Fantasia

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La brama della scrittura arde come una fiamma in un cuor propenso. Vivì

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sabato 29 maggio 2021

Il monastero del Canto del Vento (3a parte)










Il ciglio del baratro si trovava a una decina di metri sulla mia testa e io ero ormai esausto. 

Dovevo riprendere fiato, ma non ne avevo il tempo. Mi volsi verso l’altra sponda e vidi gli inseguitori che mi guardavano sghignazzando. Dovevo affrettarmi. Prima o poi si sarebbero resi conto che ero un facile bersaglio per le loro frecce.

Urlai ai compagni di portare in salvo la famigliola, ma solo uno di loro ubbidì all’ordine. Gli altri si sdraiarono sull’orlo dell’abisso e incoccarono a loro volta i dardi ai loro archi.   Avevano formato una barriera difensiva e chiunque dall’altra parte avesse tentato di colpirmi, avrebbe a sua volta offerto un valido bersaglio. Li ringraziai mentalmente e iniziai la faticosa arrampicata.

I bicipiti, rimasti troppo a lungo sotto sforzo, mi cedettero e dovetti lottare per rimanere appeso. Sentii chiaramente i miei compagni urlare ma fu solo per un soffio e, per pura fortuna, che non precipitai.

Emisi un sospiro di sollievo e ringraziai mentalmente la mia buona sorte ma, in quel momento, iniziai anche a temere di non farcela! Ero rimasto privo di energie e forse anche della volontà di rimanere appeso. I muscoli delle braccia mi bruciavano per lo sforzo e tremavo in ogni fibra del mio essere. Guardai all’insù. La distanza da coprire non era molta ma a me sembrava enorme. Eppure, scrollai la testa da ogni cattivo pensiero cercando di attingere all’istinto di sopravvivenza le ultime stille di energia. Non dovevo cedere alla disperazione. La salvezza era lì in alto, a pochi metri dalle mie mani.

Tesi disperatamente le braccia riuscendo ad aggrapparmi e ritrovandomi a oscillare come un pendolo, con le mani appese alla parete a strapiombo.

Il cuore mi martellava alle tempie ed ero ormai a corto di ossigeno; cercai un appoggio con i piedi senza trovarlo, ma le mie mani scivolavano lentamente e perdevano la presa.

Sapevo di non poter resistere ancora per molto in quella posizione.

Sebbene fossi riuscito a raggiungere la cima del burrone ero a un passo dalla morte!

Nessuno poteva aiutarmi. Risi amaramente dentro di me e, forse, dissi anche addio a tutte le cose belle, gli eventi e le avventure vissute durante la mia breve esistenza.

Fu proprio il mio amico Tien Wong ad accorrere in mio soccorso con un altro compagno.  Tien tese le braccia al massimo pur di raggiungere le mie mani, ma nonostante tutti i suoi sforzi riuscì soltanto a sfiorarmi le dita.  Eravamo ancora troppo lontani. Scossi la testa, ringraziandolo mentalmente per la sua generosità, ma lui non si arrese. Allora compì un gesto eroico mettendo a repentaglio anche la sua incolumità pur di salvarmi la vita. Un gesto che avrei ricordato in eterno.  Tien chiese al compagno di afferrarlo per le caviglie e si fece calare lungo la parete dell’orrido a testa in giù. In quel modo riuscì ad afferrarmi per le braccia e ci ritrovammo a scrutarci negli occhi.

«Pazzo!» lo rimproverai, pur provando un immenso sollievo per i miei poveri muscoli e per la mia stessa vita. In quel momento, però, le nostre esistenze erano affidate alla forza, al coraggio e alla resistenza del compagno che, sdraiato sul ciglio, sosteneva il peso di entrambi. Quel giorno, comunque, le stelle erano con noi! Non solo ci difesero dalla pioggia di frecce che ci cadeva intorno, ma diedero anche le energie necessarie al nostro compagno affinché riuscisse a sollevarci entrambi.

Quando finalmente mi ritrovai in salvo, li guardai con il cuore colmo di ammirazione e di gratitudine. Come avevo potuto dubitare?

Il terrore del precipizio mi aveva annebbiato la mente, e fatto sottovalutare la solidarietà dei compagni, il loro sprezzo del pericolo e la prontezza di spirito. Avevano sfidato un nugolo di frecce per aiutarmi e io gliene ero grato.

I dardi piovevano intorno a noi, ma io mi reggevo a stento sulle gambe. Mi ripararono con il loro corpo e mi sostennero mentre correvamo al riparo.

Quando arrivammo mi lasciai cadere a terra, esausto e stressato dalle tante emozioni vissute. I bambini mi circondarono, salutandomi con urla e salti di gioia mentre, l’imperatrice, socchiuse gli occhi e annuì dolcemente con il capo.

Non disse una parola, ma nei suoi occhi lessi il sollievo e la contentezza.

Volsi ancora uno sguardo ai nemici al di là del burrone. Tra noi e loro c’era l’abisso e se non rinunciavano a inseguirci, erano costretti a fare un lungo giro per raggiungerci. Almeno per il momento, eravamo in salvo.

Resisi conto che la loro preda era sfuggita, erano lividi di rabbia. Inveivano e continuavano inutilmente a bersagliare la nostra sponda di frecce. I miei compagni li derisero e per qualche istante, mentre riprendevo fiato, li lasciai fare, quindi ordinai di riprendere il cammino.

La notte, scesa improvvisa, era troppo oscura senza la perlacea luce della luna, coperta da un cumulo di nuvole ma, in compenso, c’era una distesa di stelle occhieggianti da lasciare senza fiato.

Trovammo un riparo tra le rocce, perché i bambini mostravano segni di stanchezza e, sinceramente, anche noi eravamo esausti.  Dopo essermi assicurato che la famiglia reale avesse abbastanza agio, mi rilassai. Finalmente potevamo riposare tranquilli. Non sussistendo nemmeno più il timore di essere individuati da lontano, accendemmo dei falò per riscaldarci dal vento gelido della notte, e per cuocere un po' di carne sulla brace. Le nostre riserve di cibo erano poche e furono in molti quelli tra noi adulti a rinunciare alla loro porzione di carne per nutrire i piccoli. Ben presto avremmo dovuto tornare a cacciare.

Intorno al fuoco ringraziai i miei compagni per il loro pronto intervento e in modo particolare Tien Wong: «Rimango in debito con te, amico mio! Hai rischiato la vita per salvare la mia.»

Lui scosse la testa in modo modesto: «Scommetto che avresti fatto altrettanto per me, Hui!»

Annuii, ma avvertivo l’emozione crescere nel mio petto e per evitare i lucciconi agli occhi, li abbassai e gli protesi il pugno. Lui fece altrettanto e ci toccammo: «Non lo dimenticherò mai, Tien!»

«Lo so!» concluse, sorridendo.

Dopo aver disposto per precauzione i turni di guardia, mi abbandonai finalmente a un sonno ristoratore. 

Monastero Del Canto del Vento

 

I miei compagni mi avevano permesso di sospendere il racconto di mio padre e delle sue avventure con la famiglia reale solo dopo che ebbi promesso che avrei continuato la sera dopo. Così ci addormentammo, fantasticando sulle imprese dei grandiosi monaci guerrieri. Io, in particolar modo, avevo impressa nella mente la figura di mio padre mentre affrontava le innumerevoli insidie della montagna, e quell’immagine mi accompagnò anche dopo aver oltrepassato la soglia del regno onirico.

Il mattino dopo il Venerabile Padre mi mandò a chiamare. Mi affrettai a raggiungerlo e mi inchinai nell’antico saluto, così come ci era stato insegnato e sentivamo doveroso fare noi tutti davanti al sommo capo del monastero. Mi portai la mano aperta sul cuore, quindi sulla fronte e attesi a capo chino che parlasse.

Si trattava di una personalità carismatica, dal passato glorioso, che aveva vissuto un’esistenza avventurosa, combattuto innumerevoli battaglie con una serie infinita di vittorie. Oltre a essere in soggezione ero talmente emozionato, che sentivo il cuore battere forte nel petto.

«Salute a te, Hui Ling! Ho avuto il privilegio di conoscere tuo padre, e anche quello di combattere al suo fianco» mi salutò il santo uomo, dopo avermi studiato per qualche secondo.

Ora potevo parlare. Cercai di dare alla mia voce un’intonazione umile, poiché mi trovavo davanti a una persona la cui aurea mistica suggestionava tutti noi giovani aspiranti monaci.  La sua fama incuteva un grande timore reverenziale.

«Mio padre mi ha parlato di te, venerabile padre!  Sono onorato di fare la tua conoscenza e di far parte di questo onorevole gruppo!» risposi, rivolgendomi alla sua persona con il temine più appropriato.

Il Gran Maestro non rispose subito, ma per lunghi istanti si limitò a scrutarmi con attenzione. Mentre lui squadrava ogni centimetro del mio corpo, valutandone la solidità e la prestanza, approfittai di quei momenti e studiai il suo volto con altrettanta curiosità. Non so con quale temerarietà lo feci. Forse fu l’ardore giovanile, che mi spingeva a desiderare di essere come lui e riuscire un giorno a emularne la personalità e le gesta.

Poi, inevitabilmente, i nostri sguardi si incrociarono e io avvertii il mio volto in fiamme. Chinai il capo e percepii che mi stava sondando l’animo.

«Guardami, Hui!» mi disse, mentre un lieve sorriso gli increspava le labbra.

«Trovo che assomigli molto a tuo padre e ne sono lieto, inoltre, i tuoi insegnanti mi hanno parlato bene di te e dei progressi da te acquisiti ogni giorno di più in questa nobile arte. So che stai raccontando la storia di tuo padre e della famiglia imperiale ai tuoi compagni.  Io ero al suo fianco in quei giorni e ne sono testimone. Ricordo con grande orgoglio le traversie vissute da noi tutti durante quella terribile traversata del passo e della discesa dalla montagna. Non serve che ti dica che tuo padre si è comportato eroicamente, salvando la vita a tutti noi.  Quando è stato costretto a lasciare il monastero, dopo aver subito la mutilazione, tanti di noi hanno versato lacrime di amarezza.»

Le sue parole mi avevano sorpreso e commosso. Ignoravo il fatto che conoscesse mio padre e che addirittura avessero vissuto insieme quell’avventura.

«Venerabile padre, forse sarebbe più giusto che raccontaste voi ai miei compagni ciò che accadde in quei giorni!»

«No, mio caro ragazzo! Penso che sia più giusto che lo faccia tu! Solo una cosa ti domando. D’ora in poi dovrai farlo nella sala delle udienze, in modo che la storia gloriosa dei monaci guerrieri, venga sentita da tutti gli abitanti del monastero. Te la senti di farlo, figliolo?»

«Ci proverò, maestro!» risposi all’onorevole decano.

Il saggio uomo mi congedò, ma mi parve di sentire il suo sguardo accompagnarmi benevolmente al di fuori di quella stanza.

Quella sera, subito dopo cena, fummo convocati tutti nella sala delle udienze. Mi fecero salire nel pulpito situato al centro di quella grande sala cerimoniale, e lì con voce rotta dall’emozione, dapprima tentennante e poi sempre più decisa, ricominciai il mio racconto. Erano presenti molte decine di persone, tutte pronte ad ascoltarmi e per me fu assai difficile concentrarmi.

 

Montagna Sacra 20 anni prima

 

“Avevamo dovuto abbandonare i cavalli al di là del burrone e passata la prima euforia per aver superato il terrificante ostacolo, noi adulti fummo di nuovo presi dall’ansia nel constatare la reale drammaticità delle nostre condizioni.

Eravamo sperduti in mezzo alle montagne con temperature rigidissime, il tempo che non prometteva nulla di buono e, per finire, senza acqua e senza viveri di scorta.

La mia maggiore preoccupazione erano i bambini. Mi domandavo quanto fossero in grado di resistere in condizioni talmente estreme, da minare anche la resistenza di uomini temprati.

Nonostante l’inquietudine che cresceva di ora in ora, cercai di scacciare ogni pensiero importuno e impegnarmi ancora di più al fine di limitare al massimo i loro disagi e le sofferenze.  Dovevamo ringraziare gli dei tutti quanti se eravamo ancora vivi e solo il fatto di essere ancora tutti insieme e in buona salute doveva bastarci.

Mi addormentai comunque, pensando ai problemi che avrei dovuto affrontare l'indomani, senza presagire che quello che ci attendeva era ancor peggio di quanto era già avvenuto.

Quando vennero a svegliarmi per il mio turno di guardia, aveva appena iniziato a nevicare. Perlomeno, avevamo risolto il problema dell’acqua, considerato che si poteva sciogliere la neve e bollirla.

Ma ero altresì consapevole che una semplice nevicata a quell'altezza, in pochi minuti poteva trasformarsi in una tormenta, che avrebbe potuto continuare per giorni e giorni, ininterrotta. Se ciò fosse accaduto, saremmo rimasti isolati e bloccati. Non potevo permetterlo, non con i bambini al seguito e privi di scorte di cibo. Dovevamo assolutamente andare a caccia.              

Ognuno di noi era un abile cacciatore. Eravamo stati addestrati al tiro con l’arco, e a quello della lancia, e con quelle armi, ben poche prede potevano sfuggirci.

Il solo dubbio che condividevo con i miei compagni era: dove trovare le prede a quell’altezza e con quel tempo?

Nessuno ebbe il coraggio di palesare il problema davanti ai bambini e ognuno di noi tacque, mostrando invece sicurezza.

Ci prese la smania di scendere di quota e ci preparammo a ripartire. Senza più cavalcature, ognuno degli adulti si fece carico di assicurarsi uno dei piccoli sulla schiena, e ci avviammo sul sentiero in discesa.

Mai decisione si rivelò più azzardata!

Come avevo paventato, dopo nemmeno un'ora arrancavamo in mezzo a una tormenta spaventosa. Non potevamo proseguire e nemmeno tornare indietro. I piccoli ricominciarono a piangere per il freddo.

Il rischio più grande, pensai, era che qualcuno cadesse in un crepaccio. Per questo decisi di fermarci, dovevamo assolutamente trovare un rifugio.

Liberai tre miei compagni dal fardello che portavano sulla schiena mandandoli in esplorazione. Non prima di aver segnalato loro, tramite un pezzo di stoffa rossa attaccata a un ramo, il punto preciso in cui ci eravamo fermati, cosicché avrebbero potuto ritrovarci anche in mezzo alla bufera.

Con gli altri miei compagni mi diedi da fare per costruire un riparo provvisorio, che seppur precario, ci avrebbe aiutato, sin quando gli altri non avessero trovato un rifugio più sicuro.

Legai saldamente le nostre coperte l'una all'altra a dei pali di fortuna, e sotto quella tenda improvvisata cominciammo l'attesa.

Solo due di loro fecero ritorno. Uno era ferito, mentre del terzo non si seppe più nulla.

Perlomeno i due avevano trovato un possibile ricovero in una caverna, dove ci dirigemmo subito.

Legammo di nuovo i principi l’uno all'altro per il timore che si smarrissero in mezzo al turbinio della fitta nevicata, e assicurammo ancora una volta i più piccoli sulla nostra schiena, affinché non sprofondassero nella coltre nevosa già alta.

Anche l'imperatrice avrebbe voluto farsi carico di un piccolo ma io glielo negai. Già si proseguiva a stento sulla neve alta e nella bufera e se glielo avessi concesso si sarebbe trovata presto in grande difficoltà. «No, mia signora. Ci pensiamo noi a portare i bambini.» le dissi, in modo deciso. Lei annuì, anche se le lessi nello sguardo che non era d’accordo.

Misi Tien ad aprire la marcia, e un altro in retroguardia. Eravamo tutti con i sensi all'erta, poiché il pericolo che qualcuno cadesse in una voragine era altissimo. Fu allora che avvertii il lugubre richiamo.

In principio, mi parve il sibilo del vento che soffiava impetuoso sferzandoci la pelle con le sue carezze gelide, ma poi tesi le orecchie e questa volta non potei fare a meno di rabbrividire. Non era il freddo! Erano ululati, e anche abbastanza vicini.

Lupi, tanti! Percepii, più che vederla, la manovra di accerchiamento. In quel momento eravamo vicini al rifugio, ma davo per scontato che avremmo dovuto difenderci in mezzo alla tormenta.

Sentivo gli ululati e i ringhi molto vicini, e ordinai di fermare la colonna disponendoci in un cerchio difensivo attorno ai bambini.

continua...


                                                                            



Racconto pubblicato nel 2012 da Garcia edizioni
immagi Phoneky e Pinterest


venerdì 28 maggio 2021

Il mito di Giacinto e di Apollo

 


Chi dice che l’amore sia lecito e naturale solo se nasce tra persone di sesso diverso? L’amore per me è come un fiore scaldato dai raggi del sole o, illuminato indifferentemente, da quelli della luna. Forse che quel fiore è meno bello, colorato o profumato?  Ebbene, io credo di no! L'amore, in tutte le due forme e direzioni, è il sentimento più bello e importante del mondo e penso proprio che questo nostro, bistrattato pianeta avrebbe bisogno che ce ne fosse molto di più.

La leggenda che vorrei narrarvi oggi vede tre protagonisti maschili: Giacinto, il dio Apollo e Zefiro e narra la storia di un amore intenso e colmo di passione.

Pare che Giacinto fosse un giovane principe di Sparta, talmente bello e avvenente che di lui si innamorarono il dio Apollo, Zefiro il dio del vento e Tamiri, leggendario poeta e cantore greco, che si vantava di saper cantare molto meglio delle Muse.

Apollo non considerò mai Tamiri un rivale veramente pericoloso e nemmeno un ostacolo insormontabile tra lui e il giovane principe ma, per eliminare senza fatica l’eventuale antagonista in amore, riferì alle Muse il vanto del poeta. Le figlie di Zeus non presero molto bene la spacconata del cantore greco e lo punirono accecandolo e privandolo delle sue virtù canore.

In seguito Giacinto accettò la corte serrata del dio Apollo, ma Zefiro, geloso del sentimento sbocciato tra i due, decise di mettere fine alla loro bella storia d'amore.

Durante un allenamento di lancio del disco organizzato per impressionare l'amante, Apollo si esibì per primo in un lancio spettacolare del disco, che saettò nel cielo ad una velocità impressionante. Il dio del Vento, che non aspettava altro che l'occasione giusta, spirò una violenta folata facendo deviare il disco lanciato da Apollo e scaraventandolo sulla fronte di Giacinto. Il colpo fu talmente violento da risultare fatale al giovane principe.

Apollo si disperò per la perdita immatura del suo bel innamorato e dal sangue che sgorgò dalla ferita fece nascere il fiore che porta ancora il nome dell'amato.

Ovidio narra che, Apollo, prima di tornare nell'Olimpo, contemplando il fiore appena creato, volle compiere un ultimo significativo gesto incidendo sui petali  le lettere" ai" a simboleggiare i suoi divini lamenti per l'immenso dolore provato. 

                                                   

                   


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giovedì 27 maggio 2021

Il Monastero del Canto del Vento (2a parte)

 


In quel momento i nostri avversari si trovarono in svantaggio numerico, e volsero le spalle per fuggire. Non potevo permetterlo e urlai: «Inseguiteli! Non permettete che quegli assassini rimangano impuniti!» ordinai, mentre mi facevo carico della salvaguardia della famiglia reale.

«Vi prego di seguirmi, maestà.» la sollecitai, con la massima premura ma anche il dovuto rispetto.

Lei scosse la testa mestamente gettando un’occhiata stralunata al corpo del marito, che giaceva in una pozza di sangue. Fece il gesto di lanciarsi, ma io la trattenni per un braccio con gentilezza.

«Non c’è tempo, mia signora. Occorre portare in salvo i principini.»

I suoi occhi erano colmi di lacrime e smarrimento ma annuì e ricacciò indietro il pianto stringendo a sé i suoi figli.

Con il suo aiuto e con quello di due compagni, cercai in tutti i modi di evitare loro la visione terrificante del cadavere del padre. Non so quanto riuscimmo nell’intento, ma quando lasciammo la stanza tirai un sospiro di sollievo, poi con le dovute cautele, li scortammo per un passaggio segreto fino alle scuderie.

Nelle stalle regnava tanta confusione, anche per via dei cavalli che i nemici avevano lasciato liberi e che intralciavano i locali, abbandonati a loro stessi. Per fortuna, i guerrieri erano tutti impegnati a occupare il palazzo e in giro non si vedeva nessuno.

Dovemmo aiutare i più piccoli a montare in sella. Ne feci salire due per volta su ognuna delle cavalcature, e quando infine ci avviammo, volsi il mio sguardo al palazzo.

La residenza era completamente avvolta dalle fiamme e le lingue di fuoco erano talmente alte, che mi parve arrivassero a lambire il cielo. Percepii il dolore dell’imperatrice e mi parve di avvertire anche un sospiro soffocato, allora volsi discretamente il mio sguardo da un'altra parte. Non volevo si sentisse a disagio. Quel giorno, lei e i suoi bambini avevano già subito troppo dolore e troppe umiliazioni.

Cavalcammo a pelo per più di un'ora prima di essere raggiunti dai pochi compagni superstiti.

Li salutai con gratitudine. Avevano speso tutte le loro energie per coprire la nostra fuga e li ringraziai.  Nei loro occhi ravvisai la mia stessa inquietudine.


Il nostro cuore era oppresso da un macigno doloroso. La stirpe del Drago Azzurro aveva subito una grossa perdita con la morte del sovrano e quello che rimaneva era in estremo pericolo. Per il bene dell’Impero occorreva portare in salvo i bambini, eredi naturali del seggio rimasto vacante. Il pensiero dell’imperatore e dei nostri compagni caduti ci accompagnò per buona parte di quella notte tragica.

I dubbi e le domande iniziarono ad assillarmi:” Chi e quale potere oscuro desidera l’annientamento della stirpe reale? Qualcuno molto vicino al trono o qualche straniero ansioso di ampliare il suo potere?”

Iniziai a vagliare alcune possibilità, in quel momento senza venire a capo dell’enigma.

L'alba che sorse grigia e nebulosa, ci trovò ancora a cavallo. Essendo il più anziano del gruppo avevo preso naturalmente la guida di quel manipolo di fuggitivi e ordinai una sosta.

«Fermiamoci qui. I piccoli hanno bisogno di essere rifocillati e di riposo.»

Li aiutammo a scendere dai cavalli, alle cui criniere erano rimasti aggrappati con tutte le loro forze. Il loro sguardo attonito si spalancò su di me. Quella notte avevano perso tutto, e io ero la prima persona che era intervenuta e che aveva salvato loro la vita. Capivo chiaramente che ero diventato il loro eroe e il loro nuovo punto di riferimento. Si affidavano guardandomi con speranza e fiducia.

 Accarezzai quelle testoline indifese, giurando a me stesso che non avrei lasciato nulla di intentato per portarli in salvo.

Trovammo rifugio in una caverna nei pressi, e la maggior parte dei principi crollò in un sonno agitato, mentre disponevo i primi turni di guardia.

L’imperatrice si chiamava Maylin, Giada Preziosa, ed era giovane e bella. La sua pelle era di porcellana e i capelli nerissimi, che non aveva avuto il tempo di raccogliere a causa del brusco risveglio, le si inanellavano in lunghe ciocche intorno al viso mettendone in risalto la perfezione dei lineamenti.  Gli occhi a mandorla, neri come l’ematite, brillavano di intelligenza e di profonda tristezza.

Per un attimo i nostri sguardi si incrociarono e la sua bocca si increspò in un sorriso mesto e dolcissimo. Il mio cuore accelerò i battiti e la ringraziai chinando poi modestamente il capo.

Ma la nostra sosta non durò a lungo. Dopo nemmeno un paio d’ore, il verso del cuculo, ripetuto tre volte, ruppe il silenzio e ci mise in allarme. Era il segnale delle sentinelle. Gli inseguitori erano vicini.

A malincuore mi affrettai a svegliare l’imperatrice e i principini.

Maylin non dormiva. Se ne stava appoggiata con la schiena alla roccia e quando la raggiunsi mi accorsi che aveva pianto.

Lei tentò di nascondermi la sua profonda malinconia, ma gli occhi rossi e l’umidore delle sue guance denunciavano il grande dolore per il lutto che aveva nel cuore.

«Perdona, mia signora. Dobbiamo andarcene. Gli inseguitori sono vicini.»

Senza nemmeno la forza o la voglia di parlare, emise un sospiro ed annuì, sollevandosi agilmente con la grazia di un felino.

La veste di seta che indossava, frusciò e io guardai con apprensione il lussuoso e colorato kimono. Non era certo una veste adatta a un viaggio e in caso di pericolo le avrebbe impedito ogni movimento.

Lei intercettò il mio sguardo e allargò le braccia scuotendo la testa: «Purtroppo non posseggo altro.»

«Se permetti, mia signora, posso fornirti un equipaggiamento più consono al viaggio che ci aspetta.»

«La nostra salvezza è nelle tue mani e farò come credi sia meglio, comandante.»

La ringraziai con un inchino e corsi all’esterno alla ricerca del guerriero più esile del mio gruppo.

Recuperai un paio di braghe comode e lunghe e una tunica che le avrebbero semplificato la cavalcata e gliele portai.

Quell’abbigliamento spartano non era certo indicato a una sovrana ma lei lo prese, ringraziandomi, poi si ritirò in un angolo e li indossò.

Quando fu pronta svegliammo i bambini, e in pochi minuti eravamo già tutti a cavallo. Mi misi un'altra volta alla guida del gruppo e ci avviammo per un sentiero scosceso verso le montagne.


La nostra, disperata fuga ricominciò. Avevo lasciato alcuni dei guerrieri a proteggerci le spalle e le urla di un feroce combattimento risuonarono presto nella gola. Pensai che finché si fossero sentite le urla, gli eredi al trono non erano in pericolo.

Continuammo a risalire su per l’erta che avrebbe dovuto portarci al valico, con i cavalli al passo, ma dopo poco che era sorta l’alba, ci trovammo di fronte a un burrone attraversato da una passerella che oscillava in modo inquietante sferzata com’era dalle folate decise del vento.  Probabilmente per via dell’oscurità e pressati dagli inseguitori, avevamo imboccato un sentiero sbagliato.  

Senza dire una parola studiai il panorama scambiando poi un'occhiata preoccupata con i miei compagni e cercando di nascondere all’imperatrice i miei timori.

Il ponte che congiungeva le due sponde dell’abisso e che eravamo obbligati a percorrere, aveva un aspetto fatiscente. Probabilmente erano anni che nessuno lo attraversava.

Maylin, rimasta indietro con i bambini ci raggiunse e scrutò con aria smarrita il vuoto.

«Non abbiamo altra via, vero?» domandò con espressione preoccupata.

«No, mia signora. Non abbiamo alternative.» risposi con amarezza. «Ma dobbiamo comunque provarci.» terminai.

Del resto, per aggirarlo ci sarebbero voluti giorni e con gli assassini che ci premevano alle spalle, non avremmo avuto tutto quel tempo.

Difatti, il suono di zoccoli di cavallo giunse fino a noi, anche se lontano, amplificato dalle roccaforti rocciose che cadevano a strapiombo.

Mi prese l’ansia e la brama di trovare presto una soluzione. Lei dovette percepire la mia inquietudine, perché posò uno sguardo colmo di pena sui bambini.  Intercettai per un attimo quegli occhi limpidi e miti, e per pochi, interminabili secondi rimanemmo incatenati l’uno all’altra.

Forse fu proprio il suo sguardo a ispirarmi una possibile via di uscita.

«Troverò il modo!» affermai, ostentando più sicurezza di quel che in realtà provassi. Riuscii a strapparle un debole sorriso, che mi gratificò. «Ne sono certa! Ho molta fiducia in te, comandante e so che farai di tutto per portarci in salvo!»

Quella sua dolcezza era disarmante. Prima dell’attacco al Palazzo reale non avevo mai avuto occasione di avvicinarla e di parlarle. Non ne avevo il diritto, non ne avevo il permesso. Però l’avevo sempre ammirata da lontano per la sua bellezza e il suo comportamento esemplare. A corte l’imperatrice era ammirata per la sua semplicità, eleganza e raffinatezza di modi ed era per queste sue qualità che si era conquistata la stima e il rispetto di tutti i nobili, dei guerrieri e persino la servitù.

Ora che avevo avuto occasione di conoscerla meglio e da vicino, l’ammiravo ancor di più.

La vidi arrossire sotto il mio sguardo attento. Non mi ero accorto di essermi soffermato troppo a scrutarla e mi biasimai per questo. L’avevo messa a disagio. «Grazie per la fiducia, mia signora!» balbettai, imbarazzato come uno scolaretto.

La mia attenzione ritornò a fatica sul ponte sospeso. L’aspetto non ispirava grande fiducia, tuttavia essendo la nostra sola via di salvezza, decisi che avremmo cercato di attraversarlo con infinite cautele, e che, molto probabilmente, avremmo dovuto abbandonare i cavalli.

«Stai attento!» mi suggerì il mio amico e compagno di avventure Tien Wong, offrendomi il capo di una lunga fune da legarmi in vita e tenendone l’altro capo saldamente arrotolato alla sua spalla. Lo ringraziai con un cenno e mi avviai con cautela a sondare con i piedi, e poi con tutto il mio peso, la solidità delle assi, che costituivano la traballante base del ponte.

Purtroppo, quello che potei accertare non mi rassicurò. La maggior parte delle tavole erano sconnesse, e alcune addirittura mancavano, formando degli spazi pericolosi al di sopra dell'orrido. Tastai anche la robustezza delle   corde che lo reggevano sospeso, simile a un lunghissimo serpentone traballante.  Con mio grande disappunto constatai che non erano in condizioni migliori della base, essendo logore e sfilacciate, usurate dal tempo passato alle intemperie.

Venni distolto dalle mie tetre considerazioni da un’eco e tesi le orecchie cercando di distinguere i suoni che le pareti rocciose rimandavano fino a noi. Erano voci. Anche i miei compagni le avevano udite, come anche i bambini. In quel momento, mi parvero minacciosamente vicine. Non c’era un attimo da perdere, dovevamo attraversare.

Presi la mia decisione risoluto, avrei aiutato gli altri a superare l’insidioso ostacolo.  

Mi concessi solo qualche minuto per concentrarmi, poi mi diressi decisamente sul primo spazio vuoto e mi sdraiai col ventre rivolto verso il burrone. Il mio corpo bastava appena a coprire il vuoto che affacciava sul baratro, ma riuscii a tendermi fino ad afferrare con forza le assi distanziate, con lo sforzo sovrumano delle braccia e delle gambe.

Con quel sistema feci passare dapprima un mio compagno, che teneva tra le mani uno dei capi della lunghissima corda che adoperammo per assicurare i bambini a uno a uno.  

Non cercai di affrettare i principini perché erano già troppo impauriti, sebbene la madre li esortasse a essere coraggiosi e ad avanzare. Sulla passerella ripetei quella operazione parecchie volte e seppure con una lentezza esasperante i bambini passarono tutti.

Dopo di loro fu la volta dell’imperatrice. La vidi esitare e tentai di rassicurala: «Non temere, mia signora. Sono forte come un toro e qualunque cosa possa accadere non ti lascerò cadere nel burrone.»

Percepii tutta la sua ansia dal respiro affannoso e dallo sguardo che saettava su entrambe le sponde e la sollecitai ancora sussurrandole: «Non c’è più tempo, Maylin. Tra poco il nemico sarà qui.» L’avevo chiamata per nome, forse per spronarla a reagire e mi domandai se, in seguito, mi avrebbe mai perdonato per la mia sfrontatezza. Ma ci sarebbe mai stato un seguito a quel giorno?

Avvertii il suo timore a posare il peso sul mio corpo, ciò nonostante mi meravigliai: era fragile e minuta e quando posò il minuscolo piedino sulle mie gambe prima, sulla schiena e sulle braccia tese allo spasimo, mi diede l’impressione del tocco lieve di una farfalla che si posa su un ramo.

Maylin superò tremante il primo ostacolo e subito dopo mi spostai con cautela per ripetere l’operazione. Solo quando fu in salvo stirai più volte i muscoli che mi bruciavano per lo sforzo fatto.

Dovetti poi affrontare il passaggio dei miei compagni dal fisico possente, ma prima chiesi qualche minuto per riprendere fiato e rilassarmi, quindi con un ultimo sforzo sovrumano, li feci passare.

Quando anche l’ultimo dei guerrieri passò, non ebbi il tempo di raggiungere l’altra sponda e alcune tavole marce, già messe a dura prova dai precedenti passaggi, si spaccarono, lasciando ampi spazi vuoti nella finale.  

Mi ritrovai a un passo dall’altra sponda e dalla salvezza, ma per me la situazione si era complicata.  Guardai con apprensione il ponte davanti a me; gli scricchiolii che sentivo non mi rassicuravano affatto, ma cercai di non pensare all’abisso che si spalancava sotto i miei piedi. Non avrei potuto oltrepassare quei vuoti nemmeno saltando e dalla parte opposta il rimbombo degli zoccoli dei cavalli era diventato assordante.

Dovevo rilassarmi e concentrarmi per trovare una soluzione. Chiusi gli occhi e convogliai la mia mente sulla mossa dell'airone quando sta per spiccare il volo e su quella della pantera nel momento in cui balza addosso alla sua preda. Avrei dovuto librarmi con la leggerezza propria del volatile, e percorrere gli ultimi venti metri con il balzo dell’elegante e agile felino.

Raccolsi tutte le mie energie nelle gambe e nella schiena e spiccai un balzo acrobatico. Per qualche breve, interminabile istante mi parve davvero di avere le ali e guadagnai un bel po’ di metri, ma quando mancava pochissimo al mio atterraggio sull’altra sponda, la spinta che mi ero dato esaurì la sua potenza e atterrai di nuovo sul legno.  Sentii il ponte cedere sotto il mio peso e i bambini e l'imperatrice urlare dall’angoscia.

Le corde si spezzarono, così come la traballante passerella e io mi aggrappai a una delle tavole. Ormai senza fiato, mi ritrovai a penzolare appeso al moncone che pendeva nell’orrido.

Anche la corda che avevo legato alla vita penzolava nel vuoto. Con il balzo che avevo compiuto per evitare di precipitare, avevo strattonato violentemente l’altro capo dalle mani del mio compagno e lui, per mantenere l’equilibrio sul ciglio dell’abisso, era stato costretto a mollare la presa.  

Ero nei guai!

continua...

                                              


 Racconto pubblicato dalla Garcia edizioni nel 2012

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lunedì 24 maggio 2021

Il Monastero del Canto del Vento (1a parte)

 


L’edificio sacro si ergeva maestoso e austero in cima al colle e noi ragazzini, aspiranti monaci guerrieri, lo ammiravamo dal basso con aria trasognata.

Oltre che di sacralità, un’aurea di magia aleggiava intorno a quelle antiche mura, che svettavano imponenti dalle rocce di quelle impervie montagne.

Eravamo una decina di ragazzi, dai quattro ai dodici anni, l’età minima e la massima per entrare nella comunità religiosa, e con i nostri genitori, sostavamo alle pendici del monte osservando con soggezione quelle mura leggendarie. Una lunga serie di storie avventurose e ricche di fascino e di mistero, circolavano tra la gente raccontate da ex allievi diventati adulti all’interno del monastero. Gli stessi che avrebbero potuto vantarsi della nomina di” Monaco Guerriero” se la rigida educazione ricevuta negli anni, lo avesse permesso. Ma in quella scuola, una delle prime cose che s’imparava era l’umiltà e a nessuno di quegli guerrieri sarebbe venuto in mente di vantarsi.

Il mio nome è Hui Ling ed ero il più piccolo di quel gruppo.

Con il cuore gonfio di emozione, noi ragazzi ci inerpicavamo per i sentieri scoscesi, piuttosto difficili da superare, affrontando le intemperie della montagna considerata sacra.

Il vento sibilava e soffiava gelido e grosse nuvole scure si rincorrevano e si addensavano all’improvviso minacciando la pioggia. Quel vento che insinuandosi tra i picchi e i pinnacoli rocciosi, formava quel suono particolare, quasi un canto lugubre e continuo, che aveva poi dato il nome al monastero.  

Quel suono metteva i brividi, ma ormai mancava poco al traguardo e si proseguiva, esortati dagli accompagnatori, con il timore che il maltempo si tramutasse in bufera, e che la pioggia battente divenisse tormenta di neve. Del resto, nulla e nessuno ci avrebbe mai fermati.

Per entrare al monastero come novizi occorreva sostenere una selezione accuratissima, ed erano veramente pochi coloro che la superavano e oltrepassavano l’antico portale di pietra.

Io ci riuscii, e quel giorno, avevo appena cinque anni, con passo reso incerto dall’emozione, varcai quella soglia.

Prima che il portale si chiudesse alle mie spalle, ricordo che mi voltai e vidi mio padre salutarmi con un sorriso. Quel sorriso mi avrebbe accompagnato per tutta la vita.

Una volta accettati nella comunità, noi aspiranti monaci dovevamo seguire un ritmo di vita esemplare. Non erano tollerate manifestazioni di debolezza, e nemmeno eccessi di esuberanza infantile.

La nostra giornata cominciava ai primi chiarori dell'alba e, subito dopo le normali attività mattutine, ci allenavamo nel cortile antistante il grande chiostro, con le arti marziali. Nel nostro cuore colmo di orgoglio e di ideali giovanili, era latente un unico grande scopo, che ci accomunava e ci univa: diventare campioni di quella considerata come la più nobile delle arti marziali: il Kung Fu.

La nostra lenta formazione durava molti anni, e una volta raggiunto il livello più alto dell’addestramento, diventavamo maestri noi stessi, ma solo i più meritevoli entravano a far parte delle guardie personali dell'imperatore e della sua famiglia.

A me toccò quell’onore e quando compii venti anni venni scelto per la salvaguardia della nobile dinastia.

Comunque, tornando al mio arrivo al monastero, impiegai un po’ di tempo ad abituarmi alle rigide norme vigenti e al duro addestramento. Inoltre, passarono ben  tre mesi prima che venissi accettato come novizio nel monastero e soltanto dopo aver superato esami psicologici e prove di resistenza durissime. Solo la forza di volontà mi fece conseguire il primo grande traguardo della mia vita. Avevo abbandonato i genitori, la casa, gli amici, lasciandomi alle spalle tutto quello che avevo di più caro al mondo. Mi ero prefissato di diventare una delle guardie personali dell'imperatore. E ci sarei riuscito!

Il giorno che partii lo promisi ai miei genitori, a mio padre in modo particolare, monaco guerriero prima di me, rimasto seriamente ferito in un agguato teso ai danni della famiglia reale. Era stato solo grazie al sacrificio di tanti guerrieri che il casato imperiale era scampato al pericolo di estinzione della nobile stirpe.

Ricordo che quando arrivai al monastero, essendo il più piccolo tra i novizi, venni preso subito a benvolere da tutti. Ero considerato come un fratellino dagli altri aspiranti monaci e ora rammento con estrema tenerezza quei giorni.

La nostra giornata aveva inizio con la colazione, e subito dopo, cominciavamo gli allenamenti che duravano all'incirca quattro ore.  Dopo pranzo ci allenavamo ancora nella corsa, nella meditazione, nella ginnastica, nella lotta con il bastone o con le catene, disciplina quest’ultima che a me piaceva molto e, in cui, dopo un po’ di tempo, primeggiai. Le ore rimanenti fino al tramonto, erano dedicate agli studi.

Mio padre era rimasto mutilato di un braccio dalla spada di uno degli aggressori. In seguito, aveva dovuto lasciare il monastero, ma dicono che la sua forza, il suo coraggio e la sua abnegazione, mi furono trasmessi insieme ai suoi geni.

In seguito a quella mutilazione venne congedato, non senza sommo rammarico da parte della famiglia reale, e con una cospicua pensione assegnatagli dall’imperatrice stessa, in qualità di reggente dopo la morte del marito, essendo i principi ancora troppo piccoli per regnare.

Durante le rigide serate d'inverno mio padre amava sedere davanti allo scoppiettante fuoco del caminetto, raccontandomi le perigliose avventure vissute al servizio della famiglia reale.

Io ascoltavo quelle storie con occhi sgranati, guardandolo con ammirazione. Lo consideravo un eroe, tanto che sognavo spesso come fanno i ragazzini, di eguagliarne le imprese. 

Conoscevo a memoria l'ultima avventura vissuta da lui il giorno della mutilazione, e quando al monastero sul far della notte si spegnevano le luci nelle camerate, iniziai a narrare la sua storia ai miei compagni, così come me l’aveva raccontata lui. Quella sera, dopo nemmeno pochi minuti, mi accorsi di avere un auditorio molto più vasto, poiché quasi tutti gli aspiranti guerrieri mi stavano ad ascoltare. 


Residenza estiva imperiale 20 anni prima

 

Eravamo al servizio della famiglia reale, che si era trasferita nella residenza estiva. Eravamo in centinaio di guerrieri, ma in caso di attacco, solo un esercito avrebbe potuto tenerci testa. E solo un tradimento avrebbe potuto sfaldare il nostro accurato sistema di difesa, così come infatti avvenne.

Quella sera per cena vennero serviti piatti drogati. L'inganno fu possibile solo perché scaturì dal cuore stesso del nostro sistema difensivo.

Fu a causa di una vendetta perpetrata dall’energia del rancore che uno dei monaci aveva covato per anni e anni nel suo cuore.

Col passare del tempo quell’astio era cresciuto a dismisura, e come avviene con le acque tumultuose di un fiume in piena, quella sera, il nostro sistema di sicurezza venne travolto e spazzato via.

Il monaco traditore si alleò con i signori della guerra, che volevano far cadere l’impero per poter mettere le mani essi stessi sul potere. Furono loro ad armare gli assassini e a mandarli quella notte alla residenza estiva della famiglia reale.

Solo una decina tra noi, quelli che si riposavano preparandosi al servizio notturno, si salvarono. Fummo svegliati dalle urla strazianti di coloro che avevano consumato il pasto serale e che si contorcevano tra mille tormenti.

Demmo subito l'allarme, ma ormai era troppo tardi per salvare i nostri compagni, l’unica cosa che rimaneva da fare era pensare alla salvezza della famiglia reale.

Quando il palazzo venne dato alle fiamme, si scatenò una bolgia drammatica. In quell'inferno di strepiti e di fumo persi il contatto con i miei compagni. Non sprecai altro tempo e mi diressi di corsa nelle stanze private dell'imperatore e, udendo le urla terrorizzate che provenivano dall’interno, abbattei la porta che trovai sbarrata, scagliandomi su di essa con tutta la forza e la potenza di cui ero capace.

Lo spettacolo che mi attendeva mi lasciò un attimo interdetto. I piccoli principi, tre maschietti e tre femminucce, erano terrorizzati e si stringevano ai genitori, che li guardavano smarriti.

Nella stanza c’erano quattro banditi, riusciti a penetrare chissà come in quelle stanze riservate e che tenevano sotto minaccia delle loro armi l’intera famiglia.   Uno di loro, in particolare, aveva afferrato per i capelli uno dei principi, e si teneva pronto ad affondare la lama nella piccola gola indifesa.

Il bambino tremava come una foglia trattenuto con violenza dal suo aguzzino e, nello sguardo disperato che saettava intorno, era palese tutto il terrore che provava.

Rincuorato dalla mia presenza e certo del mio supporto, il sovrano si lanciò sull'aggressore distraendolo e tentando di disarmarlo. Ma l'assassino non esitò, e con un colpo violento affondò la spada fino all'elsa nel corpo dell'imperatore, uccidendolo all'istante.

La tragedia era avvenuta in modo così repentino e imprevedibile, che nulla potei per evitarla.

«La stirpe del Drago Azzurro deve essere annientata!» proclamò con enfasi l’assassino e una luce fanatica gli brillò negli occhi, mentre lo sguardo bramoso di sangue si posava sui bambini e sulla loro madre.  

Nell'aria si espanse un lamento soffocato. Per un attimo colsi lo sguardo atterrito dell’imperatrice, che stringeva a sé i piccoli cercando di proteggerli e nascondere loro quella scena orribile.

La sua inquietudine mi diede lo sprone e con un balzo acrobatico    atterrai con la leggerezza di un airone davanti agli aggressori.

«Non ci riuscirete, maledetti!» esclamai con enfasi.

I banditi rimasero attoniti dalla mia mossa a sorpresa e approfittai del loro stupore per prelevare la mia arma dal kimono. Nel silenzio sceso nella stanza, risuonò sinistro il sibilo delle catene da combattimento, che feci roteare vorticosamente innanzi a me.

L’attenzione dei quattro era tutta puntata sulle mie mani e sulla mia arma, diventata quasi indistinguibile in aria per via della velocità acquisita.

Impressi ancora più energia e, come fossero bolas, le lanciai. Il sibilo aumentò a dismisura e, dopo un’ardita evoluzione, le catene andarono a stringere il collo del bandito che teneva prigioniero il piccolo.

L’uomo mollò la presa sul bambino e si portò le mani al collo. Inutilmente tentò di liberarsi. L’arma gli impediva di respirare e lo attanagliava alla gola. In un attimo divenne paonazzo e dopo pochi secondi cadde soffocato.

Con un solo movimento fluido del corpo, le recuperai, spinsi il piccolo tra le braccia della madre e mi posizionai davanti a loro per difenderli. Poi mi girai per affrontare gli altri tre banditi.

Il tutto avvenne in un battito di ciglia e mi ritrovai a fissare i volti stupefatti dei miei avversari.

Il loro evidente sgomento durò solo un istante. Reagirono all’unisono e dovetti difendermi.

Sin dalle prime mosse mi accorsi che i miei rivali erano uomini addestrati nella sacra lotta, e che partivano in vantaggio nei miei confronti. Lo spazio ampio di quella sontuosa stanza divenne improvvisamente angusto per me.

Ero obbligato a tenere la famiglia reale alle spalle e, con il pericolo di colpire qualcuno di loro con le mie catene, non mi fu più possibile usarle. Abbandonai quell’arma e sfoderai la spada.

Qualcuno tra i piccoli urlò e i pianti si moltiplicarono.

Proprio in quel momento, dal corridoio mi giunsero i rumori di uno scontro. Immaginai che fossero i miei compagni accorsi in difesa dei reali e allora urlai anche io: «Guerrieri a me!»

I miei compagni sentirono finalmente le nostre urla, e appena poterono, accorsero in nostro aiuto.

continua...

                                                   

            

     

Racconto pubblicato dalla Garcia edizioni nel 2012

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immagine di copertina di Alessia Coppola

sabato 22 maggio 2021

La leggenda del capello d'oro di Niso

 



Narra Ovidio che Niso, re di Megara e padre di Scilla, possedesse la caratteristica di un capello d'oro tra i tanti suoi capelli e che quello lo rendesse potente e invincibile. 

Quando Minosse, re di Creta, intenzionato alla conquista della città la pose sotto assedio, la figlia di Niso si invanghì del condottiero cretese, tanto, da arrivare persino a tradire suo padre e il suo popolo.

Consapevole che la forza del sovrano di Megara e la sicurezza della città dipendevano dalle caratteristiche magiche del capello d'oro, Scilla nottetempo, approfittò del sonno paterno per tagliarglielo  privando così il sovrano di ogni difesa. In seguito, la fanciulla si recò tra le file nemiche offrendo le chiavi della città a Minosse e strappando al re cretese la promessa che dopo l'espugnazione delle mura l’avrebbe tenuta con sé.

Minosse conquistò senza fatica Megara e combatté con Niso, ormai privo della sua forza, uccidendolo, ma si rifiutò di mantenere la parola data alla giovane donna.

Nella versione di Ovidio, dopo aver saputo in che turpe modo Scilla lo avesse aiutato, Minosse la punì, legandola alla prua della sua nave e facendola annegare.

Pare che gli dei, udendo le urla disperate della ragazza, si impietosissero e la trasformassero in un airone.

                                     


In un'altra versione, invece, Scilla pentendosi per quello aveva fatto al padre e alla sua gente,  si suicidò, gettandosi in mare.


       

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