Fantasia

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La brama della scrittura arde come una fiamma in un cuor propenso. Vivì

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venerdì 23 aprile 2021

La storia d'amore di Ginevra e Odorico

 


Transitando davanti al castello di Villalta, nella provincia di Udine, si potrebbe vedere immobile, sulla torre più alta il fantasma di Ginevra, una giovane donna di un tempo assai remoto, che ancora oggi dopo secoli, pare che attenda il ritorno del suo amato sposo.

La leggenda narra che Ginevra di Strassoldo, soprannominata “la Bellissima”, sin da bambina fosse stata promessa sposa a Federico di Cuccagna, l’erede di un altro casato nobiliare.

Crescendo però, Ginevra si rese conto di non poter andare in sposa al nobile Federico perché, nel frattempo, avendo conosciuto durante un ricevimento il conte Odorico di Villalta, tra i due era stato amore a prima vista. Un colpo di fulmine che costrinse Ginevra a confidarsi con il padre, certa di riceverne la massima comprensione.  La giovane donna non si sbagliava. Il nobiluomo, per amore della sua figliola, decise di rompere il patto stipulato tanti anni prima con i Conti di Cuccagna.

Nel 1344 Ginevra sposò Odorico e, subito dopo la cerimonia, la giovane donna si preparò al trasloco per il castello di Villalta con tutta la sua servitù, mentre il marito anticipava la partenza per prepararle un degno benvenuto.

Ma pare che il primo promesso sposo non avesse preso bene la rottura del fidanzamento e il successivo matrimonio di Ginevra e folle di gelosia mise in atto un assedio alla dimora del rivale costringendolo poi ad abbandonare il castello.

Al suo arrivo Ginevra non trovò il marito ad attenderla, bensì il crudele Federico, disposto anche a usare la violenza pur di possederla.                  

Ma la giovane donna oppose una strenua resistenza e solo quando fu allo stremo accadde un prodigio. La leggenda narra che la giovane donna, pur di non cedere, si tramutò in una statua di marmo.

Odorico, nel frattempo, radunato un folto numero di cavalieri ritornò al castello e con il supporto di tanti guerrieri, riprese possesso della sua dimora. Andò poi alla ricerca del rivale e affrontatolo in duello lo uccise.

Si narra che Odorico cercasse la giovane moglie dappertutto senza riscontro e solo quando giunse in cima a una delle torri si trovò davanti la statua di marmo.

La figura marmorea era talmente bella e ben fatta da sembrare vera.  Odorico, sospettando che gli avessero uccisa la giovane sposa, commosso e disperato, si gettò ai piedi della statua  stringendola come se non volesse più lasciarla.

Forse fu l’energia sprigionata dall’amore o forse le lacrime calde di Odorico a operare un altro prodigio, chissà! In quel momento la statua si rianimò e la bella figura di Ginevra riprese vita.

La felicità dei due giovani sposi fu immensa ma non durò a lungo. Odorico fu costretto a partire per la guerra e non fece mai più ritorno al castello. Ginevra lo attese a lungo e inutilmente, immobile in cima alla torre e la sua vita si consumò tristemente in quell’attesa.

Oggi giorno il castello di Villalta è aperto al pubblico con le visite guidate, che ricordano la leggenda dei due sfortunati innamorati.

Qualcuno oggi sussurra di avere intravisto una figura femminile, immobile in cima al castello, qualcun altro sussurra che il fantasma di Ginevra accolga i piccoli visitatori ponendo una carezza sul loro capo. Le stesse carezze che la giovane donna avrebbe voluto porre con amore ai suoi bambini, se l'amore e la buona sorte glieli avessero concessi. 

                                              

    

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lunedì 19 aprile 2021

La leggenda di Taliesin

 





In un tempo assai remoto e su una piccola, magica isola posta al centro del lago di Tegid, viveva una bellissima dea. La sua dimora era un castello immerso in un parco immenso. Il maestoso edifico era avvolto da un fitto intrico di edera abbarbicatasi alle mura da tempo immemorabile.

La dea si chiamava Cerridwen ed era amante della musica, del canto e della poesia.

Gli abitanti di quel luogo fatato adoravano la dama del castello, perché lei sembrava avesse un bel carattere, ed era solita intrattenerli narrando storie e leggende suggestive di un'epoca lontana, quando la pace regnava nel mondo e tutto era bello e armonioso.

Cerridwen mise al mondo due bambini, il primo bello e solare come sua madre e dal pianto melodioso e incantatore mentre, il secondo al contrario, molto brutto e deforme.

La nascita del primo bimbo venne festeggiata a lungo dagli abitanti dell’isola, mentre quella del secondo venne totalmente ignorata.

La dea soffrì molto e pianse a lungo per questo suo figliolo, fino a che decise di rimediare all'errore di madre natura facendo  dono della conoscenza e della poesia al disgraziato bimbo.

Ma per portare a termine l'incantesimo, la dama dovette chiedere il sopporto a Gwoin, il suo giovane aiutante. Con lui la dama setacciò tutta la foresta, i pascoli e la valle, alla ricerca delle erbe indispensabili per la preparazione della magica pozione.

La ricerca risultò lunga ed estenuante. La leggenda narra che i due camminarono sette volte sette settimane ospitati di volta in volta da Elfi e creature magiche del bosco o dormendo sui prati sotto un manto di stelle.

                        

Quando infine tornarono al castello, la dama si mise all'opera riempiendo un calderone con le acque misteriose del lago e mettendovi a bollire le erbe raccolte. A guardia del miscuglio mise il suo giovane aiutante, con la raccomandazione di vigilare che il fuoco rimanesse sempre acceso, sebbene non troppo vivace e che le erbe sobbollissero piano e a lungo. Per mantenere sempre vive le fiamme furono coinvolti nella raccolta dei ciocchi indispensabili, gli abitanti dell’isola e persino gli animali della foresta. Il fuoco avrebbe dovuto rimanere acceso per ventotto giorni e ventotto notti, un’intera fase lunare per la riuscita dell'incantesimo.

Ma durante la cottura, la dea si accorse che le erbe si erano ridotte tanto da non bastare e sì assentò per incrementarne la quantità. Tornò giusto in tempo nell'ultimo giorno della luna, dando ancora a Gwoin l'incarico di aggiungerle.

Esausta per il lungo viaggio Cerridwen si ritirò per riposarsi lasciando ancora all' aiutante il compito di vigilare la mistura.

Ubbidendo alle disposizioni il giovane aggiunse le erbe ma, rimestando nel pentolone gli schizzarono tre gocce bollenti sulle dita scottandolo. Per istinto Gwoin si portò le dita alla bocca cercando sollievo. In quel momento la magia lo avvolse riversandosi nel suo cuore e nella sua mente.

Spaventato da quanto era accaduto, il ragazzo non ebbe il coraggio di confessarlo alla dea e fuggì dal castello prima che lei si risvegliasse.

Quando la dama si destò e intuì l'accaduto, accecata dalla collera, proprio lei che era sempre stata gentile e disponibile con tutti, si mise all'inseguimento del giovane per ucciderlo.

Per sfuggire alla cattura Gwoin ricorse alla magia e si trasformò in una lepre e la dea, a sua volta per non farselo scappare, tramutò in un levriero. Vistosi raggiunto, il ragazzo si tuffò nel lago trasformandosi in un pesce e la dea lo seguì, assumendo le sembianze di una lontra, predatrice di pesci. Disperato il giovane uscì dal lago e pensò di trasformarsi in un uccello, ma l’inseguitrice non lo mollò e divenne a sua volta una civetta predatrice.

                

                         

Esausto e demoralizzato, il ragazzo giocò di astuzia e pensò di trasformarsi in un chicco di grano mimetizzandosi tra tanti altri chicchi di grano, ma la dea intuì l'inganno e divenne una gallina che, becchettando qua e là, alla fine individuò il fuggitivo e prima che questi mutasse in qualcosa d’altro, se lo ingoiò.

L'incantesimo operato dalle erbe magiche non ebbe fine in quel momento, bensì nove mesi dopo, quando la dea diede alla luce un bambino talmente bello e solare, che sua madre decise di chiamarlo Taliesin, che significa “Splendida Fonte “.

Il bambino crebbe diventando sempre più bello e ammaliatore, difatti, la sua voce iniziò a espandersi melodiosa nella foresta, per la valle e persino sui monti, incantando tutti quelli che avevano la fortuna di ascoltarlo. 

                                                 

                             

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sabato 17 aprile 2021

La leggenda di Bianca di Collalto



Secoli fa alcuni nobili si contendevano brutalmente i territori veneti. Questa leggenda riguarda due famiglie di origine longobarda: i da Camino di Cineda, i Conti di Collalto di Treviso e una giovane ancella di nome Bianca.  

Le dispute durarono secoli e furono funestate dallo scorrere di molto sangue, fino a quando le due famiglie decisero di giungere a una tregua e per suggellare il patto concordarono un matrimonio tra Torberto di Collalto e Chiara da Camino.

I due giovani sposi vissero i primi tempi abbastanza felici nel loro castello ma, essendo Chiara di indole autoritaria e possessiva, quando scoppiarono le prime incomprensioni, il conte decise a cuor leggero di arruolarsi e andare a combattere.

Nel momento in cui entrò nella stanza della moglie per un ultimo saluto, la sua ancella la stava pettinando. Bianca era una giovane e bella donna entrata a far parte della servitù del castello da bambina e che col tempo si era molto affezionata ai conti di Collalto.

Attraverso lo specchio, alla moglie non sfuggì lo sguardo di affetto e di stima che intercorse tra il marito e la servetta e non le sfuggirono nemmeno le lacrime di rammarico negli occhi della fanciulla.               

          

La castellana salutò il marito con trasporto ma, subito dopo, interrogò la sua ancella e non affatto convinta delle sue risposte, la fece imprigionare nelle segrete.

A nulla valsero le rassicurazioni e i ripetuti giuramenti sulla sua innocenza. La nobildonna, convinta che tra la ragazza e il marito ci fosse stata una relazione amorosa, ormai resa folle dalla gelosia, la fece rinchiudere nella torre obbligando i servi a murarla viva.

Quando il conte tornò dalla guerra, venuto a conoscenza dell’atroce fine della giovane, si rifiutò di continuare a vivere con l'assassina e la cacciò dal castello ripudiandola.


La leggenda narra che, da allora, il fantasma della giovane vittima appaia agli eredi del casato e sia foriera di buone o  cattive notizie. Vestita di bianco in occasione di lieti eventi e con il volto velato di nero in caso di eventi luttuosi.

                                                         

                  
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mercoledì 14 aprile 2021

La leggenda di Arione e il delfino

 


Arione era un famoso suonatore di cetra, talmente abile, da diventare il musico preferito di Periandro, il tiranno di Corinto. Il sovrano adorava il suo canto e la sua musica ma, quando Arione decise di lasciare la corte per portare la sua arte in giro per la penisola, Periandro non glielo impedì, anzi, parve felice che l’amico andasse anche altrove a raccogliere il meritato successo.

Il musico viaggiò a lungo per tutta l’Italia ma, a Taranto, si fermò più a lungo ottenendo grandi consensi e accumulando una vera fortuna.

Ormai stanco anche di quel luogo, Arione decise di far ritorno alla sua patria, all'isola di Lesbo, imbarcandosi su una nave pronta a salpare.

Durante la navigazione effettuarono alcuni scali in vari porti della Sicilia e Arione ne approfittò per esibirsi, guadagnando molto oro e denari.  

Venuto a conoscenza delle enormi ricchezze custodite dal passeggero, gli uomini dell’equipaggio decisero di derubarlo e di ucciderlo.                                   


Per fortuna, la notte prima dell'attentato, il musico fece un sogno premonitore dove gli apparve il dio Apollo che gli svelò il complotto ordito dall'equipaggio promettendogli che si sarebbe salvato se avesse seguito le sue indicazioni. 

Nel momento in cui venne aggredito, Arione supplicò la ciurma di lasciarlo in vita, ma i marinai non ebbero pietà e gli proposero due macabre alternative: un suicidio,  con la promessa di una degna sepoltura al loro arrivo sulla terraferma, oppure un tuffo spontaneo in alto mare.

Arione scelse la seconda, ma prima del tragico tuffo, domandò di poter fare un’ultima esibizione. L'equipaggio glielo concesse e il musico, con la sua cetra, intonò una melodia dedicata ad Apollo, così soave, da attirare un branco di delfini.

Quando il citaredo si tuffò, uno dei cetacei lo raccolse sul suo dorso e lo trasportò fino al santuario di Poseidone a Campo Tenaro.

I marinai, non accorgendosi del salvataggio, proseguirono tranquillamente la navigazione.

Arione, una volta tornato a terra, desideroso di ripartire al più presto, dimenticò di sospingere il suo salvatore al largo e il delfino, perso il senso dell'orientamento, morì in quel porto.

Una volta tornato a Corinto, il musico raccontò le sue vicissitudini al re, che si commosse e ordinò che il corpo del delfino fosse ritrovato, sepolto e che gli fosse dedicato un monumento funebre.

Dopo pochi giorni, nel porto di Corinto, attraccò la nave su cui Arione aveva viaggiato.

Il re convocò l'intero equipaggio a corte e fingendo di ignorare quanto era accaduto, domandò notizie del musico. I pirati mentirono, inventando che Arione godeva di ottima salute e che era ancora in giro per la penisola a raccogliere successo e denaro.                          

                     

Periandro li fece rinchiudere in prigione ordinando: “Domani giurerete davanti al monumento del delfino!”

Il giorno dopo, i malviventi giurarono di aver detto la verità e solo allora Arione si fece avanti smascherando i delinquenti.

Avendo avuto la conferma della loro colpevolezza Periandro emise una condanna di morte facendoli crocefiggere nei pressi del monumento al delfino.

La leggenda termina narrando che Apollo, ammaliato dalla musica e dal canto di Arione trasformò il musico e il delfino in due costellazioni: quella appunto del Delfino e quella della Lira. 

                                                    

                                              

                       

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sabato 10 aprile 2021

Tuya, Raggio di Sole della Steppa ( epilogo)

 



Timughe Khan notò il cambiamento nella postura di lei e lo interpretò come rassegnazione: «Ti arrendi, colombella? Non sei nata per fare la guerra» In quel momento, un calcio lo colpì nel basso ventre e il mongolo si trovò costretto a indietreggiare.

La vestale sguainò il bastone da combattimento e con un balzo acrobatico si rimise in piedi.

Il sovrano la guardò sorpreso. Negli occhi della colombella lesse la glacialità di un rapace, ma non ebbe modo di reagire in tempo, che una gragnola di legnate e calci volanti si abbatté su di lui.

Ai lati dei due sfidanti si levò una serie di sbigottiti mormorii.

Sia i mongoli che i tibetani assistettero meravigliati alla trasformazione della vestale. Sul campo non vi era più l'esile fanciulla ostentante forza e sicurezza, che era stato palese fino allora non avesse, bensì un fulgido esempio di orgoglio e destrezza guerriera.

Tuya era incontenibile, agile, elastica ed esperta. Parve evidente che tra lei e il mongolo esistesse una differenza abissale, dovuta sì all'imponenza del sovrano, a cui però lei sopperiva con l'addestramento maniacale e marziale a cui era stata sottoposta per anni.

La vestale guerriera compiva balzi da pantera, schivava i colpi, si ritirava e assaliva. Menava colpi decisi con il bastone, che il mongolo accusava con grugniti di dolore e infliggeva calci e pugni che l’altro non riusciva a evitare perché, talmente repentini, da non vederli arrivare.

Timughe Khan, nonostante la mole, si ritrovò ben presto in difficoltà. La sua preda era guizzante come una serpe e agile più di un felino. Era un po’ che il mongolo aveva rinunciato a non ferirla anzi, da qualche minuto cercava anche di infliggerle un colpo mortale.

Cogliendone l'evidente disagio, i suoi guerrieri iniziarono a rumoreggiare contrariati.  Mentre i tibetani esortavano la loro eroina, i mongoli, impressionati per la supremazia bellica dimostrata dalla giovane donna, ghignavano, quasi deridendo il loro sovrano.

Il tiranno iniziò ad avvertire la stanchezza e per la prima volta in vita sua perse tutta la sicumera.

Uno sguardo ai suoi guerrieri gli fece intuire quanto fosse a un passo dall'ingloriosa disfatta e allora reagì e, con un ruggito, sbraitò i suoi ordini: «Guerrieri! A me! Ammazzate tutti questi cani! Annientateli!»

I suoi uomini rimasero basiti per l’ordine e Tuya si irrigidì in una posa statica. Sul suo volto si disegnò tutto lo sgomento provocato da quelle parole. Il re mongolo veniva meno alla parola data e ordinava un massacro.

Il cuore le balzò in gola e la collera le annebbiò la vista. Si catapultò sul suo rivale e gli assestò un pugno sul mento facendogli sganciare l’elmo dal sottogola. Il khan si liberò del copricapo poi, prima che lei si avventasse di nuovo, le afferrò un braccio torcendoglielo e la immobilizzò, stringendola saldamente sul suo pettorale.

«Hai finito di saltellare, colombella!» le sibilò in un orecchio.

Proprio in quel momento, nell'aria si espansero una serie di strida e gli occhi di tutti si volsero in alto. La figura di un’aquila gigantesca oscurò quella porzione del cielo.

 

venerdì 9 aprile 2021

I leggendari Cavalieri della Tavola rotonda


Sir Bedivere, leale a Re Artù fino alla morte, fu con lui anche nell'ultimo, estremo viaggio verso l'isola di Avalon, e fu uno dei primi cavalieri a far parte della compagnia.

Fu proprio lui a supportare il re nello scontro con il gigante di Mont Saint Michel e, in seguito, venne nominato Duca di Neustria. Sir Bedivere perse una mano durante una battaglia e, nonostante la mutilazione, si narra di una sua presenza anche nell'ultima e tragica battaglia di Camlan. Pare, inoltre, che solo lui e Re Artù sopravvissero, obbedendo a un ordine del suo sovrano. In seguito, fu ancora lui a gettare Excalibur nel lago, nel momento stesso in cui la misteriosa dama che vi dimorava, protendeva una mano per afferrarla e riportarla con sé negli abissi.

 


Sir Galahad, soprannominato “il Cavaliere perfetto “, figlio naturale di Lancillotto, fu portato in convento quando era ancora un bambino. Si narra che fosse affidato alla badessa che era una sua prozia. Pare che fosse proprio Galahad a estrarre la Spada nella Roccia e a sedersi sul Seggio Periglioso. Quando alla corte gli apparve la visione del Sacro Graal, fu uno dei tre cavalieri scelti per la ricerca del sacro reperto.

 

Sir Geraint viene ricordato per un'intricata storia di amore e infedeltà. Geraint era anche un Cavaliere di Devonshire e uno dei più grandi capitani di flotta della Britannia. Dopo la prematura morte di sua moglie, rimase per il resto della vita a corte in cerca di azione e avventure.  In una delle tante leggende si narra che morì insieme a Re Artù durante la battaglia di Longborth contro i Sassoni. 

Sir Gawain, detto anche il Cavaliere Verde, nella letteratura inglese ricopre un ruolo principale e viene raffigurato come un vero eroe, ma anche un fulgido esempio di condotta cavalleresca e squisita cortesia. Si narra che Gawain fosse l'amico più fidato di Sir Lancillotto e che fosse designato a diventare il legittimo erede del trono di Camelot, dopo la morte di Re Artù.

Sir Kay, figlio di Sir Ector e fratello adottivo di Artù, conosciuto come “il Siniscalco”, importante titolo militare e come “The Tall”, dall’inglese “l’Alto”, per via della sua considerevole altezza. Si narra che avesse poteri magici ed era per questo considerato uno dei “Tre Cavalieri Incantatori della Gran Bretagna.” Pare che in gioventù avesse un carattere volubile e crudele e, forse, anche un tantino menzognero, considerato che si vantò di essere stato lui ad estrarre la Spada nella Roccia, tranne poi confessare che fosse stata impresa esclusiva di Artù. 

Sir Tristano era il nipote del re di Cornovaglia e suo protettore. Quando Tristano nacque, in seguito al difficile parto, la madre mori e il bambino andò a vivere presso la corte dello zio diventandone da grande il Campione. La leggenda narra di una storia d'amore tra lui e la bella Isotta, promessa sposa di re Mark.

Si narra che Tristano venne inviato in Irlanda alla ricerca di una fanciulla meritevole di diventare regina di Cornovaglia, ma quando i due giovani si incontrarono, si innamorarono perdutamente e decisero per una fuga d’amore.

Una sera, mentre Tristano suonava l'arpa per l'innamorata, Mark li sorprese alle spalle e uccise il nipote. Secondo un'altra leggenda, invece, i due spasimanti si sposarono ed ebbero due figli.

Sir Percival, Parsifal. La leggenda narra che questo cavaliere non avesse ricevuto addestramento militare e, essendo di umili origini, non avesse conoscenza dei modi cortesi obbligatori per i cavalieri della corte di Re Artù. Furono comunque le sue doti naturali e le sue prodezze a farlo entrare nella compagnia della Tavola Rotonda.

Parsifal, in una leggenda, è anche il padre di Lohengrin, il cosiddetto “Cavaliere del Cigno”, dalla famosa opera di Wagner. 

Sir Lancelot du Lac, uno tra i più famosi dei cavalieri di re Artù e uno dei primi a formare la compagnia. Era noto per il grande coraggio e la cortesia, oltre a un profondo altruismo. Lancillotto era considerato un grande combattente ed esperto spadaccino.

La leggenda narra che venne abbandonato alla nascita sulle rive di un lago, dove venne ritrovato da Vivien, la Dama del Lago, che lo allevò, inculcandogli le regole cavalleresche.

Lancillotto è anche famoso per la sua storia d'amore con Ginevra, moglie del re. Una storia finita tragicamente con l'espulsione del cavaliere dalla leggendaria compagnia. 

Sir Lamorak, pare che fosse uno tra i più forti tra i cavalieri. Anche con lui si narra di una storia d'amore e tradimenti. Pare  che fosse l'amante di Lady Morgause, vedova  di re Lot Orkney ucciso da Pollinore, il padre Lamorack.

Era considerato il terzo miglior cavaliere dopo Sir Lancillotto e Sir Tristano, ed era noto per la sua forza e la sua indole ardimentosa.

In alcuni duelli sostenuti con entrambi i cavalieri, Lamorak non venne mai sconfitto anzi, ogni sfida terminò in perfetta parità.

Per la sua straordinaria forza  fisica, si narra che un giorno sostenne un combattimento contro oltre una trentina di nemici e che rimase ucciso per una coltellata inflitta a tradimento da Mordred, che lo colpì alla schiena.  Mentre, in un'altra leggenda, si narra che venne ucciso da Sir Gawain per vendetta e per interrompere la relazione che aveva con la madre dell’assassino. 

Sir Gaheris, figlio di re lot e della consorte  Morgause, era fratello di Gawain e Garreth.

Sia Gaheris che Garreth furono uccisi per errore da Lancillotto, quando il cavaliere salvò la regina Ginevra dal rogo. A causa del marasma scoppiato nella battaglia che seguì al salvataggio, Sir Lancillotto non riconobbe il due cavalieri e li uccise. Sir Gawain, fratello maggiore delle due vittime, portò rancore per tutta la vita al colpevole.

Sir Bors de Ganis , fu l'unico dei tre cavalieri sopravvissuto alla ricerca del Sacro Graal . Sir Percival e Sir Gahalad, partiti insieme a lui, perirono durante la perigliosa avventura.

Si narra che Bors fosse stato un cavaliere puro nell’anima e nel corpo e che avesse fatto giuramento di eterna castità, ma la figlia di re Brandegoris, innamoratosi del cavaliere, non riuscendo a sedurlo, pur di conquistarlo fece ricorso a un incantesimo. Mediante un talismano magico costrinse Bors a contraccambiare il suo sentimento e la sua passione. Il cavaliere, prigioniero della malia, venne meno al voto cedendo alle mire della bella castellana. Dall'unione nacque Elian il Bianco, divenuto poi imperatore di Costantinopoli.

Sir Ector era forse il cavaliere più anziano della Tavola rotonda. Di nobili origini, la leggenda narra che Mago Merlino gli affidò il piccolo Artù, perché lo crescesse come fosse un figlio. Ector ignorava che il piccolo fosse il legittimo erede al trono e Artù crebbe con la convinzione che Ector fosse suo padre e Kay, l’altro figlio del cavaliere, fosse suo fratello. Artù ignorò le sue vere origini fino al momento in cui estrasse la Spada nella Roccia ereditando legittimamente il titolo di sovrano d’Inghilterra.

                                           

                     

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mercoledì 7 aprile 2021

I cavalieri della tavola rotonda (1a parte)

            

                 

La tavola rotonda era il tavolo del castello di Camelot, fatto costruire da re Artù per discutere con i suoi cavalieri di questioni importanti. Lo scopo della rotondità della tavola era quello di assegnare a tutti i Cavalieri lo stesso prestigio, per non fare insorgere tra loro questioni dovute a gelosie, che avrebbero potuto generare incresciosi conflitti. Difatti, non essendoci nessun capotavola, ogni Cavaliere, re compreso, occupava un posto uguale a tutti gli altri e si evitavano così inutili dispute.

Ancora oggi rimane un dubbio sulla grandezza e sui posti effettivi intorno a essa. La leggenda narra che fossero dodici, più il Seggio Periglioso, la tredicesima sedia vacante assegnata da Merlino a quel Cavaliere che avesse rinvenuto il Sacro Graal.

Colui che avesse osato sedersi sul Seggio Periglioso senza averne diritto sarebbe incorso nella totale disgrazia morendo sul colpo o, in alternativa, inghiottito da un’improvvisa voragine.

Di volta in volta e, secondo svariate leggende, saranno Sir Gahalad o Sir Parsifal ad occupare legittimamente il prestigioso seggio.

Carità, astinenza e verità. Per entrare a far parte della leggendaria compagnia della Tavola Rotonda erano questi i precetti a cui un Cavaliere non avrebbe mai dovuto venire meno, oltre a possedere una fede incrollabile nel Signore.

Uomini votati al coraggio, alla cortesia, all'onore e alla nobiltà. Paladini di dame e damigelle, di cui si impegnavano a difendere l'onore e l'innocenza fino allo stremo delle forze o, addirittura, fino alla morte.

Un vero Cavaliere non avrebbe mai costretto una dama a fare qualcosa contro la sua volontà.

Inoltre, doveva ergersi a difesa dei deboli e impegnarsi a combattere la povertà. Nel caso avesse incontrato qualcuno in pericolo o in difficoltà, doveva prodigarsi con tutte le sue energie per aiutarlo.

Di seguito l'elenco dei dodici cavalieri:

Sir Bedivere, leale a re Artù, fu uno dei primi a entrare nella compagnia.

Sir Bors de Ganis, l'unico che sopravvisse alla ricerca del Sacro Graal.

Sir Gaheris, prima di entrare nella compagnia fu addestrato dal fratello maggiore Gawain.

Sir Galahad, il figlio naturale di Lancillotto.

Sir Gareth, un altro dei fratelli minori di Gawain, forse il più piccolo.

Sir Gawain, considerato nipote di Artù.  

Sir Geraint, un Cavaliere di Devon.

Sir Kai, fratello adottivo di Artù. Pare che questo Cavaliere fosse di statura notevole, tanto da meritarsi l’appellativo “The Tall”

Sir Lamorak, figlio di re Pellinore e in alcune leggende fratello di Percival, anche detto Parsifal.

Sir Lancelot du Lac, Lancilotto, figlio di re Beon e della regina Elaine.

Sir Percival, Parsifal, l'unico a non avere conoscenza delle armi e dei modi cortesi. Eppure, fu per le sue doti naturali e le sue prodezze che riuscì a entrare nella compagnia.

Sir Tristano, nipote del re Mark di Cornovaglia.


                                                                                                        

                        



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domenica 4 aprile 2021

Tuya, Raggio di Sole della Steppa(6a parte)

                                                                                  




Il silenzio sceso tra i tibetani era dovuto al gelo provocato dall’inquietante apparizione.

Ragghin immaginò la fine fatta dalle vedette messe a difesa dell'accampamento e, il monaco guerriero che gli era accanto, ne concretizzò il pensiero: «Le sentinelle non hanno avuto nemmeno il tempo di dare l'allarme!»

Per istinto, Tuya, portò la mano sul pendaglio magico, ma Ragghin ne fermò il gesto: «Non ora, mia signora! Servirebbe a poco.»

La gemma era fredda e la ragazza rinunciò a esporla, domandosi però, se quella creatura arcana fosse in grado di percepire e presagire le imminenti potenzialità magiche della pietra.

Come se ne avesse percepito il dubbio, la creatura le spiegò: «Per qualche motivo misterioso quella gemma è in grado di captare un pericolo imminente e in questo momento, come puoi ben vedere, la minaccia rimane lontana. Se tu la esponessi non funzionerebbe.»

Proprio in quel momento un gruppo di cavalieri mongoli si mosse, palesando un vessillo bianco, con la chiara intenzione di parlamentare.

Ancora una volta fu Ragghin a muoversi per prima seguita dagli altri. «Andiamo a sentire cosa vogliono!» disse, spronando il suo cavallo al trotto.

Entrambi i gruppi si fermarono nel mezzo delle due formazioni belliche.

Il capo dei mongoli squadrò con aria incredula la scimmia a cavallo studiandone con curiosità e sfrontatezza la postura, le armi e la corazza di cuoio. Un ghigno gli balenò sul volto, dai lineamenti che sembravano sbozzati nel legno scuro e storcendone le labbra sottili in una smorfia sprezzante.

Timughe Khan continuò imperterrito a scrutare il primate. Gli occhi scuri, dal taglio spiccatamente all’insù, si strinsero come due fessure e il silenzio tra i due gruppi si prolungò imbarazzante. Poi, il khan esordì con tono irrisorio: «Quando i miei guerrieri mi hanno parlato di una scimmia amazzone ho pensato a uno scherzo!»

Ragghin non mosse un muscolo e non diede a vedere di avere compreso; squadrò a sua volta con freddezza il mongolo lasciando a Tuya la parola: «Dov'è il principe Ramroch?» domandò la ragazza marcando un tono autoritario e assumendo una posa ancora più marziale.

Timughe Khan spostò la sua attenzione su di lei soffermandosi ad ammirarne la figura ed esagerando un'espressione ammirata.

«Finalmente ti conosco “Tuya, la misericordiosa!” Durante la battaglia sei riuscita a conquistarti la stima e l’ammirazione di gran parte dei miei guerrieri e ora ne comprendo i motivi.»

Le parole allusive ma, soprattutto lo sguardo lascivo del sovrano mongolo, la fecero infuriare, ma Tuya ingoiò la risposta prepotente che le salì alla bocca. Strinse con forza il pomolo della sella imponendosi la calma e scandì con più veemenza: «Ti ripeto la domanda, dov'è il principe Ramroch?»

Il khan sorrise di sghembo, poi si volse appena indietro e fece un gesto verso i guerrieri appostati sulla collina.

Per qualche istante non accadde nulla, poi sullo sfondo comparve la figura di un guerriero a cavallo che, al galoppo, trascinava un prigioniero legato con una lunga corda alla sella. La lontananza era molta, ma la figura del principe tibetano era inconfondibile.

Ramroch era costretto a correre dietro al cavallo e rischiava ogni momento di inciampare e cadere.


Il cavaliere trascinò il prigioniero per qualche secondo, seguito dallo sguardo preoccupato dei compagni, poi rientrò nei ranghi e le due figure si confusero tra le altre sulle colline.

«Cosa pretendi per la sua liberazione?»  domandò Ragghin e il mongolo, sentendola parlare, trasalì visibilmente: «Una scimmia parlante? Che stregoneria è mai questa?»

Si udì un ringhio profondo, minaccioso. Gli occhi della creatura si accesero di un fuoco ferino, selvaggio. I cavalieri mongoli, intimoriti da quella inquietante figura, indietreggiarono, trasmettendo il loro nervosismo alle cavalcature che scalpitarono, ma le loro mani si posarono sulle lance e sulle else delle spade.

«Dicci cosa vuoi per liberarlo!» rimarcò in modo tenebroso Ragghin.

Timughe Khan si riebbe dalla sorpresa e tentò un sorriso, ma era evidentemente a disagio: «Questa è davvero la prima volta in vita mia che mercanteggio con una scimmia ...»


Non terminò la frase perché Ragghin diede uno strattone alle redini facendo avanzare di qualche passo il suo destriero ed emettendo una serie di ringhi inequivocabili. Per un breve istante i canini balenarono minacciosi.

Solo allora il sovrano si decise: «Va bene! Va bene! Non ti infuriare! Datemi quella gemma e io vi consegnerò il vostro principe.»