Fantasia

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La brama della scrittura arde come una fiamma in un cuor propenso. Vivì

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venerdì 4 marzo 2022

La leggenda di Virgilio, il mago benefico

 

Se per l’antica Roma il più grande poeta era Omero, per gli uomini medievali era Virgilio il più grande tra i Sommi, conosciuto soprattutto per l’Eneide, le Bucoliche e le Georgiche.

“Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope; cecini pascua, rura, deces. “

“Mantova mi ha generato, il Salento mi ha rapito la vita, ora Napoli conserva i miei resti; ho cantato pascoli, campi, eroi.”

È questo l’epitaffio che ricorda l’antico poeta, autore dell’Eneide, sul suo monumento funebre situato a Piedigrotta, in provoncia di Napoli.

Ed è risaputo che il Sommo poeta Dante Alighieri lo elesse come suo Vate e nella stesura del suo capolavoro “La Divina Commedia” lo volle porre come guida nel suo onirico e fantasioso viaggio per l’Inferno e il Purgatorio, mentre venne poi sostituito da Beatrice nel libro dedicato al Paradiso.    

 

 Ma, forse, non tutti sanno che nel capoluogo campano, Virgilio era anche conosciuto come il Mago benefico per via delle sue conoscenze e pratiche esoteriche.

A Virgilio, considerato eroe e protettore di Napoli, vennero attribuiti parecchi manufatti dalle proprietà magiche ideati dal poeta per difendere la città, che lo aveva amabilmente accolto e adottato, dalle calamità e per proteggere i suoi cittadini da ogni infausto evento.


Una leggenda racconta che Virgilio, quando furono poste le prime fondamenta del Castel dell’Ovo, ordinò che si inserisse all’interno dei mattoni una bottiglia di cristallo dal collo lunghissimo contenente un uovo e che aveva le funzioni di un Palladio. Il poeta profetizzò che in caso di rottura del guscio le mura stesse del monumentale edificio sarebbero crollate e sarebbe seguita la distruzione dell’intera città.

Quando però Napoli venne occupata dagli Imperiali si addusse l’invasione a un’incrinatura del cristallo.

In un’altra narrazione pare che Virgilio avesse ideato una mosca di bronzo, che venne posta su uno dei portali fortificati della città e che sembra avesse il potere di tenere lontana la miriade di insetti molesti e portatori di malattie che ossessionavano a quei tempi gli abitanti. Si narra inoltre di un cavallo di bronzo che manteneva in salute gli equini, a quei tempi unico mezzo per potersi spostare da un luogo a un altro. Le cronache narrano anche di un ennesimo prodigio effettuato dal mago che liberò Napoli  dalle molte serpi che la infestavano relegandole sotto una porta denominata Ferrea.

Infine, per preservare la città dalla minaccia incombente del Vesuvio, il poeta fece porre un arciere di bronzo con il dardo incoccato in direzione del vulcano ma accadde che un contadino e, si ignora ancora oggi come fosse possibile, fece scoccare la freccia provocando il risveglio del vulcano. 

          


Ma se per Napoli era diventato una specie di  idolo, quando le voci del potere del poeta arrivarono a Roma, le leggende si espansero anche nell’Urbe. Una su tutte fu proprio quella nota nel Medioevo come “Salvatio Romae”. Si narra che Virgilio fece costruire un palazzo, all’interno del quale pose delle statue dotate di un campanello, dedicate alle numerose province soggette all’Impero. Al minimo segnale di ribellione e sommossa, la statua allertava con uno scampanellio una copia dell’arciere bronzeo di Napoli che scoccava il dardo nella direzione segnalata allertando a sua volta l’esercito. 



                      
                                        


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sabato 26 febbraio 2022

La leggenda del toro rosso di Torino

 

Perché Torino si chiama così e perché ha per simbolo un toro rosso?

La leggenda narra che nei boschi, che circondavano il capoluogo piemontese nell'antichità, dimorava un drago terrificante, che seminava morte e distruzione terrorizzando gli abitanti.

Lo sgomento e la paura dilagavano, ma non per questo i torinesi persero la volontà di difendere le loro case e i loro cari.

Purtroppo, ogni loro tentativo di contrastare le fulminee e disastrose sortite del drago fallì miseramente. Nonostante la supremazia numerica degli esseri umani, le forze erano da considerarsi impari, sia per la mole del drago che per la potenza eruttiva delle sue fauci.  La creatura alata era enorme e in grado di emettere vampate di fuoco distruttive anche quando era in volo.

Considerata l’inutilità della loro strenua difesa, i cittadini decisero di inviare in loro difesa un colossale toro dall'indole selvaggia e dal manto rosso e in quell'animale riposero ogni loro speranza di salvezza. Per renderlo ancora più forte e determinato ricorsero a uno stratagemma inducendolo a bere un miscuglio di vino rosso e acqua.

Come previsto il toro divenne ancora più furioso e battagliero e quando lo condussero nel bosco e si ritrovò davanti al drago, senza mostrare nessun tipo di soggezione, vi si scagliò contro deciso a combattere.

Lo scontro tra le due mastodontiche creature fu feroce e avvenne sotto gli occhi spaventati e nel contempo speranzosi degli abitanti.

Dopo una serie infinita e cruenta di colpi, il toro riuscì a ferire il drago con le sue corna imponenti provocandone la rovinosa caduta quindi, prima che il rivale avesse modo di muoversi, sferrò il suo attacco mortale ferendolo nei punti vitali e uccidendolo.

Il popolo acclamò il suo salvatore e decise di inserirne la figura nell'emblema della città, in segno di profonda gratitudine.

Per i torinesi il Toro Rosso divenne una divinità tanto ammirata che pensarono persino di dedicare il nome della loro città  al salvatore dell’intera comunità.

                                             

                         

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martedì 22 febbraio 2022

La lupa mannara di Posillipo

 



Tra le tante leggende campane vi è anche quella di Iolanda Pascucci, una giovane donna che nasce a Roma nel 1921 e a soli dodici anni viene colpita da un male misterioso.

Iolanda trascorre la sua prima infanzia in modo abbastanza sereno e fino alla fatidica notte del plenilunio in cui si manifestano i primi sintomi del Mal di Luna.

In quell’occasione il corpo della ragazzina è pervaso da un tremore incontrollabile, la sua bocca inizia a emettere degli strani e profondi versi di gola, che ricordano molto quelli di un lupo. Iolanda non riesce a controllarsi e quei versi, che quasi certamente erano lamenti di dolore, si trasformano presto in forti ululati. Durante quella terrificante crisi la ragazzina avverte il fuoco ardere nelle sue vene e viene assalita da un bisogno urgente di acqua da bere e per spegnare l’incendio che sembra essere divampato in ogni fibra del suo corpo.

Superata la crisi, sfinita e terrorizzata, Iolanda, credendo di essere vittima di una maledizione, tenta di tenere segreto il suo dramma, ma i genitori lo scoprono ben presto e cercano, a loro volta, di nascondere agli altri quello che ritengono fosse una vergogna.

Il tempo passa e Iolanda, ormai cresciuta, si sposa e mette al mondo due figli. In quel periodo e, soprattutto con la seconda maternità, il male sembra superato e la giovane donna affronta la sua vita di moglie e di madre con grinta e serenità. Ma si tratta soltanto di una tregua. Difatti, i malesseri si ripresentano e la situazione le sfugge di mano. Nelle notti di plenilunio, con il timore e forse anche la consapevolezza di rappresentare un pericolo per il marito e per i figli, Iolanda si sente in dovere di allontanarsi dall’abitazione, per subire in perfetta solitudine le sue crisi.

Quando il marito ne scopre il segreto tenta di aiutarla, sottoponendola a delle cure mediche ma, purtroppo, nessun rimedio farmacologico riesce a mitigare quel male oscuro e alla fine, Iolanda decide di abbandonare per sempre la sua famiglia.

La sua fuga la porterà nel capoluogo campano e più precisamente a Posillipo, perché la donna spera che l’aria di mare le offra un po’ di giovamento e l’aiuti a risolvere il suo problema.

Ma c’è anche un altro motivo che ha spinto Iolanda fino a Napoli ed è la narrazione che farebbe il popolo alle misteriose guarigioni che avvengono in città. I napoletani raccontano di Virgilio Mago, il famoso e antico poeta eletto, dopo la sua morte, a protettore della città. Virgilio sarebbe l’artefice di antichi talismani che proteggerebbero Napoli da alcune calamità e che recherebbero sollievo e soluzione a parecchie malattie.  Iolanda è ormai convinta che non le rimanga altro che affidarsi alle pratiche della magia benevola.

Purtroppo, durante un plenilunio, la giovane donna è soggetta a una crisi violenta   e viene scoperta e bloccata dalla polizia locale, che la costringe a un ricovero presso l’ospedale degli Incurabili.

Le cronache di quei giorni raccontano di una creatura fuori di sé e indemoniata, che sbraita e ulula come un lupo famelico.

Il giorno dopo, però, quando i medici si recano a visitarla, la paziente è misteriosamente scomparsa nel nulla e nessuno sa darne una spiegazione.

Da quel giorno, nel capoluogo campano, si diffonde la voce di una lupa mannara e sono in molti a giurare di averne sentito gli ululati.

La storia di Iolanda Pascucci e della lupa mannara di Posillipo diventa una delle innumerevoli e misteriose leggende metropolitane.

                                       

                        


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giovedì 17 febbraio 2022

La leggenda della Pantafica

     


     

Questa leggenda è originaria dell'Abruzzo, ma ricorda molto quella dello Mazapègul, lo spiritello dispettoso di cui ho narrato in precedenza. Infatti, descrive anch’essa una mitica creatura che disturba il sonno dei dormienti posandosi sul loro petto e impedendogli di respirare e di muoversi. Il malcapitato di turno, nel caso specifico quasi sempre un uomo, si sveglierà di soprassalto col respiro mozzo e il suo sguardo smarrito e terrorizzato si troverà a fissare due pozzi di bracci ardenti.

Quelle braci sono gli occhi della Pantafica, o Pantafeche, spesso descritta come una strega o come lo spettro di una donna che si aggira nel cuore della notte sul luogo della sua morte e, che se trova il modo, si intrufola nelle case e assedia il sonno dello sventurato di turno. 

La Pantafica, oltre ad avere gli occhi iniettati di sangue, indossa una lunga e logora veste bianca ha i capelli candidi come la neve e il viso lungo e appuntito.

Capita a molte persone, di sovente, di svegliarsi di soprassalto nel cuore della notte con il respiro mozzo e con la raggelante sensazione di paralisi completa. Per la scienza  si tratta di apnee notturne e sarebbero più a rischio gli uomini ma, in Abruzzo, si pensa più a una spiegazione soprannaturale: la causa della paralisi del sonno sarebbe sempre la Pantafica.

Siccome l'incubo è vissuto come un trauma dal protagonista, la tradizione popolare ha escogitato alcuni rimedi per tenere lontana la spettrale creatura. La soluzione più semplice sarebbe quella di evitare di dormire supini, in modo da impedire che la creatura si possa accovacciare sul petto del dormiente, ma la sua efficacia sarebbe limitata fino al momento in cui il soggetto cambia posizione.

Il rimedio più consigliato, invece, sarebbe quello di lasciare sul comodino una fiaschetta di vino. Pare che la molesta visitatrice notturna ne sia ghiotta e in questo modo passerebbe la maggior parte del tempo a sbronzarsi.

Altri rimedi sono quelli di lasciare ai piedi del letto sacchetti colmi di legumi o di sabbia oppure una scopa di saggina. Si narra infatti che, proprio come le streghe, la Pantafica abbia la mania di contare le piccole cose e, con l’ingegnoso stratagemma, rimarrebbe impegnata tutta la notte dimenticandosi di torturare il dormiente.

Un ultimo e importante suggerimento è quello di evitare di lasciare oggetti appuntiti piantati nel legno perché lo spettro si innervosirebbe a tal punto da rivalersi sullo sventurato.


                       


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venerdì 11 febbraio 2022

La leggenda del Mazapégul

 



La leggenda di questa mitica creatura nasce in Emilia-Romagna e parla dell’esistenza di una famiglia di folletti della notte, che si aggira nelle pinete e nei boschi di questa regione.

Il nome del folletto è Mazapégul e si tratterebbe di uno spiritello molto piccolo e dispettoso, che cambia nome secondo la zona e secondo la tribù.  Difatti, è anche conosciuto come Mazapedar, Mazapigur e Calcarel. Il folletto, oltre a essere una creatura minuscola sembrerebbe un mix tra un gatto e uno scimmiotto, con il corpo ricoperto di pelo grigio e con l’unica e originale caratteristica di un buffo cappello sul capo.



Il Mazapégul sarebbe simbolo di sensualità e di passione erotica. Nei racconti popolari lo spiritello si aggirerebbe di notte nelle case abitate da giovani donne, e si trasformerebbe col proposito di conquistarle, assumendo le sembianze di un giovane uomo ardente e appassionato. Qualora la donna ne accettasse le attenzioni, il Mazapégul darebbe sfogo alla passione e al termine, dimostrerebbe la sua gratitudine all’amante con piccoli favori e rassettandole la casa.

Al contrario, se venisse respinto, arriverebbe a vendicarsi strattonandola, mordendo e graffiando e nascondendole gli oggetti più cari.


Lo spiritello è anche conosciuto come Incubus e descritto come “Maestro degli incubi”, difatti, si divertirebbe a entrare nei sonni dei dormienti e, posandosi sul torace del malcapitato di turno, ne renderebbe il respiro affannoso e provocandogli visioni terrificanti.

La leggenda narra che per fermare le malefatte dello spiritello occorre cercare di afferrarne il cappello che, un po' come per i capelli di Sansone, si dice sia la sede di tutti i suoi poteri. Di conseguenza, privandolo del copricapo e gettandolo lontano il Mazapégul perderebbe tutti i suoi poteri e, sconfitto, svanirebbe nel nulla.

                                 



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