di Corinto era una persona molto orgogliosa e molto ambiziosa e un giorno sognò di giungere con il suo cavallo alato fino all'Olimpo, certo che, per i propri meriti, un posto tra gli dèi gli spettasse di diritto.
Bellerofonte si mise a galoppare nel cielo deciso a raggiungere la dimora degli dei, suscitando così la collera e l’indignazione degli abitanti dell’Olimpo.  

Zeus venne avvertito dei propositi ambiziosi e avventati dell'umano e decise di punire la sua superbia inviando un tafano, che punse Pegaso in volo. Il cavallo alato sgroppò tanto violentemente da disarcionare il suo cavaliere e provocarne la caduta nel vuoto.
In seguito alla morte di Bellerofonte, Pegaso fece ritorno nell'Olimpo per trainare il carro del tuono.
Si narra anche che Aurora, la dea dell'alba, amasse cavalcare Pegaso tendendo nel cielo la sua mitica fiaccola per scacciare le ombre e l'oscurità, in modo che la luce del giorno inondasse la terra.
Tutte le leggende sono concordi nel dire che Pegaso era ben voluto da tutti gli dei e che Zeus, per ripagarlo dei tanti servigi, lo trasformò in una costellazione, ben visibile dal pianeta terra nelle ore notturne.

                                                                                                       


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sabato 18 luglio 2020

La leggenda di Scilla e Cariddi



Scilla, figlia di Tifone e di Echidna, per alcuni di Forco e di Crateis, era una ninfa dalla grazia ineguagliabile, che amava passeggiare a piedi nudi sulla spiaggia e fare il bagno nel limpidissimo mar  Tirreno.

Una sera, mentre era sulla spiaggia a contemplare la bellezza e l’immensità del mare, vide una piccola onda all'orizzonte gonfiarsi fino a trasformarsi in un mostruoso maroso, che sembrava correre verso di lei e che minacciava di sommergerla.

Impietrita dal terrore e del tutto incapace di muoversi, la ninfa vide l'onda assumere le sembianze di una creatura per metà uomo e per metà pesce, di colore azzurro come il cielo e con il volto incorniciato da una folta barba verde, così come i lunghi capelli simili a filamenti di alghe.

Scilla si riprese dalla sorpresa e dallo sgomento e, prima di essere raggiunta, tentò la fuga per cercare riparo sulle cime di un monte nelle vicinanze.

Come presa da un incantesimo, la ninfa non riuscì ad allontanarsi molto e così fu costretta ad ascoltare l’ammaliante voce della creatura marina che le confessò il proprio amore e che, per impietosirla, iniziò a raccontarle la storia della sua vita.



L’essere  che l'aveva tanto spaventata si chiamava Glauco e  un tempo era stato un semplice pescatore proveniente da Antidone, città situata nella regione Beozia nella antica Grecia.

A quei tempi Glauco era un semplice pescatore che amava passare le sue giornate in barca dedicando la sua vita alla pesca.

Un giorno, mentre riparava una rete su un prato adiacente alla spiaggia, con tutto il pescato allineato  e pronto per essere scelto e conteggiato, i pesci ripresero vita sotto i suoi occhi e, in branco saltellando e guizzando, ritornarono in mare.

Allibito e sconvolto da quell'evento prodigioso, Glauco pensò al capriccio e al divertimento di qualche divinità ma, scartando subito l'idea, sospettò che il bizzarro fenomeno fosse dovuto a qualche proprietà prodigiosa contenuta nell'erba del prato.

Il pescatore non perse tempo e, spinto dalla curiosità, ne assaggiò qualche filo.

Mentre ingoiava, avvertì la strana sensazione che qualcosa si muovesse nelle sue viscere e, che quel qualcosa, si dibattesse nella sua coscienza per prendere il sopravvento.

L'uomo iniziò a muoversi contro la sua volontà e inutilmente cercò di contrastare l'istinto che guidava i suoi passi verso le onde del mare.

Solo quando fu totalmente sommerso dalle acque si rese conto che la parte inferiore del suo corpo si era trasformata in quella di una creatura marina. Il tronco era rimasto quello di un essere umano mentre, dalla vita in giù aveva assunto le sembianze di un tritone.

La leggenda narra che gli dei lo accolsero benevolmente tra loro, tanto da intercedere per lui presso Oceano e Teti, pregandoli di togliergli ogni altra caratteristica umana rendendolo una creatura divina.

Dopo averne ascoltato le vicissitudini, Scilla, incurante del tormento e del sentimento che la creatura le aveva confessato, se ne andò, lasciandolo nella disperazione.

Per nulla rassegnato, Glauco pensò di recarsi sull'isola di Era e di domandare consiglio alla maga Circe pregandola di preparare un incantesimo affinché la ninfa si innamorasse di lui.

Allibita e sconcertata da tanta devozione di un dio verso una mortale, la maga gli fece presente che una divinità non aveva affatto bisogno di ricorrere a simili espedienti per farsi amare da una creatura terrena e, per dimostrare a Glauco la sua ammirazione, gli propose di accoppiarsi con lei.

Il dio rifiutò con tanta veemenza e trasporto da farla infuriare e meditare un’opportuna vendetta. Non appena fu sola la maga preparò una pozione magica, quindi si recò sulla spiaggia dove era solita passeggiare Scilla, versò il contenuto dell'ampolla in quella parte di mare e tornò sulla sua isola.

Quello stesso giorno la ninfa si immerse nelle acque limpide ma, all'improvviso, si accorse di essere circondata da alcune teste mostruose e ghignanti di cani.

Il suo orrore fu immenso è incontenibile quando si rese conto che quei musi e quelle teste erano attaccati alle sue gambe tramite un lungo collo da serpente.

                         

Scilla aveva subito una terrificante mutazione rimanendo dalla testa al tronco una ninfa e dalle anche fino ai piedi l'orribile mostro con sei teste di cane.

Per disperazione e vergogna la creatura si inabissò e prese dimora nei pressi della grotta di Cariddi, il mostro generato da Zeus per aver rubato i buoi di Gerione a Eracle. Il signore dell’Olimpo condannò il ladro a ingoiare e a rigettare l'acqua del mare per tre volte al giorno.

Glauco pianse disperatamente per la sorte toccata alla sua amata ninfa ricordandone in eterno la figura di grazia e dolcezza di cui si era tanto innamorato.

La leggenda narra che i due mostri marini Scilla e Cariddi abbiano tuttora dimora nello Stretto di Messina e, mentre Cariddi tre volte al giorno provoca dei gorghi giganteschi minacciando di rovesciare e ingurgitare le imbarcazioni di passaggio,  dall'altra parte dello Stretto, Scilla attenta alla vita dei naviganti, che cerca di ghermire con le sue sei teste.



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mercoledì 15 luglio 2020

Creature mitologiche: la Chimera



Chimera! Quante volte ognuno di noi ha pronunciato questa parola! Personalmente molte volte nella vita.
Chimera è sinonimo di sogno, ambizione irraggiungibile e vera utopia e, chissà per quale motivo, la si associa all'onirico quando invece raffigura un mostro leggendario.
Prima di dare una risposta plausibile a questo legittimo dubbio, vediamo insieme di scoprire di che specie di creatura si trattava.
La Chimera è una creatura mitologica, alcune volte descritta con la testa di leone, la coda lunga a scaglie di drago, o simile a quella di un serpente, il corpo di una capra, o in alternativa la testa caprina sopra un corpo del felino, in grado di sputare fuoco dalle fauci.


C'è da domandarsi davvero come possa una creatura così irreale essere diventata metafora di un sogno, un'utopia un’illusione.
L'antico poeta greco Omero, nella sua Iliade, narra che il re della Licia, Iobate, impartì l'ordine all'ardimentoso Bellerofonte, figlio di Glauco, re di Corinto, di uccidere la creatura mostruosa artefice di orrende scorrerie e della devastazione di alcuni villaggi appartenenti al suo regno.
Con l'aiuto del mitico cavallo alato chiamato Pegaso, Bellerofonte riuscì a compiere la leggendaria impresa galoppando incontro al mostro e trafiggendolo con una lancia con la punta di piombo. La Chimera venne ferita nelle fauci ardenti, di conseguenza il piombo  si sciolse, inondando la sua gola e causandone la morte per soffocamento.
Tornando all'introduzione del post, la Chimera rappresentava qualcosa di molto strano, bizzarro, quasi uno scherzo della natura. Una creatura immaginaria composta da un miscuglio di animali diversi, per cui un essere del tutto irreale.
Così che nel linguaggio moderno inseguire una Chimera sta a significare perdere tempo in fantasticherie e ambizioni assurde e pericolose.


                                                                                                                                             




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lunedì 13 luglio 2020

Creature mitologiche: il Basilisco




Il Basilisco è una creatura mitologica che alcune leggende descrivevano come una lucertola lunga all'incirca una ventina di centimetri.
Raffigurato in questo modo sembrerebbe trattarsi di un simpatico e innocuo animaletto ma, in realtà , la descrizione completa risulta inquietante.
Si narra infatti che il Basilisco avesse la testa e le zampe di un gallo, piccole ali membranose sulle spalle e una lunga coda di serpente e che avesse il potere di uccidere con il solo sguardo o con un soffio velenoso.
Nei mitici racconti, si favoleggia addirittura, che fosse in grado di uccidere trasmettendo il suo tocco letale anche attraverso gli oggetti e che il suo sguardo pietrificasse o incenerisse gli sventurati che incontravano i suoi occhi. A  proposito del tocco è nota la leggenda di un un cavaliere morto in sella al suo destriero a causa del veleno trasmesso dal  Basilisco attraverso la lancia che lo aveva ferito.


Questa creatura annoverava due soli nemici, di cui uno era la donnola, che tra l'altro moriva anch'essa dopo averlo morso alla gola, mentre l'altro era il gallo, il cui canto sembra gli risultasse fatale.
Le leggende narrano che l'essere umano riuscisse a sopprimere un Basilisco solo attirandolo davanti a uno specchio o qualsiasi superficie che ne riflettesse l'immagine.
Lo sguardo di fuoco di questa creatura era talmente potente da risultare mortale anche posandosi sul suo riflesso.
Anche Plinio il Vecchio, nella sua opera “Storia Naturale”, cita questo leggendario animale come proveniente dall'Egitto o dalla Libia dove trovava rifugio nelle grotte, nelle caverne, o nelle tane sotterranee di un deserto, creato da lui stesso con la  potenza devastatrice del suo sguardo.


L'antico scrittore e filosofo naturalista narrava che il Basilisco nasceva da un uovo, perfettamente sferico, deposto da un gallo molto anziano e poi covato da un serpente o da un rospo per sette o nove lunghi anni in un nido di peli di Iuvi.
In periodi più recenti anche autorevoli drammaturghi e scrittori, come ad esempio Shakespeare, hanno citato il mitico Basilisco nelle loro opere.
Per concludere, questo animale leggendario è diventato il simbolo araldico della città svizzera Basilea e ne ritroviamo la figura anche su alcuni stendardi di comuni italiani. 

                                                        






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venerdì 10 luglio 2020

La leggenda del vaso di Pandora



                                


La leggenda del vaso di Pandora ha inizio con il mito del Titano Prometeo che era un essere giusto e pietoso, in particolare nei riguardi dell'umanità che, tra l'altro, essendo appena agli esordi, viveva ancora allo stato selvaggio.
A quei tempi, difatti, gli uomini si cibavano ancora di carne cruda e d'inverno non conoscevano il modo per scaldare le grotte in cui vivevano.
Impietosito dai tanti stenti e dalle privazioni a cui era soggetto quell'essere primitivo, Prometeo decise di donare il fuoco all'intera umanità ma, per poterlo fare, fu costretto a rubarlo a Zeus, il signore dell’Olimpo, l'unico nell'universo a possederlo.



Nel momento stesso in cui si accorse del furto, il dio si adirò e per vendicarsi dell'affronto, fece incatenare il ladro sul Caucaso condannandolo a pena perpetua. Ogni giorno un'aquila sarebbe scesa dall'Olimpo e gli avrebbe divorato il fegato. Un supplizio reso ancora più atroce dal fatto che l'organo vitale avrebbe dovuto ricrescere, così da rendere infinita l’indicibile punizione.
Non ancora soddisfatto, Zeus decise di rendere più spietata la sua vendetta facendo lui stesso un dono all'umanità inviando sulla Terra una creatura di genere femminile chiamata Pandora. Inoltre, ogni divinità presente sul monte Olimpo venne invitato a contribuire offrendo un suo dono alla creatura.


Cosicché Atena le donò la vita, Afrodite la rese bellissima, Apollo le insegnò l'arte della musica,  Era le insegnò le arti manuali e infine Ermes le diede il coraggio e l'astuzia.
A tutti quei doni Zeus aggiunse un misterioso contenitore, ma ingiunse a Pandora di non aprirlo. Il vaso avrebbe dovuto contenere il grano ma, in realtà, il perfido dio lo colmò di tutti i mali più pericolosi per l'umanità tra cui la vecchiaia, la malattia, la gelosia, la pazzia e il vizio e, chissà per quale misterioso e controverso motivo, una sola virtù: la speranza.


Il dio Ermes venne poi incaricato di accompagnare la giovane donna dal fratello di Prometeo, nel frattempo liberato da Eracle, Epimeteo.
Il giovane Titano rimase folgorato dalla grazia e dal fascino della bellissima Pandora e se ne innamorò all'istante. In seguito, ignorando il consiglio del fratello, che in passato lo aveva già avvertito di non accettare doni da Zeus, Epimeteo sposò la fanciulla.
Non passò molto tempo che Pandora, spinta dalla curiosità, ignorò la diffida del signore dell’Olimpo e scoperchiò il misterioso contenitore provocando la fuoriuscita dei mali che si riversarono sull'umanità. Tra tutte quelle disgrazie però, rimase imprigionata sul fondo del vaso la speranza.


Con quel suo gesto Pandora condannò gli esseri umani a vivere una vita fatta di sofferenze, malattie, malvagità e guerre.
La terra divenne un luogo deserto e inospitale. Disgrazie ed epidemie perseguitarono la stirpe umana fino al momento in cui, la giovane, guidata da un misterioso istinto, scoperchiò ancora una volta il vaso causando la fuoriuscita della speranza, che subito si propagò nel mondo ridonando la luce persa, insieme al coraggio e alla volontà di combattere prevalendo sui mali, soffocare l’odio e le gelosie e ridando così sollievo agli esseri umani.
La leggenda del malefico vaso e della sua custode termina così in modo positivo. 
Attualmente, l'espressione "il vaso di Pandora" viene spesso utilizzata come metafora per indicare la scoperta di una miriade di problemi e di guai rimasti fino a quel momento ben nascosti.
                                         

                                                 

















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mercoledì 8 luglio 2020

Creature fantastiche: i Vampiri



Forse non tutti sanno che la leggenda dei vampiri era già conosciuta nell'antica Grecia e persino in Babilonia, dove queste fantastiche creature erano nominate Ehimmue.
Nella tradizione ebraica si rammenta la figura femminile e demoniaca di Lilith associata all’oscurità e portatrice di disgrazie, malattie e morte.
La leggenda narra che i viandanti evitassero di viaggiare di notte per timore di un agguato da parte di Lilith, che pare amasse succhiare il sangue, in special modo quello molto giovane e appartenente ai fanciulli di genere maschile.


Nel Medioevo, questo demone notturno, veniva spesso associato a tutti quegli aspetti considerati negativi che si attribuivano alla sfera femminile, tra cui l'adulterio, la lussuria e la stregoneria.
Alla fine dell'Ottocento, questa icona vampiresca, contemporaneamente ai primi passi verso l'emancipazione delle donne, diventò il simbolo del femminismo di quei tempi.
Nell'antica Grecia e nell'Impero Romano erano conosciute e temute le figure delle “Strige o Strigoi”. Creature che, a ben ragione, si potrebbero definire antenate dei più moderni vampiri.


Le cronache di allora, tramandate da autorevoli scrittori, narrano che le Strigi accorressero al capezzale degli agonizzanti per succhiare il loro sangue accelerandone la morte.
La comparsa di queste creature veniva accompagnata dai parenti con canti e versi lugubri, perché si credeva in quel modo, di mitigare le sofferenze del moribondo.
Il vampiro della tradizione attuale trova gloria e risonanza con le avventure di Dracula, un eccentrico nobile della Transilvania eroe del romanzo di Bram Stocker, ed è inoltre ben narrato è raffigurato in alcune serie televisive di successo.


Questa creatura fantastica si potrebbe definire anche un muta-forma per la sua capacità di trasformare la sua condizione di essere umano in quella di un pipistrello, uccello notturno che vive nelle grotte e si apposta sugli alberi in cerca di cibo, in questo caso di sangue, approfittando dell'oscurità.
Per antonomasia si può inoltre definire Ladro di Vita e Usurpatore di Anime, considerato che oltre al sangue che succhiava agli sventurati che incontrava, aveva il potere di trasmettere la sua stessa condizione disumana perpetrando all'infinito la tragedia.


La superstizione riguardo il vampirismo crebbe a dismisura nel secolo Diciottesimo, in modo tale da provocare anche eccessi d'isterismo collettivo. Non furono pochi i casi in cui alcune persone vennero accusate ingiustamente di essere vampiri e per questo perseguitati in modo atroce e vessatorio.
Infine, con la credenza popolare che queste leggendarie creature non potessero morire, se non infierendo nel loro petto con una bastone appuntito, le cronache di quei tempi annoverano molti casi di vilipendio di cadaveri.                                    















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lunedì 6 luglio 2020

La leggenda di Orfeo ed Euridice

                                                                                     

In una leggenda Orfeo viene descritto come un poeta e un musicista cantore, le cui doti erano da considerarsi sovrannaturali. Si narra che con la lira e con il canto riuscisse a superare la potenza ammaliante delle sirene, riuscisse a condizionare il comportamento di uomini e animali e addirittura riuscisse a placare la collera dei morti.

La leggenda di Orfeo è conosciuta soprattutto per la tragica storia d'amore condivisa con la driade Euridice, la ninfa delle querce, che tra l'altro era sua moglie.

La tragedia dei due innamorati iniziò il giorno in cui Aristeo, uno dei tanti figli di Apollo, che si era invaghito alla follia della giovane driade, pur avendo   ricevuto dalla ninfa vari rifiuti e determinato a conquistarla, iniziò a tormentarla con una corte spietata. Lei, per sfuggire alle ossessionanti attenzioni finì per calpestare un serpente, che reagì con un morso letale.



Lacerato per la perdita dell'amata, Orfeo decise di recarsi negli inferi per tentare di riportare in vita la sua sposa.

Una volta raggiunto lo Stige, il poeta venne fermato da Caronte, il traghettatore infernale e, lui, per convincerlo a farlo passare, prese il magico strumento e intonò una melodia che lo ammaliò.

Sempre con la musica e il canto, Orfeo riuscì a sedurre anche Cerbero, il mostruoso guardiano dell'Ade.

Superati i primi due ostacoli il poeta cantore si trovò davanti la prigione di Issione, re dei Lapiti, punito da Zeus per aver tentato di usare violenza alla divina Era. Il condannato era legato a una ruota in perenne movimento.

Impietosito dalle sue accorate preghiere, Orfeo suonò la sua lira e la ruota smise di girare. Ma si trattava di un effetto momentaneo poiché appena la melodia cessava la ruota riprendeva a girare.

 



Conscio dell’inutilità del suo intervento il musico, seppure a malincuore, riprese il cammino trovando davanti a sé la prigione di Tantalo, il feroce semidio, che aveva ucciso il proprio figlio per offrirne la carne agli dei e che aveva poi rubato l'ambrosia, il nettare divino, per  donarla agli uomini.

Tantalo fu così punito dal signore dell'Olimpo al terribile supplizio della fame e della sete. Il condannato avrebbe avuto a sua disposizione sia l'acqua per dissetarsi che il cibo per nutrirsi ma, essendo legato non avrebbe mai potuto alimentarsi e dissetarsi. Orfeo tentò di aiutarlo con la sua musica e con il canto, ma inutilmente perché il tormento del condannato era destinato a durare in eterno.

Dopo aver disceso mille gradini, il poeta si ritrovò nella sala del trono e finalmente incontrò Ade, il signore degli Inferi e sua moglie Persefone. Mentre il sovrano dormiva profondamente, la regina lo fissò a lungo senza proferire parola.



Il poeta distolse il suo sguardo e non indugiò oltre.  Prese la lira e intonò un dolce canto, con l’intenzione di indurre Persefone a rammentarsi della sua vita, prima che lei venisse rapita da Ade e costretta a sposarlo.

La voce melodiosa del cantore sortì l’effetto voluto, facendo riaffiorare ricordi della gioventù di Persefone e di un suo amore perduto, accomunando la sofferenza che ne derivò nel suo animo, con lo straziante dolore provocato a lui stesso dalla morte della dolce Euridice.

Infine, per tentare di convincere la regina dell'Ade a riportare in vita la sua amata, Orfeo le promise persino il ritorno di entrambi negli inferi al momento della loro morte.

La dea, commossa da tanta devozione si convinse. Approfittando del sonno del marito concesse a Euridice di tornare in vita e ai due sposi di lasciare gli inferi ma, solo a una condizione: Orfeo avrebbe dovuto abbandonare quel luogo di pena portando con sé la sua sposa, ma senza mai girarsi a guardarla fino all'uscita.

Il poeta accettò e s’incamminò. Per evitare di guardarla, la guidò mano nella mano e sempre badando bene di averla alle spalle ma, una volta arrivati alla soglia dell'Ade, convinto di essere ormai fuori, non seppe resistere alla tentazione di ammirare il volto dell'amata. Persefone, purtroppo, si trovava ancora all'interno e, nel momento stesso in cui lui si volse, vide la figura della giovane moglie svanire e tornare in eterno nell'oscurità. 



Straziato dal rinnovato dolore e consapevole che non l’avrebbe mai più rivista, Orfeo pianse per sette lunghi mesi suonando la sua lira.

Del finale di questa drammatica leggenda esistono diverse versioni. Secondo Virgilio, il poeta venne dilaniato dalle Ciconi, in collera per la troppa devozione del poeta alla sua defunta moglie, secondo Ovidio, invece, venne dilaniato dalle Menadi perché pare che Orfeo avesse sviluppato una passione per gli uomini.

In tutti i casi, si narra che la testa del poeta avesse continuato a cantare le sue melodie, benché fosse stata separata dal corpo e gettata nel fiume Ebro.

 


                                                                                                          



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