Fantasia

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La brama della scrittura arde come una fiamma in un cuor propenso. Vivì

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martedì 29 giugno 2021

Ali candide nel cielo (3a parte)

 




La magica creatura

 

Il cielo era ormai una distesa sterminata di stelle luminescenti quando la luna risaltò al suo centro, in tutto il suo splendore.

“Bella tra le belle! Dovrebbe essere plenilunio tutti i giorni!” pensò Mark, disteso a riposare su di un improvvisato giaciglio ricavato da un mucchio di soffice paglia.

Il ragazzo si era fermato nelle stalle per assistere al parto ormai prossimo di una delle giumente arrivata al termine della gravidanza.  Mentre attendeva il momento se ne stava disteso supino ad ammirare lo spettacolo offerto dalla notte attraverso uno spiraglio del tetto un po’ sconnesso.

«Bella» ripeté tra sé senza nemmeno rendersi conto che il suo pensiero aveva intrapreso un sentiero silvestre dove, in un sogno frequente, gli appariva l’immagine di una fanciulla dagli occhi verdi e i lunghi capelli neri che piroettava leggiadra.

«Ma chi sei, regina dei miei sogni?» domandò nel buio «Perché mi perseguiti in questo modo?»

Le stelle palpitarono nel cielo e a Mark parve che gli stessero ammiccando, mentre la luna gli sembrò prendere vita assumendo un’espressione sorniona. Il ragazzo emise un profondo sospiro di petto e i suoi pensieri sconfinarono nuovamente, catturati dalla danza di una diafana creatura.

Poco distante, nella vecchia stalla, Gylldor scalpitava inquieto, come sempre gli accadeva durante le notti di plenilunio. In quel momento, l’unicorno avvertì l’avvicinarsi di una minaccia e sbruffò scartando, sempre più inquieto.

Gylldor non era ancora consapevole della sua natura magica, ma era stato proprio per quel motivo che era riuscito a percepire la sensazione di pericolo. Gli zoccoli batterono nervosamente sull’impiantito ricoperto di paglia mentre scandagliava, tutti i sensi tesi allo spasimo, la penombra che avvolgeva la stalla.

Un attimo prima d’intravedere la minaccia, un lungo brivido percorse il suo manto, i fianchi poderosi tremarono e il pelo gli si rizzò. Dall’oscurità era emersa una figura imponente che appariva mostruosa.

Il giovane unicorno rimase immobile, come basito. Tra lui e l’uscita dalla stalla vi erano soltanto una decina di metri, ma nel momento stesso in cui si riprese e tentò la fuga, si rese conto di essere ormai circondato.

Il locale era pieno di creature misteriose dalle movenze minacciose. «Chi siete? Cosa volete da me?» domandò, rendendosi conto di poter comunicare facilmente con quegli esseri misteriosi.

Un silenzio di piombo scese, mentre nell’ambiente risuonò inquietante una cacofonia di sibili e un gran raschiare di gola. «Non è stato affatto facile trovarti, ma alla fine ci siamo riusciti. Il nostro sovrano ne sarà molto lieto.»

«Il vostro sovrano?»

«Zephar, il Signore delle Terre del male! Il nostro padrone e da oggi anche il tuo!»

«Io non ho un padrone! Andatevene e lasciatemi in pace!» provò a obiettare il puledro, ma fu costretto a prendere atto di essere stato messo alle strette. Dietro di lui soltanto la nuda parete della stalla e le uniche due uscite, situate ai due lati opposti della lunga costruzione, erano presidiate da altri sgherri.  Il terrore che quelle creature sconosciute gli suscitavano gli morse dolorosamente lo stomaco. “Devo fuggire! Ma come? Mark, dove sei, amico mio?” implorò Come fare a fuggire?” ormai in preda all’ansia e alla paura.

Con tono reso rancido dalla malvagità, l’aggressore non gli diede tregua: «Sei una creatura maligna! Il tuo posto è tra noi nel regno del male.»

«Vi sbagliate!» riuscì ancora a replicare Gylldor, un attimo prima che un magone gli impedisse di proseguire «Io sono nato libero e non appartengo al vostro regno malvagio!»

Nell’aria si espanse il suono gracchiante di quella che doveva essere una risata di scherno. Gylldor scosse il lungo collo eburneo e il corno che spiccava sulla sua fronte luccicò al buio. La trasformazione dovuta al plenilunio era ormai giunta al culmine.

«Come, non ti accorgi delle ali che porti al tuo fianco? Non vedi quanto è nero il tuo manto? E non avverti il tuo sangue ribollire nella brama di vedere scorrere altro sangue?»

Il puledro si guardò. Effettivamente quello che diceva quell'essere poteva essere in parte vero. Il colore del suo manto era nero come la notte buia, o come la pece del più infido inferno, e delle ali pendevano ai suoi fianchi. Ora poteva vederle con chiarezza, come il corno che gli svettava in modo imperioso sulla fronte. Inoltre, sentiva effettivamente il suo sangue ribollire, ma non perché sentisse il bisogno di veder scorrere altro sangue. No! La sola idea lo faceva stare male!

Guardò terrorizzato quegli esseri mostruosi, che incombevano assediandolo pericolosamente vicini, così tanto da poterne percepire l’alitare mefitico.

Gylldor volse il capo disgustato e in quel momento realizzò che non si sarebbe mai arreso e che non sarebbe mai diventato una creatura del male.

La paura e l’angoscia gli fecero salire l’adrenalina a mille e la sua indole mansueta si dissolse come neve al sole. Il puledro avvertì la collera ribollire come un fiume in piena e montare e montare fino a dilagare e impadronirsi della sua coscienza. Ora era pronto a combattere a costo della vita pur di non perdere il bene più prezioso che sentiva di possedere: la sua libertà!  Non si sarebbe arreso facilmente alla cattura; non finché avesse avuto un briciolo di energia!

Ma un attimo prima di buttarsi a capofitto contro il primo degli aggressori nella stalla si udì la voce di Mark: «Che succede, Gylldor?»

Percepito il trambusto che gli giungeva dalla stalla e preoccupato per l’amico, il giovane stalliere aveva lasciato la partoriente per verificare cosa stesse avvenendo, ma non si era ancora accorto della grave minaccia che stava in agguato nell’oscurità.  Mark avanzò di qualche passo in direzione del box in cui aveva lasciato il puledro.

L’avvertimento emanato da Gylldor gli giunse con un attimo di ritardo: Sta lontano, vattene ragazzo!

Le creature maligne si gettarono d’istinto sul nuovo venuto e fu con un urlo di raccapriccio che il giovane vide i musi dei suoi aggressori.

Il sangue gli si gelò nelle vene: «Golem?» riuscì a biascicare, ricordando alcune raffigurazioni delle mitiche creature ideate dalla fantasia di qualche estroso autore.

Quello che sembrava il capo degli aggressori scrutò il ragazzo dall’alto in basso con un’espressione ottusa, mentre gli si avvicinava per studiarlo meglio.

Qualsiasi cosa siano dobbiamo liberarcene! suggerì Gylldor, buttandosi con furia contro la creatura che minacciava l’amico.

L’impatto tra i due fu micidiale e, forse perché il gigante era malfermo sulle gambe, o forse solo per pura fortuna, Gylldor nello scontro ebbe la meglio e riuscì a sbilanciare l’altro, tanto che tra gli aggressori si creò un varco improvviso. Per qualche secondo quelli rimasero sconcertati, intimoriti dal corno micidiale e dagli zoccoli del giovane unicorno che battevano furiosamente sull'impiantito. In fin dei conti si trattava di creature ardimentose finché erano compatte e formavano massa, l’esitazione di una coinvolgeva le altre riducendo il gruppo a un branco di timide pecore. Davanti alla furia di Gylldor esitarono, retrocedendo di qualche passo. Si tirarono indietro per quel tanto che bastava perché il puledro ne approfittasse per lanciare il suo richiamo: Salta in groppa Mark e filiamocela!

Il ragazzo non se lo fece ripetere, e con un unico, agile balzo si mise a cavalcioni del suo amico.

Gylldor si impennò, nitrendo furiosamente verso le sinistre figure, quindi con una spinta di reni poderosa si lanciò al galoppo.

Tieniti forte, Mark!

«Vai, Gylldor! Corri col vento!»

venerdì 25 giugno 2021

Ali candide nel cielo (2a parte)

 



Zephar, il Malefico

 

Il Signore delle Terre del Male era il sovrano autoproclamato di quella parte desolata del regno di Faerie. Era un uomo malvagio che, approfittando della sua forza e delle sue conoscenze esoteriche, aveva intrapreso una guerra spietata per spodestare i legittimi regnanti e tutti i possibili aspiranti al trono.  Finché dopo infinite e cruente battaglie, era riuscito a prevalere e a impossessarsi dello scettro del potere.

Il suo vero nome era Zephar, ed era considerato un demone e forse anche per questa popolana credenza nessuno era mai riuscito a contrastarne l’ascesa o, in seguito, a ribellarsi. La sua figura imponente spiccava persino tra le creature gigantesche che erano i suoi sgherri, somiglianti a dei Golem, poiché il malvagio sembrava avesse la prerogativa di far crescere la materia a dismisura e a plasmarla come più gli garbava.

O perlomeno, era questa l’illusione che ne avevano i suoi sudditi.

Oltre l’aspetto fisico, come ulteriore caratteristica che lo contraddistingueva vi era il grande mantello nero che non rinunciava mai a indossare, le cui lunghe falde fluttuavano come ali di pipistrello sulla sua schiena. Amava ammantare la sua persona di mistero, e con il passare del tempo le leggende su di lui si erano moltiplicate. In una si narrava che subisse continue trasformazioni, e che in una di queste assumesse un viso dai tratti animaleschi. Nessuno in realtà aveva mai assistito a queste mutazioni, e se qualcuno ne era stato testimone, quello a cui aveva assistito era solo pura illusione. Il sovrano era un mago molto esperto e specializzato in sortilegi di magia nera.

Zephar il Malefico era il titolo con cui si era autonominato e con il quale preferiva presentarsi, mentre con l’appellativo   “Demone” era quello con cui il popolo lo identificava.  Quel soprannome aveva il potere di seminare scompiglio e terrore ogni volta che veniva sussurrato.

Mentre nella dimensione terrena l’amicizia tra Mark e Gylldor cresceva e si rafforzava, nel regno del male in fibrillazione, i messaggeri alati avevano portato da tempo l’annuncio della nascita del giovane unicorno e della morte della giumenta. Da una prima notizia, il sovrano aveva saputo che il puledro era l’orfano di una principessa della sua specie, e che era bellissimo, oltre che sano e robusto. Si presupponeva, dunque, che nessun’altra creatura quadrupede fosse in grado di competere con lui nella corsa. Per questo motivo Zephar lo bramava per sé con tutte le fibre del suo essere, per farne la sua cavalcatura preferita. Quindi, appena ricevuta la notizia, inviò un manipolo dei suoi guerrieri migliori in una missione esplorativa, alla ricerca di eventuali tracce del piccolo.

Quel giorno, nella sala del trono dove riceveva, si respirava un’aria densa di negatività. Zephar se ne stava comodamente sprofondato sul suo seggio, un ornamento monumentale al quale si poteva accedere mediante una scalinata in marmo.

Coloro che vi si trovavano davanti non potevano che rimanere soggiogati e intimoriti alla vista degli esseri infidi che il sovrano aveva scelto come compagne fidatissime per adornare la sua maestosa seduta. Gli occhi fiammeggianti delle serpi, insieme ai sibili raschianti e le lingue biforcute servivano da deterrente per eventuali mosse contro il tiranno. Il trono era anche adorno di due teschi dalle orbite di fuoco, uno per bracciolo, le cui mascelle ghignanti si aprivano satanicamente ogni volta che veniva emessa una condanna a morte.

In quel momento Zephar scese dal trono e, attraversata la grande sala con falcate nervose, sostò per qualche minuto, assorto presso una delle grandi finestre del castello. Osservò pensosamente il recinto dove stavano raggruppate le creature che una volta erano state unicorni tramutati in Pegasi Oscuri, perché avvelenati dagli artigli delle sue arpie. Il sovrano, fino ad allora silenzioso, si volse bruscamente dirigendosi verso il centro, posizionandosi sul più alto dei gradini della scala di marmo.

L’attenzione dei cortigiani si soffermò sull’aspetto fisico del loro sovrano. I tratti del viso erano perfetti, quasi fossero cesellati, dipinti. La carnagione appariva di un bel colorito abbronzato, il naso era diritto e la bocca carnosa. I capelli scuri e assai folti, arricciati lievemente sul collo e sulla fronte spaziosa.

Il sovrano, che allenava costantemente il suo fisico, aveva un aspetto magnifico, e le appartenenti al genere femminile presenti nella sala fremettero nel constatarne la mascolinità. Zephar, tutto preso da ben altri pensieri, ignorò gli sguardi di ammirazione. Lanciò un’occhiata penetrante agli sgherri che attendevano i suoi ordini, quindi con piglio deciso disse: «Coloro che hanno fallito nel primo tentativo di riportare qui la madre e il suo piccolo sono stati puniti adeguatamente. Che nessuno di voi lo dimentichi mai, nemmeno per un istante!» esclamò, passando in rassegna la schiera di uomini in armi che si sottoponevano, abbassando il capo davanti al loro sovrano.

mercoledì 23 giugno 2021

Ali candide nel cielo






Nella terra magica di Faerie, una giovane giumenta bianca galoppava disperatamente nel tentativo di sfuggire ai suoi inseguitori. Correva dando il massimo e con il rischio di farsi scoppiare il cuore, ma avvertiva di essere ormai al limite delle forze e il peso che le gravava in grembo le impediva di mettere una distanza di sicurezza tra lei e le creature maligne che la inseguivano.

Il terrore e l’istinto di protezione che sentiva naturalmente verso la sua creatura, la spingevano alla fuga, ma l’affanno e la stanchezza le suggerivano che stava rischiando di perderla ugualmente.  Difatti, erano iniziate le contrazioni e questo poteva solo significare che il parto era vicino. Urgeva che riuscisse a sfuggire alle belve demoniache che non le davano tregua e che trovasse un luogo tranquillo e sicuro dove fare nascere il suo piccolo. Se non fosse riuscita a mettere al mondo la sua creatura, la sua stirpe rischiava l’estinzione.  Purtroppo, era una dei pochi esemplari della sua specie sopravvissuta alla strage perpetrata per anni dalle forze del male.

La giumenta apparteneva alla prodigiosa stirpe degli unicorni, creature al servizio della magia bianca, in stretta collaborazione con le fate.

Era noto che fossero creature timide, schive, che non si lasciavano avvicinare dagli esseri umani ed evitavano in tutti i modi di entrarne in contatto. Nel contempo si sapeva che fossero creature forti, dal fisico possente, resistenti a ogni fatica. Al candido pelo e al lungo corno a torciglione che spiccava sulle loro fronti erano state attribuite erroneamente e per secoli alcune proprietà magiche, e per questo motivo la creatura era stato soggetta a una caccia spietata e, col passare del tempo, la sua splendida razza era arrivata a contare poche decine di esemplari.

I dubbi sulla sopravvivenza della specie erano molti nel mondo magico di Faerie. Se anche il piccolo fosse riuscito a nascere e a crescere sano e robusto, ma soprattutto libero, una volta adulto avrebbe mai trovato una compagna?

Era un dubbio plausibile, ma questo non avrebbe impedito alla giovane mamma di cercare in tutti i modi di salvare il suo puledro e nemmeno  avrebbe mai permesso che venisse catturato vivo e trasformato in una di quelle creature alate, nere come la pece e malvagie che si vedevano sfrecciare nel cielo.

Creature del male, dal sangue infettato e maligne anch'esse.

La giovane giumenta, seppure dilaniata dalla sofferenza, se lo era ripromesso e in alternativa alla prigionia e alla schiavitù era disposta anche a sacrificare la propria creatura facendola precipitare nel limbo del nulla.  Un luogo senza tempo, privo di vita ma anche di morte, dove tutto era sommerso da una nebbia eterna, dove non esisteva realtà ma nemmeno sogni, dove non esisteva futuro.

Una fitta lancinante le trapassò in quell’istante il ventre, lasciandola senza fiato. La fuggitiva intuì che era arrivato il momento. Quella corsa a perdifiato aveva anticipato il travaglio e occorreva trovare al più presto un rifugio. Tuttavia, l’ultima doglia le aveva fatto perdere terreno e ora si trovava a poca distanza dagli inseguitori, tanto che le pareva quasi di sentirne il fiato sul collo. La femmina di unicorno osò dare una sbirciata indietro, e fu proprio in quel momento che una delle creature malvagie riuscì a sfiorarla.

Lei ne intravide appena la sagoma terrificante. Appartenevano alla razza delle arpie e l’avevano raggiunta un istante prima degli altri inseguitori. Era talmente terrorizzata che non avvertì dolore al tocco degli artigli, ma forse non si accorse nemmeno di essere stata graffiata.  Era bastato intravedere le figure delle inseguitrici perché nei suoi occhi sbarrati vibrasse un orrore senza infinito.

Eppure, fu quello stesso terrore che le alimentò nuovo vigore spronandola ad accelerare.

La giumenta dimenticò il dolore del travaglio, la stanchezza e il martellare del cuore nel petto. Con un ultimo, prodigioso balzo in avanti aumentò le falcate e galoppò via divorando il terreno e lasciandosi alle spalle lo strepito e le strida degli inseguitori.

 

L’incontro con la silfide


Era riuscita a lasciarsi dietro la cacofonia di strida selvagge, ma ora doveva trovare in fretta un riparo per poter partorire al sicuro.

La femmina era molto giovane e al suo primo travaglio, e per questo motivo del tutto inesperta e molto spaventata, oltre che stremata. Arrivata ai margini di una foresta, vi si addentrò senza indugio, anche se consapevole che fitta selva di rovi e di felci poteva anche nascondersi qualche belva affamata in attesa di preda.

I suoi fianchi sussultarono con un tremito convulso, mentre si aggirava sempre più trafelata in cerca di rifugio. All’improvviso avvertì qualcosa d’indefinibile nell’aria e s’immobilizzò.  Tese i sensi allo spasimo dilatando le froge e annusando, scrutando intorno attentamente.

I suoi occhi rotearono dal terrore di veder apparire altre creature malvagie ma il bosco, la natura intera, tutto sembrava cristallizzato, come in attesa di qualche evento straordinario. La giumenta divenne sempre più nervosa. Nessun richiamo e nemmeno un alito di vento a smuovere le fronde.

Avvertì un fruscio, forse un sussurro. Qualcuno la stava chiamando e lei quasi dimenticò la paura.   Si trattava di un canto dolcissimo, una melodia, un invito allettante. Che fosse una trappola? Come avrebbe potuto essere così soave?

 Ormai al limite delle forze, si arrese e, come attirata da fili invisibili, si trovò costretta a seguire la scia di quella nenia dolcissima.

Così, tra l’intreccio di fronde e di rami, la intravide.

Era bellissima! Una silfide. Una creatura arcana nata dalla stessa magia benefica a cui apparteneva anche l’unicorno. La fanciulla, perché questo sembrava, volteggiava con grazia coperta da una veste impalpabile lunga fino ai piedi. Danzava senza staccare gli occhi di dosso alla femmina in affanno e invitandola con i gesti.  Leggiadra, talmente diafana da poter sembrare evanescente e dalle movenze ipnotiche che la invitavano a non aver paura e ad avvicinarsi. «Vieni con me, Danae. Seguimi.» cantavano le note della melodia, mentre le labbra della silfide rimanevano dischiuse in un sorriso dolcissimo.

Sentirsi chiamare per nome, con quella tonalità così soave, era un invito a cui la giumenta non seppe resistere e, in modo remissivo, seguì l’incantevole creatura.

Danae rimase ammaliata dal canto della silfide e dimenticò la stanchezza.

In pochi minuti, si trovarono in un posto fiabesco. L'acqua del ruscello scorreva così quietamente da provocare appena un suono argentino e un leggero fruscio; refoli gentili di vento facevano stormire le fronde e le cullavano nell'aria, facendo danzare tante belle spore dorate. A Danae sembrò nevicasse un pulviscolo prezioso.

Presa dalla malia del luogo decise che quello fosse il posto giusto per partorire la sua creatura e il suo animo si rasserenò, quindi si stese su un fianco. 

La graziosa fanciulla, che si chiamava Chrisell, le s'avvicinò, sorridendo all’animale sofferente.

«Permettimi di aiutarti e lenire il tuo dolore, Danae!» le sussurrò con dolcezza e la femmina socchiuse gli occhi abbandonandosi a quelle mani minute che iniziarono a carezzarle il ventre gonfio e contratto. Il sollievo fu immediato ma non durò a lungo. Le contrazioni aumentarono e, assalita da una fitta atroce, iniziò a tremare in modo convulso.


Eppure, bastava la vicinanza della silfide, le sue mani delicate e il canto appena appena sussurrato per alleviare un po’ il dolore e donarle conforto. Danae ringraziò le stelle per averle offerto quel magico incontro. Almeno non era più sola ad affrontare quel drammatico momento.

La natura fece il suo corso moltiplicando le contrazioni e rendendo sempre più affannoso il respiro della partoriente, che serrò gli occhi cercando di spingere con tutte le sue forze; all'ennesima contrazione, finalmente il piccolo venne alla luce. La silfide lo accolse amorevolmente tra le sue mani.

Seppur esausta, la madre guardò la giovane che l'aveva assistita con gratitudine, poi, sollevando il collo, si protese con le labbra vellutate a leccare il suo cucciolo, ripulendolo amorevolmente. Quindi iniziò a sospingerlo con delicatezza, dandogli piccoli colpetti col muso e stimolandolo così ad alzarsi. Rabbrividendo, il piccolo cercò di sollevarsi sulle vacillanti ed esili zampette, e dopo svariati tentativi e tentennamenti, finalmente riuscì a rimanere con orgoglio ben ritto sulle zampette, tese spasmodicamente sul terreno. La madre lo osservava con quei due grandi occhi stanchi, soddisfatta di aver messo al mondo quel piccolo così sano, così vispo e così bello. Scambiò un’ultima occhiata con la silfide.

“Prenditi cura del mio piccolo, ti prego!” supplicavano quegli occhi, ormai velati di lacrime e di gelida oscurità.   

Chrisell annuì in quel suo modo soave «Vai e galoppa serena per la Celeste Prateria.  La tua creatura è al sicuro.» le disse, continuando ad accarezzarla, fino a quando con un ultimo sospiro la femmina di unicorno morì.

Chrisell pianse, sfiorando con tenerezza il muso vellutato, quindi rivolse la sua attenzione all’orfano. Come avrebbe fatto a mantenere la promessa appena fatta? Un neonato, di qualunque specie aveva bisogno di cure assidue. Per lei non era possibile accudire quel puledrino e occorreva trovare una balia che lo nutrisse e che si occupasse a tempo pieno di lui.

Proprio in quel momento il puledro abbassò il musetto in cerca delle mammelle della madre e non trovando il liquido caldo e zuccherino a cui tanto aspirava, emise un gemito sommesso. La giovane dovette costringere il piccolo a staccarsi, strappandolo a viva forza dal corpo senza vita della giumenta. Ma il neonato non voleva saperne di allontanarsi dall'odore così rassicurante del corpo impresso nelle sue froge sin dai primi attimi di vita. La diafana creatura si vide costretta a domandare l'aiuto delle sorelle. Intonò quindi il suo richiamo con un canto melodioso che si espanse subito nell'aria e che, trasportato sulle ali del vento, raggiunse le altre silfidi.

 La radura in cui era avvenuto il parto venne avvolta in un turbinio improvviso di foglie, petali e pulviscolo dorato, mentre Chrisell e il neonato unicorno assistettero alla comparsa di un gruppo di silfidi. L’aria si colmò delle voci argentine delle magiche creature, e subito fu un intreccio di sussurri e di risatine gioiose, mentre le esili fanciulle volteggiavano graziosamente intorno a Chrisell e al suo protetto.

«Che è accaduto, Chrisell?» domandò Shaila, quella che tra loro sembrava la più anziana rivolgendo uno sguardo colmo di malinconia verso il corpo esanime della giumenta.

«Si è appena conclusa una terrificante disgrazia. Non ho potuto fare nulla per salvarla» rispose «Ma ora mi occorre il vostro aiuto, sorelle.  Ho promesso alla madre che non avrei abbandonato il suo piccolo e adesso non so come fare. Datemi un consiglio, vi prego!»

«Occorre innanzitutto trovare una balia per questa creatura, altrimenti morirà di fame. Quando avremo risolto questo, discuteremo quello che sarà meglio per lui» rispose Shaila, con tono assennato.

Chrisell tirò un sospiro di sollievo. Essendosi ritrovata completamente sola ad affrontare quell’emergenza, aveva passato ore ed ore colme di ansia e inquietudine. Ma adesso finalmente poteva rilassarsi, perché le sue sorelle l’avrebbero aiutata a risolvere quel grosso problema. Per fortuna il bosco era colmo di creature che avevano da poco partorito, e per le silfidi non fu difficile trovare una balia per il piccolo. Shaila scelse una cerva dagli occhi dolci e dal temperamento mite. Nel momento in cui la giovane madre stava allattando il suo cerbiatto le avvicinò il piccolo e, con il suo fare soave, la convinse a nutrire anche l’orfano.

Il neonato esitò solo un istante, poi, appena le minuscole froge si colmarono dell'invitante odore di latte, s'attaccò, suggendo voracemente.


 

  

Un incantesimo 

Chrisell non aveva smesso un istante di pensare a come sistemare in modo definitivo il puledro; si era accorta sin dai primi momenti di vita che era stato contagiato dal sangue materno. Evidentemente, la giumenta, presa com'era dall’impeto della precipitosa fuga, non si era resa conto di essere stata ferita da una delle arpie, che Chrisell sapeva fosse una specie velenosa. Con gli artigli, il malefico uccello le aveva inoculato il veleno infettando poi anche il sangue del suo puledro.

La silfide aveva chiesto aiuto alle sorelle omettendo quel particolare perché se lo avessero saputo il piccolo unicorno sarebbe stato condannato a morire.

“Come fare?” Quella domanda era diventata ossessiva per l'eterea ragazza. Si arrovellava nei suoi dubbi e nelle sue paure.  Doveva trovare una soluzione prima che le altre scoprissero la verità. Si sentiva in obbligo di farlo perché, oltre a essersi affezionata al cucciolo, aveva anche promesso a sua madre che avrebbe badato a lui.

Il pensiero della Dama del bosco, sovrana del regno del bene, sempre gentile e disponibile come insegnante di magia, nonché prodiga di buoni consigli, le balenò nella mente, e Chrisell si affrettò a raggiungerla nella sua dimora abituale, con il puledro al seguito.

«Qual buon vento ti porta da me?» le domandò in tono dolce la fata, signora e padrona di ogni angolo della foresta.

«Sono qui per chiedere un consiglio, mia signora.»

La Dama Silvestre scrutò con attenzione il puledro e scosse lievemente la testa.

«Suppongo che si tratti dell’unicorno e mi dispiace doverti dire che il suo destino è segnato.»

La silfide rabbrividì. Quella risposta le colmò l’animo d’apprensione e presagi funesti. Le visioni di morte e desolazione si moltiplicarono nella sua mente.

«Allora è proprio vero che è condannato a morire?» riuscì a balbettare.

La creatura magica annuì: «Lo vedi da te che è stato infettato e sai anche che il veleno inoculato dagli artigli maligni non lascia scampo alcuno. Questo piccolo è condannato a una terribile mutazione, e per evitare che possa spargere il male nel resto del mondo, occorre che muoia.»

Gli occhi di Chrisell si inondarono di lacrime. «Ma non è giusto! È così piccolo e indifeso, senza nessuna colpa. Tu hai il potere della magia bianca tra le mani, e se vuoi, puoi aiutarlo.» La fata del bosco guardò indulgente l'esile figura di donna che con passione e determinazione perorava la causa del piccolo cercando di salvarlo.

Silvestre le aveva fatto da maestra, l’aveva guidata e sostenuta durante tutto il lungo e difficoltoso tragitto dell’apprendimento. Chrisell era una delle allieve migliori della fata, e si faceva apprezzare per le sue doti di umiltà e schiettezza. La silfide era considerata da tutti una creatura briosa e nello stesso tempo dolce, remissiva, e per queste sue peculiarità, la Dama l’aveva presa a benvolere. Presa da un moto di tenerezza, le sorrise dolcemente dicendole: «Io non ho l'autorità necessaria per interferire con ciò che è stato scritto nel libro del destino. Tuttavia, posso cercare di fare in modo che lo stesso si compia, tentando di limitarne le conseguenze.»

 “Una risposta sibillina degna di una fata maggiore” pensò la silfide, che però rimase in silenzio, in rispettosa attesa.

Silvestre sorrise. Dal momento stesso in cui aveva visto arrivare l’eterea creatura con al seguito il puledro aveva iniziato ad arrovellarsi per cercare una soluzione adeguata, e forse adesso l’aveva trovata.

«Mia piccola Chrisell» iniziò a dire con tono materno, «So che non lasceresti mai il luogo magico in cui sei nata a cuor leggero; tuttavia, credo proprio che se desideri veramente salvare questo cucciolo, tu ti debba sacrificare.»

La silfide sgranò gli occhi, stupita e impaurita. Quale sacrificio le avrebbe chiesto la fata? «Mi hai chiesto di aiutarti e non trovo altra soluzione che proporti di accompagnare il piccolo nel mondo degli umani, dove credo possa iniziare una nuova vita senza correre altri pericoli.»

Silvestre lasciò che Chrisell assimilasse il concetto appena esposto, ma la silfide continuava a rimanere immobile, come basita da quell’idea.  Allora continuò: «Se sei disposta ad assumerti questo onere, dovrò compiere un incantesimo che nasconda a tutti le caratteristiche della sua razza, compreso il corno sulla sua fronte e la sua natura magica. E ovviamente, anche il piccolo dovrà ignorare il fatto di essere stato un unicorno. Quindi, dal momento stesso che pronuncerò la formula dell’incantesimo, perderà non solo la memoria di quello che è stato, ma anche qualsiasi istinto che possa rammentarglielo in qualche modo.  Sei disposta ad affrontare tutte le responsabilità che un simile viaggio prevede?»



Il colorito della silfide, già di per sé abbastanza pallido, divenne terreo, mentre la timida creatura dei boschi ritrovava appena il modo di rispondere: «Il mondo degli umani? Ma non mi sono mai mossa da qui, non ho mai… lasciato questo bosco e le mie sorelle! Il mondo degli umani è così alieno, così… lontano! Come farò ad arrivarci?»

 Il cuore di Silvestre palpitò dall’emozione. L’atteggiamento timido e schivo della silfide la inteneriva, e se avesse potuto, non l’avrebbe certo costretta a un tale sacrificio.

«Stai tranquilla! Aprirò per voi un varco dal quale vi sarà possibile il passaggio dal mondo arcano a quello del genere umano. Quando riterrai di aver trovato la persona giusta per occuparsi del piccolo, potrai fare ritorno nella nostra dimensione.»

Chrisell emise un sospiro di rassegnazione e la fata le sorrise. «Non devi temere, cara. Vedrai, non sarà difficile trovare una persona fidata. Inoltre, ti accompagnerò io stessa al varco, e mi troverai lì ad attenderti al tuo ritorno.»

Lo sguardo della giovane si posò con ansia dapprima sul puledro, quindi sulla fata, e tirato un altro grosso respiro di rassegnazione, annuì. «Va bene, andrò. E ti prometto che farò del mio meglio per portare a termine il compito che mi hai affidato.»

«Brava Chrisell! E io sono sicura che ci riuscirai!»

Fata Silvestre non perse tempo e si concentrò, posando le mani sul candido collo dell’unicorno, quindi mormorò la sua formula magica. L'incantesimo ebbe effetto immediato; il piccolo corno a torciglione cominciò a ritrarsi fino a sparire, la lunga criniera perse la sua lucidità e s'accorciò sfoltendosi, così come la superba e ricca coda, che si ridusse a un misero spolverino. Del mitico e bellissimo unicorno rimase solo il pelo candido, ma la fata affermò, decisa, che ben presto anche quel candore sarebbe scomparso, lasciando il posto a un manto nerissimo.

«Ora il tuo piccolo amico è diventato agli occhi di tutti un cavallino. Ed è un compito molto delicato quello che dovrai assolvere ora.  Conducilo sulla terra, e scegli con attenzione la persona che in futuro se ne dovrà occupare. Il destino di questo puledro dipenderà dalla tua scelta.»

«Cercherò di valutare bene prima di decidere» esclamò con fervore la giovane.

«Allora posso procedere. Sei pronta ad affrontare il viaggio?» Il cuore della silfide prese a battere in modo convulso. Il momento tanto temuto era arrivato.

Deglutì a vuoto, mentre rispondeva: «Sono pronta!»

Se anche rivelò una piccola esitazione, Silvestre non diede segno di essersene accorta. «Bene!» disse, socchiudendo gli occhi e mormorando alcune parole misteriose. Subito dopo, nel cielo limpidissimo fece la sua repentina comparsa un ponte iridato che si estendeva davanti a loro all’infinito, fino all’orizzonte. La donna più anziana prese per un braccio l’esile creatura. Chrisell posò con delicatezza una mano sul collo del piccolo unicorno, che se ne stava docilmente in attesa accanto a loro.  Quindi, mantenendo la promessa, la fata li accompagnò attraverso l’arcobaleno, sino al portale che si era spalancato e che permetteva il passaggio tra i due differenti mondi.

La giovane ebbe la sensazione di camminare sulle nuvole e sorrise, lieta delle sensazioni percepite. L’incredibile, magico sentiero aveva una consistenza morbida sotto i suoi piedini nudi, e lei, ormai ammaliata dalla spettacolarità dell’evento, riusciva a vedere il mondo sottostante attraverso la trasparenza e l’iridescenza dei colori acquarello.

Camminarono per qualche minuto, immersi nel silenzio maestoso della natura, rotto solo dal sibilo del vento. Il varco si stagliò davanti a loro all’improvviso, sempre più vicino e minaccioso, e Chrisell lo guardò con apprensione; quell’enorme antro oscuro le apparve simile alle   fauci spalancate di un gigante.

La fata si avvide dell’esitazione della silfide e le sorrise per esortarla a varcare la soglia. «Coraggio! Non è poi tanto terribile come sembra. È una questione di attimi, e fatti pochi passi ti ritroverai dall’altra parte. Vai, il portale non rimarrà aperto a lungo.»

«E se restassi prigioniera di là?» domandò, sgranando gli occhi, quasi fulminata dalla terrificante prospettiva.

«Stai tranquilla! Non accadrà se smetti di agitarti e di rimandare l’ingresso. Il portale si chiuderà dopo il tuo passaggio, ma basterà che tu mi mandi un messaggio mentale quando avrai svolto la missione e vorrai tornare.»

L’esile fanciulla emise un sospiro profondo, quindi si congedò ringraziando: «Io e il piccolo ti siamo profondamente grati.»

«È stato fortunato a incontrare te! Ti deve la vita due volte. E ora vai! Al tuo ritorno mi ritroverai qui, come promesso. Che la luce della saggezza illumini sempre i sentieri della tua vita, Chrisell!»

«E anche i tuoi! Arrivederci, Dama del bosco!»

giovedì 17 giugno 2021

Il monastero del Canto del Vento (ultima parte)

 




Mi guardai intorno facendo segno ai compagni di fare altrettanto, ma non ve n’era bisogno. Anche loro avevano percepito il cambiamento e il pericolo incombente.

Feci radunare i bambini e per precauzione formammo il solito cerchio difensivo.

I minuti passarono lenti nel totale silenzio e per un po’ non vedemmo nulla.

Poi, all’improvviso, ci attaccarono.

Gli uomini, gli stessi che ci avevano seguito fin sul ponte, avevano poi aggirato il burrone, ed essendo più veloci ci avevano preceduti, tendendoci l'agguato.

Erano in tanti, forse una quarantina, e anche molto agguerriti. A giudicare dall’aspetto sembravano freschi e non erano certo provati come lo eravamo noi. La loro discesa sull’altro versante era stata sicuramente meno travagliata della nostra e non avevano dovuto affrontare tutte le disavventure vissute dal nostro gruppo.

Ero seriamente preoccupato e in quel momento mi sembrò che il mondo mi crollasse addosso. Disperavo di farcela questa volta. Dieci contro quaranta! Per quanto addestrati e valorosi quanto avremmo potuto resistere alla superiorità numerica?

Con un’occhiata circolare avvolsi la famigliola in un abbraccio unico e pietoso. Per noi, per loro, le probabilità di sopravvivere erano ridotte al lumicino ma, nonostante tutto, noi monaci guerrieri, ci eravamo assunti un compito delicato e avremmo tentato di portarlo a termine a tutti i costi.

Scambiai un’occhiata eloquente con tutti i miei compagni e nel loro sguardo e nel loro atteggiamento lessi la mia stessa determinazione.

«Siamo con te!» mi disse Tien e quella frase stava a significare “Insieme, fino alla morte!”

Ci accingemmo dunque a una strenua difesa.

Avevo già affrontato alcuni di quegli uomini, e sapevo che erano addestrati bene alla lotta, ma non come lo eravamo noi.

Ci attaccarono tutti insieme, come un’orda di lupi e proprio come mi aspettavo facessero.

Finché ci fu abbastanza distanza facemmo uso delle catene da combattimento, che lanciavamo come bolas o abbattevamo come sferze sui corpi dei nemici e, considerata l’abilità e la mira, ne abbattemmo subito parecchi.  Ma erano in tanti e quella loro superiorità rischiava di schiacciarci in una manciata di minuti. Oltretutto, avevamo la preoccupazione dei bambini. Il cerchio difensivo intorno a loro non doveva assolutamente allargarsi troppo.

Quando non fu più possibile usale le catene da combattimento sfoderammo i bastoni e me la ritrovai accanto all’improvviso! Maylinn si era messa al mio fianco brandendo una delle nostre armi e fronteggiava il nemico con espressione impavida e di sfida.

Bella come una dea e determinata come una Walkiria!  

Ci scambiammo un’occhiata, ma io ero confuso. Cosa aveva intenzione di fare?

«Anche io sono con te, comandante!» scandì con un piglio indiscutibile.

«Maylinn…» mormorai, ma non ebbi il tempo di proseguire perché entrambi ci trovammo costretti a respingere l’attacco di due nemici. Ero preoccupato per lei e con la coda dell’occhio la osservai combattere, pronto a intervenire.

lunedì 14 giugno 2021

Il mito di Proserpina e di Plutone




Proserpina, Persefone per i greci, era figlia di Zeus e di Cerere, la dea delle messi.

Proserpina era un avvenente fanciulla amante della vita e della natura, che trascorreva il suo tempo libero gioiosamente insieme alle sorelle.

Un giorno, mentre raccoglieva fiori su un prato insieme alle sorelle, Plutone, il dio dell’Averno, la vide e rimase folgorato dalla sua bellezza.

Invaghitosi della fanciulla il Dio degli inferi la seguì a lungo, quindi si appostò, attendendo il momento giusto per avvicinarla e convincerla a seguirlo per farne la sua sposa.

Ma la fanciulla, sapendo bene di quale regno fosse il sovrano, respinse sin dal primo istante la corte di Plutone, rifiutando con vigore il triste destino che le si prospettava nel caso avesse accettato. Allora Plutone decise di rapirla e condurla a forza con sé nel suo oscuro regno.

Sulla terra, la dea delle messi, disperata per la scomparsa della figlia, abbandonò i suoi compiti causando alle coltivazioni un periodo di siccità e conseguente carestia per i popoli che la abitavano.

Zeus, per porre rimedio ed evitare la catastrofe totale, inviò Mercurio, il messaggero degli dei, negli inferi per tentare di ritrovare la fanciulla e riportarla dalla madre.

Mercurio si recò nel regno dei morti ma non riuscì ad assolvere all' incarico.

Proserpina, ignorando il fatto che per ritornare sulla terra avrebbe dovuto rimanere del tutto a digiuno, assaggiò un chicco di melagrana decretando così la sua stessa condanna.

Cerere non si rassegnò mai alla perdita della figlia e al suo crudele destino e continuò a disinteressarsi del benessere dei comuni mortali causando interrottamente siccità e carestie.

Per ovviare alla tragedia imminente, Zeus prese infine una decisione salomonica ordinando che Proserpina da allora in poi doveva trascorrere sei dell'anno con la madre e le sorelle nell'Olimpo e sei mesi negli inferi con Plutone, diventato nel frattempo lo sposo della sfortunata fanciulla. 

Il Signore dell'Olimpo dimostrò grande astuzia e saggezza anche nella scelta dei periodi, difatti, decretò che Proserpina rimanesse con Plutone durante l'autunno e l'inverno, quando le semine e le coltivazioni nei campi sono sospese mentre, allo sbocciare della primavera, la fanciulla sarebbe stata di nuovo libera di tornare a casa, di modo che Cerere, felice di aver ritrovato la figlia, sarebbe tornata a occuparsi della fertilità della terra e del conseguente benessere di tutti i suoi abitanti. 

Questo mito spiega forse l'alternanza e il susseguirsi delle stagioni. 

                                                 



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mercoledì 9 giugno 2021

Il Monastero del Canto del Vento (6aparte)

 

Questa volta il pericolo ci colse impreparati, perché la manovra di accerchiamento, fu portata a termine senza nemmeno un ringhio.

Ci guardammo l'un l'altro sbigottiti, i lupi ci avevano preso in trappola un'altra volta.

Lo riconobbi all'istante. Era lo stesso capobranco che avevamo affrontato prima che la valanga li facesse fuggire. Evidentemente avevano seguito le nostre tracce, ed erano stati attirati dall’odore della carne arrostita.

Rimanemmo immobilizzati in una posa statica. Nessuno tra noi osava fare alcuna mossa brusca e non tentammo di lanciarci sulle nostre armi, per non suscitare, inevitabilmente, la reazione istintiva dei temibili predatori.

Il tempo sembrò cristallizzarsi. Presagivo l'attacco con tutti i sensi all'erta. In quel momento ero in grado di contare tutti i respiri e i ringhi del capobranco.

Concentrai allora la mia attenzione sullo splendido animale, sapendo bene che tutto dipendeva da lui.

Per mettere in atto una tattica così perfetta occorreva una grande astuzia e allora scrutai negli occhi il grande lupo con audacia e attenzione. Avvertii all’istante una scossa. Avevo già provato quella strana sensazione poche ore prima ma, ancora una volta ne rimasi sorpreso.

Quella che avevo davanti era una creatura senziente, molto intelligente e astuta e l’idea un po’ folle di poter comunicare con lei, mi colse alla sprovvista lasciandomi sbigottito.

Era davvero possibile che un uomo potesse comunicare con un lupo? Si trattava di un pensiero bizzarro, ma l’urgenza mi pressava e non persi nemmeno un attimo di più a pormi domande banali.

Mi rilassai, cercando la calma interiore essenziale per quello che mi apprestavo a fare e cercando di escludere tutto ciò che mi circondava.  Il lupo percepì subito il cambiamento in me, forse per la postura assunta, forse per il mio sguardo, fatto sta che il suo portamento si adeguò al mio.  Le sue fauci si chiusero e smise di ringhiare.

Continuai a fissarlo negli occhi, senza mostrare ostilità o brama di sfida. Mi parve che fosse in grado di percepire la mia volontà di dialogare e allora gli palesai tutta l’umiltà recepita in quei lunghi anni di addestramento, pur tuttavia, senza voler apparire subalterno e senza mostrare timore.

Fu in quel momento che lo vidi trasalire e arretrare di un passo. Era sconcertato e confuso, probabilmente più di quanto lo fossi io. Non si aspettava un simile comportamento e, per parecchi secondi, si limitò a studiarmi.

I miei compagni iniziarono a dare segnali di impazienza. Non capivano ciò che stava accadendo e guardavano al branco con la smania di uccidere. Anche i lupi mostravano nervosismo, ma si limitavano a tenerci sotto controllo, in attesa del segnale di attacco da parte del capobranco.

«Hui, che succede?» mi domandò Tien, forse allarmato dalla mia apparente inerzia.   

«Tieni tranquilli gli uomini. Non muovetevi!» gli ordinai. Lui provò a obiettare, indicandomi la cerchia di lupi famelici, ma io insistetti: «Fidatevi di me, come avete sempre fatto!» gli dissi con tono pacato. Lui, seppure sconcertato, annuì e con un cenno deciso mise a tacere i dubbi e le perplessità dei compagni.  

Io e la belva continuammo a esaminarci. Aveva seguito con attenzione il dialogo intercorso tra me e il mio gregario e sembrava approvare la mia autorità. Poi lui fece un passo avanti e i nostri spiriti entrarono davvero in contatto.

Per me fu un'esperienza sconvolgente. La sua essenza era di natura selvaggia, molto diversa dalla mia avvezza alle regole, alla disciplina, allo studio e all’addestramento, eppure, pur essendo così diversi, trovai lati compatibili tra noi.  Entrambi eravamo abituati al comando ed entrambi avevamo a cuore la salute e la salvezza del nostro branco. 


Ricordo che persi la nozione del tempo.

Gli trasmisi le immagini dei suoi cuccioli affamati, inermi e indifesi, in balia delle intemperie e dei predatori. Gli trasmisi il suo istinto alla difesa della sua famiglia e lui parve capire, che le ragioni che lo portavano a inseguirci e a predarci, erano le stesse che guidavano me e i miei compagni a difenderci. Gli trasmisi la mia determinazione a uccidere, pur di difendere ciò che mi era stato affidato e che mi era caro.   

Non saprò mai come, ma ci intendemmo, simili a due creature della stessa specie e lo convinsi a desistere dall'attacco.  So soltanto che infine ordinai ai miei uomini di lanciare l’altra carcassa al branco quindi, il grande lupo, con un alto ululato si congedò da noi.

Lasciammo il loro territorio pagando il nostro tributo, ma mai in vita mia fui più felice di averlo fatto. Non li vedemmo più, anche se avrei giurato di sentire i loro ansimi seguirci per un bel po' di tempo. In quei giorni mi piacque credere che il grande lupo grigio ci avesse concesso una scorta.

Ricominciammo la nostra discesa a valle, rinfrancati nello spirito, sebbene non avessimo più scorte di cibo. In compenso eravamo vivi e avremmo sempre potuto cacciare in seguito.

Scendere fu molto più complicato del previsto, visto che in certi punti eravamo costretti ad aggirare gli ostacoli rocciosi, con grande dispendio di tempo e di energia.

Ma quando all'improvviso ci trovammo davanti a un crepaccio, senza alcuna possibilità di aggirarlo, la maggior parte di noi fu presa dallo sconforto.

Tien mi fu subito accanto e insieme ci affacciamo oltre il ciglio. «Che facciamo?» domandò «Non possiamo tornare indietro!»

«Non torneremo indietro!» risposi deciso e scrutando con attenzione l’ostacolo.  

La spaccatura non cadeva del tutto in verticale e vidi che a un'altezza di una decina metri al di sotto di noi, si trovava un passaggio abbastanza largo, che si perdeva poi nella macchia boschiva. Decisi d’istinto: «Lo supereremo formando una sorta di catena umana, abbastanza agevole per permettere la discesa ai bambini e all’imperatrice.»

Lui mi guardò con aria interrogativa. Non capiva.

«Mi appenderò con i piedi al ciglio e mi lascerò penzolare e con le braccia sosterrò un compagno che penzolerà a sua volta sostenendo un altro e così di seguito, fino ad arrivare a toccare il fondo.»

«È una manovra molto ardita, Hui. Il peso degli uomini graverà tutto sulle tue braccia e le tue gambe. Sei sicuro di potercela fare?»

“Bella domanda!” pensai «Hai qualche altra idea?» domandai, indicando il cielo colmo ancora una volta di nubi tempestose.

Lui seguì il mio sguardo e scosse il capo.

In quel momento l’imperatrice mi venne accanto e quella fu una delle poche volte che avvertii la carezza sulla pelle della sua voce e del suo sguardo. Maylinn mi guardava negli occhi e sul suo viso lessi tutta la preoccupazione che provava: «Hai già corso molti rischi per noi, comandante e io te ne sono grata. Ma ora ti vedo esausto e provato, come tutti, del resto. Sei sicuro che non esiste altro modo per superare questa voragine?»

Cara, dolce Maylinn! Se avessi potuto l’avrei stretta tra le braccia e baciata. La sua inquietudine era sincera. Quella giovane donna, colei che in quel momento non vedevo più come sovrana e che con il suo modo soave e discreto aveva conquistato il mio cuore, era sinceramente preoccupata per me.

Le sorrisi e trattenni a stento il desiderio folle di afferrarle le mani delicate e porvi un bacio, ma la fissai intensamente dichiarandole con lo sguardo la mia devozione.

 Lei percepì la mia profonda emozione e annuì senza distogliere il suo ma condividendo la stessa emozione.

Furono istanti magici, che sarebbero potuti durare in eterno se Tien non avesse manifestato la sua presenza strappandoci dall’incanto.

Volsi il capo, confuso, e le indicai il vuoto spiegandole ciò che intendevo fare: «Il crepaccio non è del tutto verticale, come puoi vedere, mia signora. Quel minimo di pendenza che ha ci permetterà un po’ di appoggio e il peso complessivo sarà per me e per gli altri meno greve da sostenere.»

Quando riportò la sua attenzione su di me si era ripresa, tornando a essere l’imperatrice: «Fai quel devi, comandante! Noi ci fidiamo di te!» terminò, tornando dai suoi bambini.

Tornai a guardare il mio compagno e lo vidi scrollare la testa. Il suo sguardo era severo. Compresi che aveva percepito la mia emozione e disapprovava il mio comportamento. Rimandai ogni chiarimento e mi apprestai a spiegare agli altri la mia idea.

«Io sarò il secondo!» disse, offrendosi.

Lo aveva affermato con così tanta convinzione da farmi intendere che non avrebbe accettato contestazioni e anche se avessi preferito che fosse lui ad aiutare i bambini a scendere, accettai di buon grado.

Calcolai che con cinque uomini ce l’avremmo fatta a formare una catena abbastanza lunga. Diedi l'esempio agli altri, ponendomi come primo gradino a testa in giù, facendo presa con i piedi al ciglio. Il mio corpo in quel modo pendeva pericolosamente nel vuoto.

Cercai di non farmi prendere dalle vertigini. Dovevo resistere, cercando di spronare, con il mio esempio, i miei compagni a fare la stessa cosa. Continuare a lottare senza arrendersi mai al destino che pareva avverso, per cercare di salvare la famiglia reale. Lo aveva giurato nel momento in cui, diventato monaco guerriero, ero stato affidato alla loro salvaguardia.

Se avessimo avuto più tempo mi sarei fatto legare alle caviglie per non forzare troppo sui bicipiti e sulle spalle ma, il tempo, era proprio quello che ci mancava. I bambini stavano soffrendo il freddo da parecchi giorni e dovevamo sbrigarci a scendere di quota se non volevamo che morissero assiderati.

Penzolai, cercando la posizione più giusta e quando mi sentii sicuro feci cenno a Tien di procedere.

Si trattava di una manovra assai delicata. Se qualcuno di noi avesse ceduto la tragedia era inevitabile.

La stazza di Tien equivaleva la mia. Entrambi eravamo alti e ben piazzati fisicamente e i lunghi anni di addestramento avevano temprato i nostri corpi. Nel momento stesso che posò entrambi i piedi sulle mie spalle dovetti stringere i denti fino a quando, scivolando lungo il mio corpo, si appese alle caviglie.

Quando fu pronto diede il segnale lui stesso a un compagno che ripeté la stessa manovra.

Quando tutti e cinque fummo posizionati, uno dei miei guerrieri rimasti in alto scese per primo fino a metà della scala umana, mentre un alto assicurava i bambini a una corda di cui teneva saldamente un capo. Avrebbe accompagnato la discesa dei bambini con un minimo di sicurezza in più.

Pregavo in silenzio che tutto andasse per il meglio. Il fratellino maggiore fu il primo a scendere e a dare l’esempio agli altri.

Le sue manine si aggrapparono al mio collo e poi alle spalle e alle braccia assistito dal basso da un guerriero, pronto a intervenire in caso di bisogno. Uno per volta scesero tutti mostrando grande coraggio, anche se, in realtà, sentivo i loro corpicini tremare dalla paura.

L’imperatrice si legò il più piccolo sulle spalle e scese per ultima.

Avverti il suo peso   sulle spalle, e quel tocco mi parve lieve come quello di una farfalla. Maylinn era esile come un fuscello ed agile come un felino. In pochi secondi aveva già toccato il fondo del crepaccio.

Sospirai di sollievo e quando tutti furono in salvo, non fu difficile per noi compiere un balzo acrobatico e atterrare nel terreno sottostante.

Quello fu davvero l’ultimo ostacolo che la montagna ci pose innanzi. Da lì in avanti, la nostra discesa fu abbastanza agevole. Ne avevamo passate di tutti i colori e non ci parve nemmeno vero di essere fuori pericolo.

Ebbi modo di riflettere sugli avvenimenti di quei giorni, e su quelli che mi avrebbe riservato il futuro.

Il mio sguardo si pose allora sulla schiena dell’imperatrice che mi precedeva di qualche passo. Ero perfettamente consapevole che per noi non vi fosse speranza, per quel motivo cercavo di godere appieno di ogni attimo che il destino ci faceva vivere insieme.

La discesa per un paio d'ore fu abbastanza tranquilla.

I bambini, passati quei terribili attimi di tensione, avevano ripreso la loro abituale vivacità. Mi rasserenava il suono argentino delle loro voci infantili, e delle loro risatine. Noi adulti li osservavamo con indulgenza e con tenerezza ignorando anche qualche piccola marachella. Si spingevano stuzzicandosi gioiosamente, e sembrava avessero dimenticato tutte le brutte avventure vissute nei giorni precedenti.

Mi deliziavo beatamente per il solo piacere di ascoltarli, quando uno di loro si fermò all'improvviso. Anche se in quel momento pensai a un altro spensierato scherzetto, i miei sensi tornarono all’erta.

continua...




Racconto pubblicato  nel 2012 da Garcia edizioni

Immagini Pinterest e Phoneky