Fantasia

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La brama della scrittura arde come una fiamma in un cuor propenso. Vivì

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lunedì 30 ottobre 2023

La leggenda di Jack O’ Lantern

 



Non tutti i diavoli sono perfidi, intelligenti o astuti e quello che andò incontro a Jack O’ Lantern, letteralmente Jack della lanterna, nella notte di Ognissanti, era appunto uno dei più sprovveduti. Jack era il fabbro del villaggio, un gran lavoratore ma anche un tipo dissoluto che amava bere fino a ubriacarsi. Beveva così tanto che il suo fegato era andato in pezzi e l’uomo si trovò, ben presto, a un passo dalla morte. Quella notte, per appropriarsi di quell’anima e farsi bello dinanzi ai demoni superiori, lo sprovveduto diavolo anticipò i tempi andando incontro al malato, molto prima che questi cessasse di vivere.



Ma l’uomo, non proprio felice di concedere la sua anima anzitempo, squadrò ben bene il demone valutandone il valore e tentò di impietosirlo domandandogli di poter bere un ultimo bicchiere. L’inesperto e ingenuo diavolo non trovò per nulla strana quella richiesta e accettò di esaudire l’ultimo desiderio del fabbro.

«Purtroppo, non posseggo nemmeno il becco di un quattrino! Non è che potresti trasformasti in una moneta da sei penny in modo che io possa pagare la bevuta?» domandò l’uomo in modo subdolo.

Lo sprovveduto diavolo lo accontentò ma, appena avvenuta la trasformazione, l’ubriacone lo rinchiuse nel suo portamonete in compagnia di un crocifisso d’argento.


Deluso, amareggiato e umiliato il demone fu costretto a sottostare al ricatto dell’umano barattando la sua libertà con la concessione di un ulteriore anno di vita.

Il diavolo se ne andò scornato e Jack decise di cambiare vita e non bere più ma i suoi propositi rimasero inattesi e, in breve, tornò all’esistenza dissoluta di prima così, un anno dopo, la notte degli Ognissanti il diavolo tornò per reclamare la sua anima.

Ancora una volta l’astuto fabbro riuscì a convincere l’ingenuo o stupido demone a esaudire un nuovo desiderio: «Prima di morire mi piacerebbe tanto assaggiare la mela più bella di quell’albero. Ma il ramo è troppo in alto per me e non ci arrivo. Mi aiuteresti a coglierla?»

Lo sprovveduto non rilevò nulla di strano nella richiesta e accettò ma mentre si arrampicava, l’uomo incise sul tronco una grande croce e il povero diavolo rimase appeso prigioniero del sacro simbolo cristiano.

Ancora una volta fu costretto a barattare la sua libertà e propose all’uomo di lasciarlo in pace per una decina di anni ma Jack rilanciò: «Se ti faccio scendere tu devi promettere che non tornerai mai più a pretendere la mia anima.»

Non potendo fare altrimenti il diavolo accettò e se ne andò ancora una volta scornato.

Jack visse ancora per un anno poi il suo fegato cedette e l’uomo morì. Non potendo certo presentarsi in Paradiso, Jack fu costretto alle porte dell’Inferno ma il demone a cui aveva inflitto così tante umiliazioni gli sbarrò la strada.


«Vattene da qui! Una promessa va mantenuta e della tua anima non so davvero cosa farmene!» sbraitò il povero diavolo.

Jack si volse indietro ma vide solo un’oscurità infinita e si spaventò per questo: «Non è che mi puoi aiutare a ritrovare la strada di casa?» domandò con la sua solita faccia tosta.

Infuriato per l’ennesima sfrontataggine il demone gli lanciò contro un tizzone infuocato, che Jack afferrò, infilandola poi in una zucca intagliata.

Da quella notte, se aguzzate bene la vista, vedrete una fiammella vagante nell’oscurità. Quella è la luce della lanterna di Jack, sempre alla ricerca della giusta via che lo riconduca nel mondo dei vivi e a casa sua.



Leggenda dal web
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sabato 22 aprile 2023

La leggenda di Pandagian

 

Un’antica leggenda indonesiana narra di una splendida fanciulla che amava sognare e amava la danza. Questa giovane donna si chiamava Pandagian e viveva in un villaggio con i genitori, i nonni e un fratello. La famiglia viveva in una capanna, in cui era possibile accedere soltanto con una scala intrecciata con i giunchi.

Tutte le sere Pandagian si ritrovava con gli amici in una radura e ballava e cantava fino al sorgere del sole.

Esausta ma felice tornava a casa attenta a non destare il padre, che sapeva contrario a questa sua passione per la danza.

A lungo andare il padre si stancò dei ripetuti ritardi e alla fine le proibì di uscire e di danzare.

Pandagian rimuginò tutto il giorno sull’ordine ricevuto ma, giunta la sera, non seppe resistere al richiamo della musica che avvertiva giungere dalla radura e, ignorando il divieto del padre uscì per incontrarsi con gli amici.

Scoperta la sua assenza l'uomo si infuriò e ordinò al figlio maggiore di ritirare la scala di giunchi, in modo da impedire il rientro della ragazza nella capanna.

Ignara di quanto stava avvenendo Pandagian continuò a danzare, sognando a occhi aperti e ammirando il cielo trapuntato di stelle. A un certo punto le parve anche di vedere Riamasan, il principe della notte, che le sorrideva solcando il cielo sul suo carro d’argento.

Quando all’alba tentò di rientrare, accorgendosi della mancanza della scala intuì che suo padre la stava punendo e si disperò lanciando richiami e supplicando la sua famiglia di permetterle di rientrare. Nessuno le diede ascolto e Pandagian, ormai in preda alla malinconia rifletté sul modo di farsi perdonare ma anche che, da lì in poi, non avrebbe più potuto danzare.

Quel pensiero le procurò immenso dolore e per distrarsi si mise ad ammirare il cielo e a sognare di poter danzare tra le stelle con il bel principe della notte.

Fu in quel momento che vide scendere dal cielo una fune d’argento a cui era assicurata una seggiola d’oro. Pandagian vi si sedette e la sedia iniziò la risalita, solo allora intuì che Riamasan aveva percepito le sue preghiere e l’aveva accontentata.

Quando arrivò all’altezza della veranda urlò il suo ultimo saluto alla famiglia: «Madre! Nonni! Fratello! Me ne vado per sempre! Addio padre mio!»

Inutilmente la sua famiglia tentò di convincerla a restare promettendo, addirittura, che le avrebbero concesso di danzare quanto più le piaceva. Pandagian non ascoltò perché ormai aveva deciso di lasciare la terra per il cielo e di realizzare così tutti i suoi desideri.

In alto, tra le stelle trovò ad attenderla Riamasan, bellissimo e sorridente, proprio come lei lo aveva visto nei suoi sogni.

Riamasan rimase incantato dalla grazia e dalla bellezza della fanciulla e le propose subito di sposarlo e di diventare lei stessa la principessa del cielo notturno.

Pandagian accettò con tutto il cuore e i due giovani vissero un periodo molto felice tra le stelle.

Purtroppo, come tutte le cose belle, anche la loro storia era destinata a finire. 

Accadde che un giorno, nel sorvolare le acque argentine di un fiume, la giovane venne assalita da una gran voglia di nuotare e, senza avere l’accortezza di avvertire l'innamorato, si tuffò godendo della frescura e della limpidità di quelle acque che scorrevano tranquille.

Alla fine, esausta si sdraiò sull’erba e si addormentò.

Purtroppo, il principe del sole, fratello maggiore di Riamasan, invidioso di tutto ciò che di bello apparteneva o che si era conquistato il fratello minore, scagliò un dardo di fuoco diritto al cuore della giovane dormiente.

Pandagian morì e furono le stelle stesse che, addolorate, portarono la brutta notizia al marito della giovane danzatrice.

Riamasan accorse accanto al corpo della fanciulla e si disperò, piangendo lacrime lucenti. Quando infine si calmò, fece un gesto verso il cielo e, in quel medesimo istante, il corpo di Pandagian svanì e al suo posto comparvero tante stelle.

Il principe le scagliò nel cielo, tutte tranne una, la più bella e la più splendente che contemplò tra le mani. Riamasan l’ammirò a lungo, finché gli parve d’intravedere il sorriso splendente della giovane moglie. In quel momento rammentò le suppliche del padre e della famiglia a rimanere sulla terra e allora frantumò la stella in mille e più pezzi e le scagliò sulla terra.  «Trovate i suoi genitori e brillate portando loro il suo ricordo in eterno!» ordinò.

I minuscoli pezzi luccicanti si trasformarono in lucciole intermittenti e, quando i genitori quella sera stessa ne notarono la danza intorno alla capanna, associarono quel volo spettacolare alla loro figliola che danzava per loro. 

La danza della donna libera! Libera di scegliere, danzare e... brillare in eterno!



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martedì 18 aprile 2023

Il Mito di Europa

 




Forse non tutti sanno che su alcune monete da due euro sono raffigurati i due protagonisti di questa antica leggenda greca che

narra la storia di Europa, principessa fenicia figlia di Agenore, re di Tiro e Telefassa.

Europa era una splendida e giovane fanciulla con la mente e il cuore pieni di sogni, di speranze e di ambizioni per il suo futuro. Un giorno, mentre raccoglieva fiori e giocava sulla spiaggia con un gruppo di compagne, venne adocchiata da Zeus, il Signore dell’Olimpo e padre di tutti gli dèi.

Zeus era anche il più potente dio del regno celeste ma, forse, anche il più lussurioso e il più fedifrago e, appena notata la splendida fanciulla se ne invaghì.

Del tutto privo di scrupoli Zeus comandò a Ermes di radunare sulla spiaggia una mandria di giovenche, quindi, prese lui stesso le sembianze di uno splendido bovino per confondersi nel branco.

La magnificenza dell’animale dal manto candido e la sua possanza risaltarono subito sulla banalità di quello delle giovenche e attirarono l’attenzione della giovane principessa che ammirava la mandria da lontano.

L’inganno perpetrato da Zeus non avrebbe potuto riuscire se la fanciulla rimaneva distante, quindi, il toro si avvicinò lentamente e si sdraiò ai suoi piedi sfoggiando la massima mansuetudine.

Europa, finalmente certa della sua mitezza accarezzò il bel manto candido offrendogli addirittura fiori freschi. Nel momento in cui la giovane salì sul dorso del toro scattò la trappola: Zeus la rapì e la trascinò con sé a Cnosso, sull’isola di Creta.

Europa resistette in tutti i modi alle lusinghe e ai tentativi di violenza e riuscì a fuggire, ma Zeus, assunte le sembianze di un’aquila, la raggiunse ed ebbe il sopravvento in un bosco di salici.

Da quelle unioni nacquero tre figli tra i quali Minosse, re di Creta, Radamanto, giudice degli Inferi e Sarpedonte, in seguito adottati dal compagno mortale di Europa, Asterione, re di Creta.



Prima di lasciare la giovane donna, Zeus, forse per un improvviso scrupolo e tardivo pentimento, lasciò tre doni alla vittima della sua libidine: Talos, un gigantesco automa di bronzo invulnerabile e guardiano di Creta, Lelapo, un cane addestrato e un giavellotto dall’infallibile mira. Quest’ultimo, si rivelò un regalo sfortunato perché fu proprio con quell’arma che il marito l’uccise accidentalmente durante una partita di caccia.

La leggenda termina con i fratelli di Europa che vagano per mari e per monti alla ricerca della fanciulla, smarrita per sempre.



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martedì 14 marzo 2023

La leggenda della Bora

 


Molto, molto tempo fa, il dio del vento Eolo amava viaggiare per il mondo con l’allegra brigata composta dai figli.

Un giorno giunsero su un verde altipiano a strapiombo sul mare e Bora, la più bella tra i figli di Eolo, ne rimase tanto affascinata che decise di esplorare il luogo dall’alto.

Bora si librò nel cielo e prese a correre tra le nuvole scompigliandole per avere migliore visuale e per visitare più posti possibili. Ma la giovane si stancò ben presto e cercò riparo dentro una grotta per riposare in tutta tranquillità.

In realtà, al riparo di quelle rocce vi era l’eroe umano Tergesteo, che di ritorno dall’impresa del Vello d’Oro, lo aveva già eletto  come suo rifugio.

Il giovane eroe era così bello e così prestante che Bora se ne innamorò subito. A sua volta, Tergesteo al risveglio rimase colpito dal fascino della fanciulla e finì per ricambiare il sentimento.

Presi dalla passione i due innamorati vissero giorni felici in quella grotta dimenticandosi del resto del mondo.



Quando Eolo si rese conto della prolungata assenza della figlia, si mise furiosamente alla sua ricerca provocando burrasche e tempeste fino a che, un nembo stanco del trambusto provocato dal dio, gli suggerì il luogo in cui si nascondeva Bora.

Eolo ritrovò la figlia stretta tra le braccia dell’amante e folle di rabbia e gelosia si trasformò in un ciclone che travolse il giovane eroe. Privo di ogni difesa atta a contrastare quella collera suprema, Tergesteo rovinò per terra e venne scaraventato più volte contro le rocce con violenza sbattendo più volte la testa e rimanendo mortalmente ferito.

Subito dopo Eolo lasciò la grotta abbandonando la figlia immersa nel suo dolore.

In preda alla disperazione Bora si lasciò andare in un pianto a dirotto e la leggenda narra che le sue lacrime si trasformarono in pietre. Il suo pianto accorato attirò l’attenzione di Madre Natura, che si impietosì e decise di trasformare il sangue del giovane eroe in un Sommaco, una pianta che ricopre di rosso tutta la regione del Carso.



La notizia dell’efferato delitto si propagò per tutto l’Olimpo ed Eolo fu costretto ad ammettere il suo tragico errore. Per porvi rimedio, il dio del vento permise alla figlia di ricongiungersi all’innamorato ogni anno per tre, cinque o sette giorni d’amore.

Anche il dio Nettuno intervenne ordinando alle Onde di ricoprire il corpo dell’eroe di alghe, stelle marine e conchiglie per tramutarlo in un colle.

In seguito, ai piedi della collina nacque una città a cui venne dato il nome dell’eroe e diventata col tempo Trieste.

Ancora oggi e, periodicamente, si scatenano la furia e la disperazione di Bora, che soffia e che impazza per vie della città.







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giovedì 2 marzo 2023

La leggenda dell ‘Etna

 



“A muntagna” così i siciliani chiamano il loro vulcano Etna, altrimenti conosciuto come Mongibello.
Il vulcano è vivo, brontola tanto dal profondo, fino a fare tremare la terra intorno; sbuffa lunghi soffi di fumo dal cratere e ogni tanto si arrabbia fino a esplodere, eruttando lava incandescente e offrendo uno spettacolo straordinario al mondo intero.
L’Etna ha dato origine a innumerevoli leggende e una tra le più suggestive è quella che narra di Encelado, fratello maggiore di tutti i giganti.
Encelado veniva descritto come un tipo molto ambizioso, dall’indole collerica e dall’aspetto trasandato. Portava i capelli molto lunghi e sfoggiava una barba importante e incolta a cornice dei tratti granitici del suo volto. Si narra che la sua bocca pareva una fornace e, pare che quando si arrabbiava, sputasse scintille di fuoco che spargendosi intorno, gli incenerivano barba e capelli, che in seguito ricrescevano più folti e ispidi di prima.


Desideroso sempre più di potere e folle di gelosia nei confronti di Giove, il padre di tutti gli dèi e Signore dell’Olimpo, Encelado progettò di raggiungere il regno situato nel cielo, combattere con il sovrano e conquistarne il trono.
Essendo un autoritario, il gigante riuscì a soggiogare i fratelli minori e a convincerli ad aiutarlo ad ascendere fino all’Olimpo comandando loro di porre una sull’altra le cime più alte del pianeta Terra. Così i giganti iniziarono a sovrapporre sull’Etna il Monte Bianco, quindi Pindo della Grecia e le più alte vette asiatiche. Ma le cime non bastarono ed Encelado sbraitò contro i fratelli: «Prendete anche i monti africani! Solo così arriveremo in cielo!»
I giganti ubbidirono ma, quando furono a un passo dal regno degli dèi, Giove finalmente se ne accorse e si adirò. Il sovrano scagliò i suoi fulmini contro i giganti accecandoli e facendoli precipitare. Subito dopo bersagliò le montagne riducendole in frantumi, che franarono sui colpevoli seppellendoli.


Anche Encelado rimase coinvolto nella valanga di detriti e pietrisco e, sebbene ancora vivo, rimase sepolto nel ventre dell’Etna.
Impossibilitato a muoversi, la frustrazione e la collera del gigante aumentarono a dismisura, tanto, da fargli vomitare fuoco e lapilli che risalirono raggiungendo il cratere del vulcano.
La rabbia di Encelado si trasformò in lava incandescente, che quel giorno colò lungò gli scoscesi pendii provocando morte e distruzione nei villaggi intorno e costringendo la gente alla fuga.
In seguito il gigante si acquietò, addormentandosi ma, periodicamente si risveglia, così come la sua collera e torna a scagliare fuoco e lapilli anche fino al cielo.




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venerdì 17 febbraio 2023

La leggenda del mandorlo

 






Alla fine dell'inverno, tra febbraio e marzo, le campagne siciliane indossano un'eterea livrea offrendo uno spettacolo incantevole agli occhi e alla mente dei visitatori.

I mandorli anticipano la primavera colorandosi di bianco e di rosa tenue e la loro fioritura è simbolo di rinascita e di speranza.

Secondo un'antica leggenda greca, Acamante, giovane eroe greco figlio di Fedra e di Teseo, si trovava in viaggio verso Troia. Durante una sosta in Tracia conobbe la principessa Fillide e due si innamorarono perdutamente promettendosi, poi, amore eterno.

Purtroppo, essendo destinato a combattere la guerra di Troia, il giovane fu costretto a partire lasciando l'amata in preda alla disperazione.

Fillide attese per dieci lunghi anni il ritorno dell'innamorato ma, quando seppe della caduta di Troia e non lo vide tornare, lo immaginò perso per sempre e si lasciò andare morendo, infine, di dolore.

La dea Atena venne a conoscenza della struggente storia d'amore e della tragica fine della giovane donna e si impietosì, talmente, da decidere di trasformare Fillide in un mandorlo.

Quando Acamante tornò, non trovando l'innamorata si disperò, ma venne anche a conoscenza della prodigiosa trasformazione e si recò sul posto a piangere il perduto amore. Nel momento dell’addio abbracciò il tronco del mandorlo con dolore e trasporto immenso.


La creatura silvestre avvertì in quell'abbraccio un amore profondo e rispose al sentimento facendo spuntare sui rami scheletrici degli splendidi boccioli bianchi con sfumature rosa.

Anticipando la primavera, quell'abbraccio amorevole si rinnova ogni anno rivestendo i rami di colore e testimoniando l'amore eterno dei due leggendari innamorati.

Nella Valle dei Templi, ad Agrigento, ogni anno a inizio marzo si festeggia per tradizione il rifiorire dei mandorli che simboleggiano il ritorno alla vita.


                    



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lunedì 6 febbraio 2023

La leggenda delle pesche sacre

 





La leggenda narra di un uomo che si recò a pescare in un lago incastonato in una piccola valle tra le cime di alcune alte montagne. L'uomo percorse il lago sopra una zattera finché, scoprendo un’insenatura sconosciuta vi entrò, quindi, accostando a una delle rive rocciose scorse, celata tra gli arbusti, l'ingresso di una grotta.   Incuriosito il pescatore vi si addentrò fino a che sbucò in una misteriosa vallata del tutto invisibile dall'esterno. L'uomo si aggirò nella zona come ammaliato dalla bellezza del panorama bucolico ricco di campi fioriti e di alberi di pesco, finché incontrò gli abitanti del luogo che si mostrarono cortesi e disponibili. Gli sconosciuti lo invitarono a visitare il villaggio offrendogli anche cibo e ospitalità. L'uomo mangiò a sazietà e finì il suo pasto assaggiando una pesca dalla buccia vellutata. Le stesse pesche che aveva ammirato sugli alberi della valle.                                 

Il pescatore trovò quel luogo tanto ameno e accogliente da pensare di rimanervi per tre giorni prima di decidere di far ritorno tra la sua gente. Accadde però che al suo rientro al villaggio il pescatore non riconobbe più i luoghi e non riuscì nemmeno a capire dove si trovasse.  Non trovò nemmeno gli amici e i parenti che vi aveva lasciato e si rese anche conto che persino nella sua dimora vivevano persone sconosciute.  Quando chiese spiegazioni alla gente dichiarando la sua identità non gli credettero, fino a che gli anziani del villaggio rammentarono la storia di un uomo vissuto trecento anni prima e misteriosamente scomparso tra quelle montagne. Gli dissero anche che la vedova del pescatore si era disperata per giorni e aveva dovuto allevare i loro figli da sola. Uno dei discendenti dello scomparso viveva ancora al villaggio e forse era disposto ad accompagnarlo alla tomba di famiglia. 

Il pescatore non diede credito a tutte quelle che considerava solo fantasticherie e si disperò nel tentativo di spiegare che l'uomo scomparso era proprio lui e che era stato lontano soltanto tre giorni. Gli abitanti lo compatirono pensando che fosse solo un folle. L'uomo tornò allora sulla montagna e ritrovò il lago, ma si aggirò per giorni e giorni senza più riuscire a trovare la misteriosa grotta e nessuno sentì più parlare di lui. La gente del villaggio non credette alla storia raccontata dal pescatore, ma l'idea che potesse esistere un luogo dove crescevano alberi di pesco, che producevano frutti dai poteri straordinari si diffuse in tutto il paese. Il monte in questione venne battezzato Sondo, il monte delle pesche sacre, il nome con cui è conosciuto ancora oggi nella Corea del Sud.

                                      


                          Leggenda dal web elaborata dall'autrice del blog