Zephar, il Malefico
Il Signore delle Terre
del Male era il sovrano autoproclamato di quella parte desolata del regno di
Faerie. Era un uomo malvagio che, approfittando della sua forza e delle sue
conoscenze esoteriche, aveva intrapreso una guerra spietata per spodestare i
legittimi regnanti e tutti i possibili aspiranti al trono. Finché dopo infinite e cruente battaglie, era
riuscito a prevalere e a impossessarsi dello scettro del potere.
Il suo vero nome era
Zephar, ed era considerato un demone e forse anche per questa popolana credenza
nessuno era mai riuscito a contrastarne l’ascesa o, in seguito, a ribellarsi.
La sua figura imponente spiccava persino tra le creature gigantesche che erano
i suoi sgherri, somiglianti a dei Golem, poiché il malvagio sembrava avesse la
prerogativa di far crescere la materia a dismisura e a plasmarla come più gli
garbava.
O perlomeno, era
questa l’illusione che ne avevano i suoi sudditi.
Oltre l’aspetto
fisico, come ulteriore caratteristica che lo contraddistingueva vi era il
grande mantello nero che non rinunciava mai a indossare, le cui lunghe falde
fluttuavano come ali di pipistrello sulla sua schiena. Amava ammantare la sua
persona di mistero, e con il passare del tempo le leggende su di lui si erano
moltiplicate. In una si narrava che subisse continue trasformazioni, e che in
una di queste assumesse un viso dai tratti animaleschi. Nessuno in realtà aveva
mai assistito a queste mutazioni, e se qualcuno ne era stato testimone, quello a
cui aveva assistito era solo pura illusione. Il sovrano era un mago molto esperto
e specializzato in sortilegi di magia nera.
Zephar il Malefico
era il titolo con cui si era autonominato e con il quale preferiva presentarsi,
mentre con l’appellativo “Demone” era quello con cui il popolo lo
identificava. Quel soprannome aveva il
potere di seminare scompiglio e terrore ogni volta che veniva sussurrato.
Mentre nella
dimensione terrena l’amicizia tra Mark e Gylldor cresceva e si rafforzava, nel
regno del male in fibrillazione, i messaggeri alati avevano portato da tempo
l’annuncio della nascita del giovane unicorno e della morte della giumenta. Da
una prima notizia, il sovrano aveva saputo che il puledro era l’orfano di una
principessa della sua specie, e che era bellissimo, oltre che sano e robusto.
Si presupponeva, dunque, che nessun’altra creatura quadrupede fosse in grado di
competere con lui nella corsa. Per questo motivo Zephar lo bramava per sé con
tutte le fibre del suo essere, per farne la sua cavalcatura preferita. Quindi,
appena ricevuta la notizia, inviò un manipolo dei suoi guerrieri migliori in
una missione esplorativa, alla ricerca di eventuali tracce del piccolo.
Quel giorno, nella
sala del trono dove riceveva, si respirava un’aria densa di negatività. Zephar
se ne stava comodamente sprofondato sul suo seggio, un ornamento monumentale al
quale si poteva accedere mediante una scalinata in marmo.
Coloro che vi si
trovavano davanti non potevano che rimanere soggiogati e intimoriti alla vista
degli esseri infidi che il sovrano aveva scelto come compagne fidatissime per
adornare la sua maestosa seduta. Gli occhi fiammeggianti delle serpi, insieme
ai sibili raschianti e le lingue biforcute servivano da deterrente per
eventuali mosse contro il tiranno. Il trono era anche adorno di due teschi
dalle orbite di fuoco, uno per bracciolo, le cui mascelle ghignanti si aprivano
satanicamente ogni volta che veniva emessa una condanna a morte.
In quel momento
Zephar scese dal trono e, attraversata la grande sala con falcate nervose,
sostò per qualche minuto, assorto presso una delle grandi finestre del
castello. Osservò pensosamente il recinto dove stavano raggruppate le creature
che una volta erano state unicorni tramutati in Pegasi Oscuri, perché
avvelenati dagli artigli delle sue arpie. Il sovrano, fino ad allora
silenzioso, si volse bruscamente dirigendosi verso il centro, posizionandosi
sul più alto dei gradini della scala di marmo.
L’attenzione dei
cortigiani si soffermò sull’aspetto fisico del loro sovrano. I tratti del viso
erano perfetti, quasi fossero cesellati, dipinti. La carnagione appariva di un
bel colorito abbronzato, il naso era diritto e la bocca carnosa. I capelli
scuri e assai folti, arricciati lievemente sul collo e sulla fronte spaziosa.
Il sovrano, che
allenava costantemente il suo fisico, aveva un aspetto magnifico, e le
appartenenti al genere femminile presenti nella sala fremettero nel constatarne
la mascolinità. Zephar, tutto preso da ben altri pensieri, ignorò gli sguardi
di ammirazione. Lanciò un’occhiata penetrante agli sgherri che attendevano i
suoi ordini, quindi con piglio deciso disse: «Coloro che hanno fallito nel primo
tentativo di riportare qui la madre e il suo piccolo sono stati puniti
adeguatamente. Che nessuno di voi lo dimentichi mai, nemmeno per un istante!»
esclamò, passando in rassegna la schiera di uomini in armi che si
sottoponevano, abbassando il capo davanti al loro sovrano.
Zephar li squadrò a
uno a uno negli occhi, e quando questi abbassavano i loro, ne controllava
minuziosamente le armature. Il cuoio, da cui erano state ricavate le articolate
corazze, era tanto oliato da luccicare con la luce delle numerose lampade che
rischiaravano la sala. Zephar strinse un paio di cinghie ritenute troppo lasche
e controllò il filo di alcune lame delle alabarde impugnate dai guerrieri. «Ho
voluto scegliervi personalmente perché conosco pregi e difetti di ognuno di voi,
ma soprattutto conosco il vostro valore. Sono quasi certo che non mi
deluderete» concluse soddisfatto, tornando a sedersi sul trono.
«Andate e conducete a
me l’unicorno di sangue reale!»
«Sì, mio signore!» fu
la risposta all’unisono dei miliziani, con la mano chiusa a pugno sul cuore.
Una sorpresa
Nel frattempo, nella
dimensione terrestre, i giorni passarono velocemente diventando mesi, e poiché
Mark non se l’era sentita di prendere una decisione, si era ormai affezionato
al nuovo amico che cresceva a vista d'occhio e aveva abbandonato del tutto
l’idea di allontanarlo. Ma vi erano dei particolari ai quali il ragazzo non
riusciva a dare spiegazioni: la protuberanza che avvertiva al tatto sulla
fronte del puledro si era allungata di parecchio, e quelle che aveva scambiato
per cicatrici si stavano ingrossando, crescendo come fossero membrane pendule.
E come se non bastasse, il colore del suo manto, dal grigio topo iniziale, si
andava scurendo giorno dopo giorno promettendo di diventare nero come
l'inchiostro.
Mark non riusciva a
risolvere quello che per lui era diventato un vero mistero. Ciò nonostante,
aveva rinunciato a scervellarsi e si stava abituando a pensare che Gylldor
fosse un cavallo deforme. Se non fosse stato che, quando strigliava il suo
pelo, avrebbe giurato che sotto la sua mano scorresse una muscolatura che
prometteva di diventare possente e nel contempo elegante.
Col passare del
tempo, tra i due era fiorita un'intesa che aveva dello straordinario. Il
ragazzo riusciva a prevenire ogni minimo bisogno del cavallino, mentre Gylldor
lo ricambiava con una dedizione a dir poco commovente.
Qualche giorno dopo
il suo arrivo alla tenuta ci fu un episodio molto rilevante, che segnò la vita
dei due giovani in modo significativo. Quel giorno Mark vide il puledro fissare
con sguardo intenso il grande prato verde che circondava la stalla. Non fu
difficile per il ragazzo indovinare il desiderio del cavallino di galoppare su
quel prato. “Desiderio più che legittimo” pensò.
«Dai Gylldor!
Andiamo! Penso che a quest'ora non corriamo il rischio che ci vedano.»
Il puledro sgranò gli
occhi, incredulo: Dici davvero, Mark?
«Certo che dico sul
serio, ma solo per pochi minuti però, lo sai.»
Lo so! rispose Gylldor
felice, e lo dimostrò con tutto l’entusiasmo della sua giovinezza.
Mark rimase a
guardarlo con un sorriso benevolo e comprensivo stampato sul viso e, quando il
suo giovane amico cominciò a sgroppare come un cavallo pazzo e a trotterellare
beato, non poté trattenere uno scoppio d'ilarità. Il cavallino si era scatenato
in una sequenza di gioiose giravolte mentre scalciava allegramente, per
lanciarsi poi in improvvise galoppate, con altrettante brusche frenate. Durante
una di queste folli carambole, Gylldor si fermò all’improvviso davanti al suo
giovane amico. Salta in groppa, Mark! Ti porto a fare un giro.
Il giovane rimase
solo qualche istante interdetto, poi l’entusiasmo del cavallino lo contagiò:
«Sì! Vai, corri col vento, Gylldor!» rispose con entusiasmo montando a pelo e
aggrappandosi alla criniera.
Sì ma tu tieniti forte! Non vorrei perderti!
Il cavallo si impennò
su due zampe, quindi, con un sonoro nitrito, partì al galoppo.
Dopo pochi metri,
accadde una cosa straordinaria; per una manciata di secondi incredibili gli
zoccoli di Gylldor persero il contatto con il terreno. Il cuore di Mark
carambolò nel petto mentre sentì un vuoto improvviso allo stomaco, e un leggero
ma fastidioso senso di nausea, quindi, dopo quella che gli parve un’eternità,
sentì distintamente gli zoccoli tornare a picchiare contro il terreno.
Ci vollero ancora
alcuni istanti prima che il cavallo finalmente si fermasse. Il ragazzo sbatté
gli occhi incredulo mentre Gylldor volgeva il lungo collo guardandolo con
un'espressione altrettanto sbigottita dipinta sul muso. Si erano resi conto
entrambi che era appena accaduta loro una cosa straordinaria: anche se per
pochissimo, i due amici si erano librati al di sopra del terreno, volando.
Fu solo un piccolo
anticipo di ciò che sarebbe stato, una volta che Gylldor avesse raggiunto la
maturità fisica.
Il tempo passò in
fretta; i due giovani scorrazzavano felicemente per il prato appena sorgeva
l'alba, o andavano a fare lunghe galoppate quando il ragazzo aveva il suo
giorno libero. Gli episodi straordinari diventarono sempre più frequenti e
durarono sempre più a lungo. Gli zoccoli del puledro si staccavano da terra, e
Gylldor, con in groppa Mark, rimaneva sospeso magicamente per aria. Allora il
ragazzo rideva gioiosamente, mentre il cavallino faceva risuonare alti i suoi
nitriti.
Ma con il trascorrere
del tempo, il giovane scoprì anche che, ogni qualvolta la luna piena saliva in
cielo, nel suo amico avveniva un cambiamento straordinario: il pelame grigio
scuro diventava nero come il carbone, il corno a spirale diventava visibile, e
anche le membrane che il ragazzo aveva scoperto sui suoi fianchi. Non solo: la
luna influiva anche sul carattere del puledro, che in quei pochi giorni di
plenilunio diventava nervoso e irascibile.
Fu durante una di
queste trasformazioni che Mark assistette a un fenomeno da lasciarlo senza
fiato: per la prima volta il puledro sollevò in tutta la loro grandezza le
membrane che gli pendevano dai fianchi spalancandole e scuotendole, nello
stesso modo in cui gli uccelli aprono le ali prima di spiccare il volo.
«Sono veramente ali!
E quello sembrerebbe… quello è un corno! Ma allora sei un unicorno… No! Sei un cavallo
alato… un pegaso! Cosa sei, Gylldor?»
E già la seconda volta che me lo chiedi, Mark. Non
ti so rispondere!
Mark sembrò all’improvviso imbarazzato e molto, molto confuso: «Credevo
che creature simili a te esistessero solo nella fantasia e nelle fiabe. Credevo
che…credevo che voi foste una leggenda!»
Gylldor sgranò lo sguardo incredulo. Cosa vuoi dire Mark? Non hai mai visto un altro
animale simile a me?
«No! È la prima volta che vedo un unicorno in carne e ossa o un pegaso…
Li ho sempre visti raffigurati nei libri Fantasy. Non capisco più nulla,
Gylldor!» terminò Mark evidentemente confuso. «Cosa sei veramente e soprattutto
da dove vieni?»
Non lo so. Perché mi fai tutte queste domande
strane? Mi…mi incuti inquietudine! Lo so, lo so che non è colpa tua…è anche io
vorrei sapere, conoscere la verità.
Commosso dall’atteggiamento mortificato dell’amico Mark corse ad
accarezzarlo sul lungo collo.
So solo che un giorno mi sono ritrovato qui in
questa stalla e la prima persona che ho incontrato sei tu. Non ricordo niente
altro.
Il ragazzo percepì il profondo turbamento del puledro e preferì non
insistere sull’argomento. «Eri troppo piccolo per ricordare, ma un giorno forse
ti ritornerà la memoria.»
Gylldor scosse la testa. Ho degli strani presentimenti, Mark. E tra poco sarà di nuovo il
plenilunio.
«Stai tranquillo. Non accadrà nulla di grave. Al limite ti agiterai un
po’.»
Le froge del puledro fremettero e gli zoccoli batterono sull’impiantito. Quando accade tutto provo strane
sensazioni e mi prende una smania irresistibile. Sento il richiamo del vento,
sento il richiamo del cielo. Ho una voglia irrefrenabile di… volare!
«E allora vola! Lo
hai già fatto, anche se per poco!»
No! Non credo di essere in grado di farlo, mio giovane
amico! Il mio timore è quello di precipitare.
«Gylldor, devi solo acquisire più fiducia in
te stesso e lasciarti guidare dall’istinto. Sono convinto che ci riuscirai!»
Non lo so! rispose malinconico,
il puledro. A volte temo proprio di
essere una creatura aliena, maligna, e che durante la mutazione possa arrecare
infinito dolore a quelli che mi stanno vicini.
Il riferimento a lui
stesso era troppo chiaro per poter essere frainteso, e il tono con cui era
stato espresso il timore provocò una stretta al cuore di Mark, che tentò di
rassicurare l’amico. «Io ti conosco molto bene. Tu non sei una creatura
maligna. Il tuo cuore è troppo puro e la tua mente troppo limpida per poter
ideare pensieri e progetti malefici. Stai tranquillo! E poi, qualunque cosa
accada io ti aiuterò a superare qualsiasi difficoltà.»
Grazie Mark. Tu sai che farei la stessa cosa per te!
Concluse con
un gran sospiro il puledro.
In seguito, i due
amici non tornarono più sull’argomento e concentrarono i loro sforzi nelle
lunghe corse sfrenate, con la speranza di riuscire a realizzare il sogno di
entrambi di librarsi in volo.
Purtroppo e
nonostante i ripetuti tentativi, il puledro riuscì a sollevarsi da terra solo
per pochi metri, e sia lui che il suo cavaliere ne furono molto delusi.
Malgrado gli innumerevoli fallimenti, Mark continuava a guardare al suo amico
con ammirazione. Il pensiero che fosse un cavallo deforme era stato accantonato
da un pezzo, e ogni qualvolta Gylldor subiva la trasformazione, il suo aspetto diventava
superbo. Tuttavia, Mark doveva stare anche molto attento. Nei giorni di
plenilunio Gylldor non cambiava solo l’aspetto esteriore, ma diventava
scontroso e irascibile, e il ragazzo aveva imparato a non indispettirlo in
alcun modo, anzi, cercava di assecondarlo.
Vi era un che di
prodigioso in ciò che avveniva durante quelle notti, e Mark non poteva fare
altro che assistere ammirato a quei cambiamenti. Nella sua lunga esperienza da
stalliere non aveva mai visto una creatura altrettanto bella e misteriosa, e
ogni tanto si domandava quale arcano si celasse nella sua nascita e nella sua
esistenza. Quale motivo poteva avere la presenza di un unicorno sul pianeta
terra? E perché Gylldor subiva quelle trasformazioni diventando un pegaso? Ma erano domande e dubbi che restavano sempre
senza risposta. E quando la luna riappariva calante, il suo amico tornava a
essere buono, anche se esuberante, e il suo aspetto tornava insignificante.
Tuttavia c’era anche
qualcos’altro che tormentava il giovane stalliere, ed era il vago ricordo di
una danzatrice ieratica, quasi diafana, dai lunghi capelli neri e gli occhi
smeraldo, che gli appariva nel sonno molto spesso. Chi era quella fanciulla che
piroettava con estrema grazia nei suoi sogni?
E cosa aveva a che fare con Gylldor, considerato che la sognava spesso
mentre lei lo cavalcava?
Mark si perdeva
incantato in quella visione ricorrente, che lo lasciava sempre con il
batticuore. Avrebbe tanto desiderato confidarsi con il suo amico, parlare con
lui della fanciulla che tanto lo turbava, ma c’era sempre qualcosa che glielo
impediva, e così il tempo passava e il ragazzo conservava il suo segreto nel
cuore.
Mark non sospettava
che Gylldor aveva percepito il suo turbamento, anche se ne ignorava la causa e
aspettava con discrezione che il giovane stalliere si confidasse. Ma il destino
attendeva in agguato i due compagni, perché un esploratore del regno di Zephar,
mentre effettuava un giro di perlustrazione, varcò i confini della dimensione
terrena e, forse per una banale fatalità, s'accorse dell'esistenza dell’unicorno
durante una delle sue trasformazioni e s’affrettò a tornare dal suo sovrano.
«Mio signore!»
esclamò la guardia prostrandosi davanti al trono, «Porto notizie sensazionali!»
«Parla!» ordinò con
modi bruschi e sprezzanti Zephar, presagendo la realizzazione del suo sogno «E
fa che siano davvero notizie interessanti!»
«Solo per un caso
fortuito le mie ricerche sono sconfinate nella dimensione terrestre, e la
fortuna ha voluto che io assistessi a un evento prodigioso.»
Lo sgherro, sperando
in una pausa di grande effetto, tacque, e difatti i cortigiani rimasero tutti
con il fiato sospeso a guardarlo in attesa che rivelasse la grande novità.
Ma Zephar non gradì affatto
quel modo teatrale: «Parla senza tanti giri di parole se non vuoi che la tua
lingua finisca in pasto alle mie arpie.» Il tono era stato mantenuto
volutamente pacato, ma il riferimento agli orripilanti volatili che il re
teneva relegati in una enorme gabbia, poco distante dal trono, provocò un
brivido lungo la schiena dei cortigiani presenti nella sala.
«Il piccolo di
unicorno è ospite di un allevamento sulla Terra, mio signore!» tagliò corto
l’inviato, senza avere il coraggio di rialzare lo sguardo.
«Non è possibile! Come
ci sarebbe arrivato nell’altra dimensione?» domandò stupito.
«È la verità, te lo
giuro, mio signore! Ma non so come possa aver fatto a superare la barriera!»
aggiunse lo sgherro ormai terrorizzato dalla collera del sovrano.
Gli occhi di Zephar
divennero due braci ardente mentre un sospetto prendeva campo tra i suoi
pensieri: «E tu come sei riuscito a superarla? È praticamente impossibile che
la soglia arcana che divide i due mondi si spalanchi davanti a una creatura
insulsa come te senza l’aiuto di una potente magia!»
Ora la figura
imponente del tiranno sovrastava quella dello sgherro piegato in due sul
pavimento della sala ed era evidente il tremito del povero malcapitato.
«Rispondi schiavo e
guardami negli occhi!» ordinò Zephar afferrandolo per la ispida capigliatura e
costringendolo ad alzare la testa.
«Non so come sia successo…» balbettò «È solo
per puro caso che ho trovato uno spiraglio nel varco e inavvertitamente ho
superato il confine» terminò, paventando la furia del sovrano.
Il terrore della
colossale creatura era evidente e Zephar, percependone la sincerità, strattonò
con disprezzo il suo testone e assai turbato da quanto appreso, si mise a
camminare avanti e indietro nella grande sala, mentre i cortigiani si
affrettavano a lasciargli spazio.
Il Signore del male, assalito
dai dubbi, non riuscì a gioire nemmeno un istante per il ritrovamento. Non si
sarebbe mai aspettato di ritrovare il piccolo nella dimensione terrena. Eppure,
a ben pensarci, era logico che fosse così! Non poteva essere altrimenti! Lo
avevano cercato dappertutto. Non vi era luogo o recesso nel regno che non fosse
stato perlustrato e scandagliato a dovere. Dove altro avrebbe potuto
nascondersi un cucciolo di unicorno se non sulla Terra? Ma qualcuno doveva pur
averlo aiutato a superare la barriera!
Chi nel regno magico
possedeva tanto potere da spalancare il varco?
Chi era che lo aveva
protetto sottraendolo dalla sua brama di possesso e soprattutto chi era che se
ne prendeva cura nell’altra dimensione?
Tutte quelle domande
senza risposta erano frustranti e aumentavano a dismisura la sua collera, che
rischiava divampare come un incendio devastante.
In quel momento Zephar
avrebbe compiuto una strage pur di conoscere chi lo contrastava e soddisfare la
sua sete di rivalsa. Chi era colui o
coloro che osavano sfidarlo?
Il sovrano sostò per
qualche minuto immerso nei suoi pensieri e ignaro di essere lui stesso preda delle
sue emozioni. I cortigiani lo osservarono in silenzio, consapevoli che la
rabbia del loro signore sarebbe esplosa da un momento all’altro.
Poi Zephar tornò a
grandi passi verso il trono e con voce perentoria ordinò:
«Voglio quell’unicorno
e voglio la testa di coloro che lo hanno aiutato a oltrepassare i confini. Tu»
ordinò, indicando la creatura ancora prostrata davanti a lui «ti affiancherò
alcuni dei guerrieri più forti e fidati e insieme farete ritorno nell’altra
dimensione. Ma avverto tutti quanti voi» aggiunse con estrema, glaciale flemma,
abbracciando con lo sguardo la sala «Questa volta non tollererò fallimenti!»
«Ma, mio signore… il
varco si è rinchiuso. Come farò a oltrepassare la soglia arcana?»
«Sarò io stesso a
consentirti di farlo.»
Nella sala i
cortigiani rumoreggiarono. Nessuno aveva mai sospettato che il tiranno avesse il
potere di aprire il varco.
Zephar si mosse un po’
a disagio. Non gli piaceva che i suoi sudditi venissero a conoscenza dei suoi
segreti. Aveva tenuto nascosto a tutti che, prima di riuscirci, aveva compiuto
vari esperimenti per aprire uno spiraglio tra i due mondi ed era evidente che
lo sgherro era riuscito a passare durante uno dei suoi molteplici tentativi.
Prima che qualche
consigliere si decidesse a porre domande fastidiose il sovrano sbottò: «Tu e la
tua squadra avrete pochi secondi per passare. Vi consiglio di affrettarvi se
non volete rimanere prigionieri nel limbo oscuro che divide le due dimensioni.»
Poi, con un gesto perentorio
congedò i presenti.
Soggiogati dal
carisma del sovrano, i cortigiani indietreggiarono con il capo chino e senza
mai voltarsi e gli sgherri li seguirono a ruota.
Zephar, sebbene
avesse già qualche sospetto, rimase a torturarsi sull’identità misteriosa di
coloro che avevano aiutato l’unicorno. “Mi auguro che lo trovino al più
presto!” pensò, poi tornò a rimuginare sui suoi grandiosi intenti, tenuti
celati a tutti.
Il sovrano non si
fidava nemmeno dei suoi maghi e dei suoi consiglieri e fino a quel momento era
riuscito a nascondere a ognuno di loro la sua mira di conquista della Terra. Un’ambizione
così grande da occupare gran parte delle sue energie e del suo tempo. Prima o
poi avrebbe dovuto rendere partecipi del suo progetto i suoi fedelissimi ma,
finché non avesse trovato il modo di tenere spalancata a lungo la soglia arcana,
in modo da permettere il passaggio dei suoi eserciti, nessuno doveva sospettare
le sue intenzioni.
“Dai il tempo al
tempo e vedrai che riuscirai. Diverrai il padrone assoluto di questo pianeta e
non esisterà più alcun limite, costrizione o confine. Le dimensioni non
esisteranno più e tutte le creature che vivono su questo pianeta, volenti o
nolenti, ubbidiranno a uno solo, potente, immenso sovrano. Il Signore del male!”
terminò tra sé e la sala del trono risuonò della sua risata satanica.
Nella dimensione
terrena, nel frattempo, per gli sgherri non fu affatto facile ritrovare le
tracce del fuggitivo. Il motivo stava nell’incantesimo di occultamento lanciato
dalla Dama Silvestre, che ne impediva il riconoscimento agli esseri umani e a
quelli malvagi, se non durante il fatidico plenilunio. Gli inviati vagarono per
giorni e giorni su un terreno sconosciuto e ritenuto alieno, nemico, senza
peraltro mai trovare un pur minimo indizio sulla presenza del puledro.
E fu con enorme
stizza che i sicari dovettero rassegnarsi e furono costretti a fare ritorno nel
regno del male.
Conoscendo la
malvagità e l’efferatezza delle punizioni che Zephar infliggeva a quanti lo
deludevano, gli esploratori si presentarono malvolentieri nella sala del trono.
Il sovrano li
attendeva, glaciale e implacabile come solo lui poteva apparire, e le sue serpi,
che ne avvertivano la contrarietà, si dimenavano sibilando al suo fianco.
Il trono offriva una
visione inquietante. Le occhiate gelide dei rettili ardevano come strali
infuocati sulla pelle dei colpevoli.
«Mio Signore, il
piccolo unicorno non è stato trovato» ebbe l’animo di sussurrare il portavoce,
prostratosi davanti al trono. I lineamenti perfetti del sovrano rimasero indecifrabili.
Solo i muscoli della mascella ebbero una contrazione, mentre l’espressione
rimaneva glaciale. Ma gli occhi, quei
suoi occhi neri come le profondità degli abissi, fiammeggiarono biecamente,
mentre scrutavano in modo selvaggio l’essere tremebondo che aveva davanti. Il
silenzio totale scese ad appesantire la già greve atmosfera che regnava nella
sala, e infine risuonò imperiosa la voce del sovrano: «Non posso credere che i
più validi tra i miei guerrieri si siano fatti giocare da un puledro!»
«Forse» azzardò il
malcapitato, senza però osare alzare lo sguardo «forse, sospettando il nostro
arrivo quel puledro è stato portato in un nuovo e introvabile nascondiglio, mio
signore. E forse, addirittura in un’altra dimensione.»
«O forse sono
circondato da emeriti incapaci!» fu la gelida risposta.
Lo sgherro,
presagendo il terrificante momento della sua condanna, non osò nemmeno più
respirare e tacque, ormai rassegnato ad affrontare il suo destino.
Lo sguardo di tutti
gli altri cortigiani rimaneva puntato ostinatamente sul pavimento, reso
scivoloso dal sangue di alcune esecuzioni avvenute poco prima. Per un tempo che
parve interminabile, niente e nessuno si mosse più nella stanza, e nel silenzio
generale risaltò soltanto il raggelante raschiare sibilante delle serpi.
La collera che
irradiava il Signore del male era percepibile nella sua postura rigida e
nell’immobilità perfetta. Nessun muscolo si muoveva più, pareva diventato una
statua. La mano del sovrano scese ad accarezzare le sue dilette guardie del
corpo, che in quel momento lottavano tra loro contorcendosi in un groviglio di
spire per contendersi le carezze del padrone.
Lo sguardo di Zephar
si posò carezzevole su ognuna di loro, quindi tornò gelido sulla creatura
sempre prona ai suoi piedi. «Tu sai che mantengo sempre le mie promesse!»
disse, scostando con decisione alcune serpi dal bracciolo e ruotando uno dei teschi,
che mettendo in moto un misterioso marchingegno azionava una trappola mortale
situata ai piedi del trono.
Nel silenzio carico
di elettricità dovuta all’eccitazione dell’esecuzione ormai imminente, si sentì
solo un lieve sibilo quindi, gli ingranaggi oliati alla perfezione si misero in
movimento, provocando l’apertura improvvisa di una botola situata nel pavimento.
Lo sgherro che vi era sopra sentì la terra mancargli sotto il corpo ed ebbe
appena il tempo di recuperare il fiato venutogli a mancare per lanciare un urlo
terrificante, quindi precipitò per parecchi metri nel vuoto, fin quando la sua
caduta terminò in una pozza di liquami abitata da esseri acquatici e
antropofagi.
Le sue urla di dolore
e di terrore si smorzarono appena, mentre la botola si richiudeva
lentamente. Scandito dalle residue grida
del malcapitato, il silenzio nella sala perdurò ancora qualche minuto, poi
Zephar, squadrando il resto del manipolo di sicari, riprese la parola: «Non è
nelle mie abitudini graziare coloro che sbagliano e trasgrediscono ai miei
ordini. Tuttavia, ritengo che nonostante tutto voi abbiate le potenzialità
necessarie per portare a termine la missione e per questo vi viene offerta
un’ultima possibilità. Ordino pertanto che torniate sulla Terra e mi portiate
quel puledro, vivo o morto. E badate bene che io non abbia a pentirmi della mia
magnanimità.»
continua...
racconto pubblicato dalla MorganMiller edizioni
Immagini Phoneky
Uelà!!!Sempre più intrigante! Aspetto il seguito del seguito con impazienza! Complimentoni per la fantasia. Ti abbraccio!
RispondiEliminaSempre avvinenti e di bella lettura, i tuoi fantastici brani...
RispondiEliminaBuona domenica carissima e un abbraccio,silvia
Ciao Vivi' la storia è molto bella, intrigante e piena di sorprese. Attendo il seguito con curiosità.Belle le immagini.
RispondiEliminaUn caro saluto, fulvio
Ciao, bentornata !!! Spero , tutto bene !!!Mi sembra tanto che manchi dal blog !
RispondiEliminaAspetto il seguito di questa storia avvincente. Ciao
Vivi fai presto a pubblicare il seguito. Non sto nella pelle di sapere come va a finire. Ciao.
RispondiEliminaMind blowing post
RispondiEliminaSai che potresti anche scrivere libri per bambini? Hai uno stile fluido, una narrazione scorrevole e piena di novi5 che sarebbero una delizia per i piccoli lettori.
RispondiEliminaSempre più avvincente questo racconto. Hai mai pensato di pubblicare un libro, se non l’hai ancora fatto ? Sei davvero brava.
RispondiEliminaCiao, senti ho provato a cercare il blog che mi hai postato, però non lo trovo. Se sai come fare, fammi sapere.
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