Fantasia

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venerdì 25 giugno 2021

Ali candide nel cielo (2a parte)

 



Zephar, il Malefico

 

Il Signore delle Terre del Male era il sovrano autoproclamato di quella parte desolata del regno di Faerie. Era un uomo malvagio che, approfittando della sua forza e delle sue conoscenze esoteriche, aveva intrapreso una guerra spietata per spodestare i legittimi regnanti e tutti i possibili aspiranti al trono.  Finché dopo infinite e cruente battaglie, era riuscito a prevalere e a impossessarsi dello scettro del potere.

Il suo vero nome era Zephar, ed era considerato un demone e forse anche per questa popolana credenza nessuno era mai riuscito a contrastarne l’ascesa o, in seguito, a ribellarsi. La sua figura imponente spiccava persino tra le creature gigantesche che erano i suoi sgherri, somiglianti a dei Golem, poiché il malvagio sembrava avesse la prerogativa di far crescere la materia a dismisura e a plasmarla come più gli garbava.

O perlomeno, era questa l’illusione che ne avevano i suoi sudditi.

Oltre l’aspetto fisico, come ulteriore caratteristica che lo contraddistingueva vi era il grande mantello nero che non rinunciava mai a indossare, le cui lunghe falde fluttuavano come ali di pipistrello sulla sua schiena. Amava ammantare la sua persona di mistero, e con il passare del tempo le leggende su di lui si erano moltiplicate. In una si narrava che subisse continue trasformazioni, e che in una di queste assumesse un viso dai tratti animaleschi. Nessuno in realtà aveva mai assistito a queste mutazioni, e se qualcuno ne era stato testimone, quello a cui aveva assistito era solo pura illusione. Il sovrano era un mago molto esperto e specializzato in sortilegi di magia nera.

Zephar il Malefico era il titolo con cui si era autonominato e con il quale preferiva presentarsi, mentre con l’appellativo   “Demone” era quello con cui il popolo lo identificava.  Quel soprannome aveva il potere di seminare scompiglio e terrore ogni volta che veniva sussurrato.

Mentre nella dimensione terrena l’amicizia tra Mark e Gylldor cresceva e si rafforzava, nel regno del male in fibrillazione, i messaggeri alati avevano portato da tempo l’annuncio della nascita del giovane unicorno e della morte della giumenta. Da una prima notizia, il sovrano aveva saputo che il puledro era l’orfano di una principessa della sua specie, e che era bellissimo, oltre che sano e robusto. Si presupponeva, dunque, che nessun’altra creatura quadrupede fosse in grado di competere con lui nella corsa. Per questo motivo Zephar lo bramava per sé con tutte le fibre del suo essere, per farne la sua cavalcatura preferita. Quindi, appena ricevuta la notizia, inviò un manipolo dei suoi guerrieri migliori in una missione esplorativa, alla ricerca di eventuali tracce del piccolo.

Quel giorno, nella sala del trono dove riceveva, si respirava un’aria densa di negatività. Zephar se ne stava comodamente sprofondato sul suo seggio, un ornamento monumentale al quale si poteva accedere mediante una scalinata in marmo.

Coloro che vi si trovavano davanti non potevano che rimanere soggiogati e intimoriti alla vista degli esseri infidi che il sovrano aveva scelto come compagne fidatissime per adornare la sua maestosa seduta. Gli occhi fiammeggianti delle serpi, insieme ai sibili raschianti e le lingue biforcute servivano da deterrente per eventuali mosse contro il tiranno. Il trono era anche adorno di due teschi dalle orbite di fuoco, uno per bracciolo, le cui mascelle ghignanti si aprivano satanicamente ogni volta che veniva emessa una condanna a morte.

In quel momento Zephar scese dal trono e, attraversata la grande sala con falcate nervose, sostò per qualche minuto, assorto presso una delle grandi finestre del castello. Osservò pensosamente il recinto dove stavano raggruppate le creature che una volta erano state unicorni tramutati in Pegasi Oscuri, perché avvelenati dagli artigli delle sue arpie. Il sovrano, fino ad allora silenzioso, si volse bruscamente dirigendosi verso il centro, posizionandosi sul più alto dei gradini della scala di marmo.

L’attenzione dei cortigiani si soffermò sull’aspetto fisico del loro sovrano. I tratti del viso erano perfetti, quasi fossero cesellati, dipinti. La carnagione appariva di un bel colorito abbronzato, il naso era diritto e la bocca carnosa. I capelli scuri e assai folti, arricciati lievemente sul collo e sulla fronte spaziosa.

Il sovrano, che allenava costantemente il suo fisico, aveva un aspetto magnifico, e le appartenenti al genere femminile presenti nella sala fremettero nel constatarne la mascolinità. Zephar, tutto preso da ben altri pensieri, ignorò gli sguardi di ammirazione. Lanciò un’occhiata penetrante agli sgherri che attendevano i suoi ordini, quindi con piglio deciso disse: «Coloro che hanno fallito nel primo tentativo di riportare qui la madre e il suo piccolo sono stati puniti adeguatamente. Che nessuno di voi lo dimentichi mai, nemmeno per un istante!» esclamò, passando in rassegna la schiera di uomini in armi che si sottoponevano, abbassando il capo davanti al loro sovrano.


Zephar li squadrò a uno a uno negli occhi, e quando questi abbassavano i loro, ne controllava minuziosamente le armature. Il cuoio, da cui erano state ricavate le articolate corazze, era tanto oliato da luccicare con la luce delle numerose lampade che rischiaravano la sala. Zephar strinse un paio di cinghie ritenute troppo lasche e controllò il filo di alcune lame delle alabarde impugnate dai guerrieri. «Ho voluto scegliervi personalmente perché conosco pregi e difetti di ognuno di voi, ma soprattutto conosco il vostro valore. Sono quasi certo che non mi deluderete» concluse soddisfatto, tornando a sedersi sul trono.

«Andate e conducete a me l’unicorno di sangue reale!»

«Sì, mio signore!» fu la risposta all’unisono dei miliziani, con la mano chiusa a pugno sul cuore.


Una sorpresa


Nel frattempo, nella dimensione terrestre, i giorni passarono velocemente diventando mesi, e poiché Mark non se l’era sentita di prendere una decisione, si era ormai affezionato al nuovo amico che cresceva a vista d'occhio e aveva abbandonato del tutto l’idea di allontanarlo. Ma vi erano dei particolari ai quali il ragazzo non riusciva a dare spiegazioni: la protuberanza che avvertiva al tatto sulla fronte del puledro si era allungata di parecchio, e quelle che aveva scambiato per cicatrici si stavano ingrossando, crescendo come fossero membrane pendule. E come se non bastasse, il colore del suo manto, dal grigio topo iniziale, si andava scurendo giorno dopo giorno promettendo di diventare nero come l'inchiostro.

Mark non riusciva a risolvere quello che per lui era diventato un vero mistero. Ciò nonostante, aveva rinunciato a scervellarsi e si stava abituando a pensare che Gylldor fosse un cavallo deforme. Se non fosse stato che, quando strigliava il suo pelo, avrebbe giurato che sotto la sua mano scorresse una muscolatura che prometteva di diventare possente e nel contempo elegante.

Col passare del tempo, tra i due era fiorita un'intesa che aveva dello straordinario. Il ragazzo riusciva a prevenire ogni minimo bisogno del cavallino, mentre Gylldor lo ricambiava con una dedizione a dir poco commovente.

Qualche giorno dopo il suo arrivo alla tenuta ci fu un episodio molto rilevante, che segnò la vita dei due giovani in modo significativo. Quel giorno Mark vide il puledro fissare con sguardo intenso il grande prato verde che circondava la stalla. Non fu difficile per il ragazzo indovinare il desiderio del cavallino di galoppare su quel prato. “Desiderio più che legittimo” pensò.

«Dai Gylldor! Andiamo! Penso che a quest'ora non corriamo il rischio che ci vedano.»

Il puledro sgranò gli occhi, incredulo: Dici davvero, Mark?

«Certo che dico sul serio, ma solo per pochi minuti però, lo sai.»

Lo so! rispose Gylldor felice, e lo dimostrò con tutto l’entusiasmo della sua giovinezza.

Mark rimase a guardarlo con un sorriso benevolo e comprensivo stampato sul viso e, quando il suo giovane amico cominciò a sgroppare come un cavallo pazzo e a trotterellare beato, non poté trattenere uno scoppio d'ilarità. Il cavallino si era scatenato in una sequenza di gioiose giravolte mentre scalciava allegramente, per lanciarsi poi in improvvise galoppate, con altrettante brusche frenate. Durante una di queste folli carambole, Gylldor si fermò all’improvviso davanti al suo giovane amico. Salta in groppa, Mark! Ti porto a fare un giro.

Il giovane rimase solo qualche istante interdetto, poi l’entusiasmo del cavallino lo contagiò: «Sì! Vai, corri col vento, Gylldor!» rispose con entusiasmo montando a pelo e aggrappandosi alla criniera.

Sì ma tu tieniti forte! Non vorrei perderti!

Il cavallo si impennò su due zampe, quindi, con un sonoro nitrito, partì al galoppo.

Dopo pochi metri, accadde una cosa straordinaria; per una manciata di secondi incredibili gli zoccoli di Gylldor persero il contatto con il terreno. Il cuore di Mark carambolò nel petto mentre sentì un vuoto improvviso allo stomaco, e un leggero ma fastidioso senso di nausea, quindi, dopo quella che gli parve un’eternità, sentì distintamente gli zoccoli tornare a picchiare contro il terreno.

Ci vollero ancora alcuni istanti prima che il cavallo finalmente si fermasse. Il ragazzo sbatté gli occhi incredulo mentre Gylldor volgeva il lungo collo guardandolo con un'espressione altrettanto sbigottita dipinta sul muso. Si erano resi conto entrambi che era appena accaduta loro una cosa straordinaria: anche se per pochissimo, i due amici si erano librati al di sopra del terreno, volando.

Fu solo un piccolo anticipo di ciò che sarebbe stato, una volta che Gylldor avesse raggiunto la maturità fisica.


Il tempo passò in fretta; i due giovani scorrazzavano felicemente per il prato appena sorgeva l'alba, o andavano a fare lunghe galoppate quando il ragazzo aveva il suo giorno libero. Gli episodi straordinari diventarono sempre più frequenti e durarono sempre più a lungo. Gli zoccoli del puledro si staccavano da terra, e Gylldor, con in groppa Mark, rimaneva sospeso magicamente per aria. Allora il ragazzo rideva gioiosamente, mentre il cavallino faceva risuonare alti i suoi nitriti.

Ma con il trascorrere del tempo, il giovane scoprì anche che, ogni qualvolta la luna piena saliva in cielo, nel suo amico avveniva un cambiamento straordinario: il pelame grigio scuro diventava nero come il carbone, il corno a spirale diventava visibile, e anche le membrane che il ragazzo aveva scoperto sui suoi fianchi. Non solo: la luna influiva anche sul carattere del puledro, che in quei pochi giorni di plenilunio diventava nervoso e irascibile.

Fu durante una di queste trasformazioni che Mark assistette a un fenomeno da lasciarlo senza fiato: per la prima volta il puledro sollevò in tutta la loro grandezza le membrane che gli pendevano dai fianchi spalancandole e scuotendole, nello stesso modo in cui gli uccelli aprono le ali prima di spiccare il volo.

«Sono veramente ali! E quello sembrerebbe… quello è un corno! Ma allora sei un unicorno… No! Sei un cavallo alato… un pegaso! Cosa sei, Gylldor?»

E già la seconda volta che me lo chiedi, Mark. Non ti so rispondere!

Mark sembrò all’improvviso imbarazzato e molto, molto confuso: «Credevo che creature simili a te esistessero solo nella fantasia e nelle fiabe. Credevo che…credevo che voi foste una leggenda!»

Gylldor sgranò lo sguardo incredulo. Cosa vuoi dire Mark? Non hai mai visto un altro animale simile a me?

«No! È la prima volta che vedo un unicorno in carne e ossa o un pegaso… Li ho sempre visti raffigurati nei libri Fantasy. Non capisco più nulla, Gylldor!» terminò Mark evidentemente confuso. «Cosa sei veramente e soprattutto da dove vieni?»

Non lo so. Perché mi fai tutte queste domande strane? Mi…mi incuti inquietudine! Lo so, lo so che non è colpa tua…è anche io vorrei sapere, conoscere la verità.

Commosso dall’atteggiamento mortificato dell’amico Mark corse ad accarezzarlo sul lungo collo.

So solo che un giorno mi sono ritrovato qui in questa stalla e la prima persona che ho incontrato sei tu. Non ricordo niente altro.

Il ragazzo percepì il profondo turbamento del puledro e preferì non insistere sull’argomento. «Eri troppo piccolo per ricordare, ma un giorno forse ti ritornerà la memoria.»

Gylldor scosse la testa. Ho degli strani presentimenti, Mark. E tra poco sarà di nuovo il plenilunio.

«Stai tranquillo. Non accadrà nulla di grave. Al limite ti agiterai un po’.»

Le froge del puledro fremettero e gli zoccoli batterono sull’impiantito. Quando accade tutto provo strane sensazioni e mi prende una smania irresistibile. Sento il richiamo del vento, sento il richiamo del cielo. Ho una voglia irrefrenabile di… volare!

«E allora vola! Lo hai già fatto, anche se per poco!»

No! Non credo di essere in grado di farlo, mio giovane amico! Il mio timore è quello di precipitare.

 «Gylldor, devi solo acquisire più fiducia in te stesso e lasciarti guidare dall’istinto. Sono convinto che ci riuscirai!»

Non lo so! rispose malinconico, il puledro. A volte temo proprio di essere una creatura aliena, maligna, e che durante la mutazione possa arrecare infinito dolore a quelli che mi stanno vicini.


Il riferimento a lui stesso era troppo chiaro per poter essere frainteso, e il tono con cui era stato espresso il timore provocò una stretta al cuore di Mark, che tentò di rassicurare l’amico. «Io ti conosco molto bene. Tu non sei una creatura maligna. Il tuo cuore è troppo puro e la tua mente troppo limpida per poter ideare pensieri e progetti malefici. Stai tranquillo! E poi, qualunque cosa accada io ti aiuterò a superare qualsiasi difficoltà.»

Grazie Mark. Tu sai che farei la stessa cosa per te!  Concluse con un gran sospiro il puledro.

In seguito, i due amici non tornarono più sull’argomento e concentrarono i loro sforzi nelle lunghe corse sfrenate, con la speranza di riuscire a realizzare il sogno di entrambi di librarsi in volo.

Purtroppo e nonostante i ripetuti tentativi, il puledro riuscì a sollevarsi da terra solo per pochi metri, e sia lui che il suo cavaliere ne furono molto delusi. Malgrado gli innumerevoli fallimenti, Mark continuava a guardare al suo amico con ammirazione. Il pensiero che fosse un cavallo deforme era stato accantonato da un pezzo, e ogni qualvolta Gylldor subiva la trasformazione, il suo aspetto diventava superbo. Tuttavia, Mark doveva stare anche molto attento. Nei giorni di plenilunio Gylldor non cambiava solo l’aspetto esteriore, ma diventava scontroso e irascibile, e il ragazzo aveva imparato a non indispettirlo in alcun modo, anzi, cercava di assecondarlo.

Vi era un che di prodigioso in ciò che avveniva durante quelle notti, e Mark non poteva fare altro che assistere ammirato a quei cambiamenti. Nella sua lunga esperienza da stalliere non aveva mai visto una creatura altrettanto bella e misteriosa, e ogni tanto si domandava quale arcano si celasse nella sua nascita e nella sua esistenza. Quale motivo poteva avere la presenza di un unicorno sul pianeta terra? E perché Gylldor subiva quelle trasformazioni diventando un pegaso?  Ma erano domande e dubbi che restavano sempre senza risposta. E quando la luna riappariva calante, il suo amico tornava a essere buono, anche se esuberante, e il suo aspetto tornava insignificante.

Tuttavia c’era anche qualcos’altro che tormentava il giovane stalliere, ed era il vago ricordo di una danzatrice ieratica, quasi diafana, dai lunghi capelli neri e gli occhi smeraldo, che gli appariva nel sonno molto spesso. Chi era quella fanciulla che piroettava con estrema grazia nei suoi sogni?  E cosa aveva a che fare con Gylldor, considerato che la sognava spesso mentre lei lo cavalcava?

Mark si perdeva incantato in quella visione ricorrente, che lo lasciava sempre con il batticuore. Avrebbe tanto desiderato confidarsi con il suo amico, parlare con lui della fanciulla che tanto lo turbava, ma c’era sempre qualcosa che glielo impediva, e così il tempo passava e il ragazzo conservava il suo segreto nel cuore.

Mark non sospettava che Gylldor aveva percepito il suo turbamento, anche se ne ignorava la causa e aspettava con discrezione che il giovane stalliere si confidasse. Ma il destino attendeva in agguato i due compagni, perché un esploratore del regno di Zephar, mentre effettuava un giro di perlustrazione, varcò i confini della dimensione terrena e, forse per una banale fatalità, s'accorse dell'esistenza dell’unicorno durante una delle sue trasformazioni e s’affrettò a tornare dal suo sovrano.

«Mio signore!» esclamò la guardia prostrandosi davanti al trono, «Porto notizie sensazionali!»

«Parla!» ordinò con modi bruschi e sprezzanti Zephar, presagendo la realizzazione del suo sogno «E fa che siano davvero notizie interessanti!»

«Solo per un caso fortuito le mie ricerche sono sconfinate nella dimensione terrestre, e la fortuna ha voluto che io assistessi a un evento prodigioso.»

Lo sgherro, sperando in una pausa di grande effetto, tacque, e difatti i cortigiani rimasero tutti con il fiato sospeso a guardarlo in attesa che rivelasse la grande novità.

Ma Zephar non gradì affatto quel modo teatrale: «Parla senza tanti giri di parole se non vuoi che la tua lingua finisca in pasto alle mie arpie.» Il tono era stato mantenuto volutamente pacato, ma il riferimento agli orripilanti volatili che il re teneva relegati in una enorme gabbia, poco distante dal trono, provocò un brivido lungo la schiena dei cortigiani presenti nella sala.

«Il piccolo di unicorno è ospite di un allevamento sulla Terra, mio signore!» tagliò corto l’inviato, senza avere il coraggio di rialzare lo sguardo.

«Non è possibile! Come ci sarebbe arrivato nell’altra dimensione?» domandò stupito.

«È la verità, te lo giuro, mio signore! Ma non so come possa aver fatto a superare la barriera!» aggiunse lo sgherro ormai terrorizzato dalla collera del sovrano.

Gli occhi di Zephar divennero due braci ardente mentre un sospetto prendeva campo tra i suoi pensieri: «E tu come sei riuscito a superarla? È praticamente impossibile che la soglia arcana che divide i due mondi si spalanchi davanti a una creatura insulsa come te senza l’aiuto di una potente magia!»

Ora la figura imponente del tiranno sovrastava quella dello sgherro piegato in due sul pavimento della sala ed era evidente il tremito del povero malcapitato.

«Rispondi schiavo e guardami negli occhi!» ordinò Zephar afferrandolo per la ispida capigliatura e costringendolo ad alzare la testa.

 «Non so come sia successo…» balbettò «È solo per puro caso che ho trovato uno spiraglio nel varco e inavvertitamente ho superato il confine» terminò, paventando la furia del sovrano.

Il terrore della colossale creatura era evidente e Zephar, percependone la sincerità, strattonò con disprezzo il suo testone e assai turbato da quanto appreso, si mise a camminare avanti e indietro nella grande sala, mentre i cortigiani si affrettavano a lasciargli spazio.

Il Signore del male, assalito dai dubbi, non riuscì a gioire nemmeno un istante per il ritrovamento. Non si sarebbe mai aspettato di ritrovare il piccolo nella dimensione terrena. Eppure, a ben pensarci, era logico che fosse così! Non poteva essere altrimenti! Lo avevano cercato dappertutto. Non vi era luogo o recesso nel regno che non fosse stato perlustrato e scandagliato a dovere. Dove altro avrebbe potuto nascondersi un cucciolo di unicorno se non sulla Terra? Ma qualcuno doveva pur averlo aiutato a superare la barriera!

Chi nel regno magico possedeva tanto potere da spalancare il varco?

Chi era che lo aveva protetto sottraendolo dalla sua brama di possesso e soprattutto chi era che se ne prendeva cura nell’altra dimensione?

Tutte quelle domande senza risposta erano frustranti e aumentavano a dismisura la sua collera, che rischiava divampare come un incendio devastante.

In quel momento Zephar avrebbe compiuto una strage pur di conoscere chi lo contrastava e soddisfare la sua sete di rivalsa.  Chi era colui o coloro che osavano sfidarlo?

Il sovrano sostò per qualche minuto immerso nei suoi pensieri e ignaro di essere lui stesso preda delle sue emozioni. I cortigiani lo osservarono in silenzio, consapevoli che la rabbia del loro signore sarebbe esplosa da un momento all’altro.

Poi Zephar tornò a grandi passi verso il trono e con voce perentoria ordinò:

«Voglio quell’unicorno e voglio la testa di coloro che lo hanno aiutato a oltrepassare i confini. Tu» ordinò, indicando la creatura ancora prostrata davanti a lui «ti affiancherò alcuni dei guerrieri più forti e fidati e insieme farete ritorno nell’altra dimensione. Ma avverto tutti quanti voi» aggiunse con estrema, glaciale flemma, abbracciando con lo sguardo la sala «Questa volta non tollererò fallimenti!»

«Ma, mio signore… il varco si è rinchiuso. Come farò a oltrepassare la soglia arcana?»

«Sarò io stesso a consentirti di farlo.»

Nella sala i cortigiani rumoreggiarono. Nessuno aveva mai sospettato che il tiranno avesse il potere di aprire il varco.

Zephar si mosse un po’ a disagio. Non gli piaceva che i suoi sudditi venissero a conoscenza dei suoi segreti. Aveva tenuto nascosto a tutti che, prima di riuscirci, aveva compiuto vari esperimenti per aprire uno spiraglio tra i due mondi ed era evidente che lo sgherro era riuscito a passare durante uno dei suoi molteplici tentativi.

Prima che qualche consigliere si decidesse a porre domande fastidiose il sovrano sbottò: «Tu e la tua squadra avrete pochi secondi per passare. Vi consiglio di affrettarvi se non volete rimanere prigionieri nel limbo oscuro che divide le due dimensioni.»

Poi, con un gesto perentorio congedò i presenti.

Soggiogati dal carisma del sovrano, i cortigiani indietreggiarono con il capo chino e senza mai voltarsi e gli sgherri li seguirono a ruota.

Zephar, sebbene avesse già qualche sospetto, rimase a torturarsi sull’identità misteriosa di coloro che avevano aiutato l’unicorno. “Mi auguro che lo trovino al più presto!” pensò, poi tornò a rimuginare sui suoi grandiosi intenti, tenuti celati a tutti.

Il sovrano non si fidava nemmeno dei suoi maghi e dei suoi consiglieri e fino a quel momento era riuscito a nascondere a ognuno di loro la sua mira di conquista della Terra. Un’ambizione così grande da occupare gran parte delle sue energie e del suo tempo. Prima o poi avrebbe dovuto rendere partecipi del suo progetto i suoi fedelissimi ma, finché non avesse trovato il modo di tenere spalancata a lungo la soglia arcana, in modo da permettere il passaggio dei suoi eserciti, nessuno doveva sospettare le sue intenzioni.

“Dai il tempo al tempo e vedrai che riuscirai. Diverrai il padrone assoluto di questo pianeta e non esisterà più alcun limite, costrizione o confine. Le dimensioni non esisteranno più e tutte le creature che vivono su questo pianeta, volenti o nolenti, ubbidiranno a uno solo, potente, immenso sovrano. Il Signore del male!” terminò tra sé e la sala del trono risuonò della sua risata satanica.

Nella dimensione terrena, nel frattempo, per gli sgherri non fu affatto facile ritrovare le tracce del fuggitivo. Il motivo stava nell’incantesimo di occultamento lanciato dalla Dama Silvestre, che ne impediva il riconoscimento agli esseri umani e a quelli malvagi, se non durante il fatidico plenilunio. Gli inviati vagarono per giorni e giorni su un terreno sconosciuto e ritenuto alieno, nemico, senza peraltro mai trovare un pur minimo indizio sulla presenza del puledro.

E fu con enorme stizza che i sicari dovettero rassegnarsi e furono costretti a fare ritorno nel regno del male.

Conoscendo la malvagità e l’efferatezza delle punizioni che Zephar infliggeva a quanti lo deludevano, gli esploratori si presentarono malvolentieri nella sala del trono.

Il sovrano li attendeva, glaciale e implacabile come solo lui poteva apparire, e le sue serpi, che ne avvertivano la contrarietà, si dimenavano sibilando al suo fianco.

Il trono offriva una visione inquietante. Le occhiate gelide dei rettili ardevano come strali infuocati sulla pelle dei colpevoli.

«Mio Signore, il piccolo unicorno non è stato trovato» ebbe l’animo di sussurrare il portavoce, prostratosi davanti al trono. I lineamenti perfetti del sovrano rimasero indecifrabili. Solo i muscoli della mascella ebbero una contrazione, mentre l’espressione rimaneva glaciale.  Ma gli occhi, quei suoi occhi neri come le profondità degli abissi, fiammeggiarono biecamente, mentre scrutavano in modo selvaggio l’essere tremebondo che aveva davanti. Il silenzio totale scese ad appesantire la già greve atmosfera che regnava nella sala, e infine risuonò imperiosa la voce del sovrano: «Non posso credere che i più validi tra i miei guerrieri si siano fatti giocare da un puledro!»

«Forse» azzardò il malcapitato, senza però osare alzare lo sguardo «forse, sospettando il nostro arrivo quel puledro è stato portato in un nuovo e introvabile nascondiglio, mio signore. E forse, addirittura in un’altra dimensione.»

«O forse sono circondato da emeriti incapaci!» fu la gelida risposta.

Lo sgherro, presagendo il terrificante momento della sua condanna, non osò nemmeno più respirare e tacque, ormai rassegnato ad affrontare il suo destino.

Lo sguardo di tutti gli altri cortigiani rimaneva puntato ostinatamente sul pavimento, reso scivoloso dal sangue di alcune esecuzioni avvenute poco prima. Per un tempo che parve interminabile, niente e nessuno si mosse più nella stanza, e nel silenzio generale risaltò soltanto il raggelante raschiare sibilante delle serpi.

La collera che irradiava il Signore del male era percepibile nella sua postura rigida e nell’immobilità perfetta. Nessun muscolo si muoveva più, pareva diventato una statua. La mano del sovrano scese ad accarezzare le sue dilette guardie del corpo, che in quel momento lottavano tra loro contorcendosi in un groviglio di spire per contendersi le carezze del padrone.

Lo sguardo di Zephar si posò carezzevole su ognuna di loro, quindi tornò gelido sulla creatura sempre prona ai suoi piedi. «Tu sai che mantengo sempre le mie promesse!» disse, scostando con decisione alcune serpi dal bracciolo e ruotando uno dei teschi, che mettendo in moto un misterioso marchingegno azionava una trappola mortale situata ai piedi del trono.

Nel silenzio carico di elettricità dovuta all’eccitazione dell’esecuzione ormai imminente, si sentì solo un lieve sibilo quindi, gli ingranaggi oliati alla perfezione si misero in movimento, provocando l’apertura improvvisa di una botola situata nel pavimento. Lo sgherro che vi era sopra sentì la terra mancargli sotto il corpo ed ebbe appena il tempo di recuperare il fiato venutogli a mancare per lanciare un urlo terrificante, quindi precipitò per parecchi metri nel vuoto, fin quando la sua caduta terminò in una pozza di liquami abitata da esseri acquatici e antropofagi.

Le sue urla di dolore e di terrore si smorzarono appena, mentre la botola si richiudeva lentamente.  Scandito dalle residue grida del malcapitato, il silenzio nella sala perdurò ancora qualche minuto, poi Zephar, squadrando il resto del manipolo di sicari, riprese la parola: «Non è nelle mie abitudini graziare coloro che sbagliano e trasgrediscono ai miei ordini. Tuttavia, ritengo che nonostante tutto voi abbiate le potenzialità necessarie per portare a termine la missione e per questo vi viene offerta un’ultima possibilità. Ordino pertanto che torniate sulla Terra e mi portiate quel puledro, vivo o morto. E badate bene che io non abbia a pentirmi della mia magnanimità.»

continua...


       


racconto pubblicato dalla MorganMiller edizioni

Immagini Phoneky

9 commenti:

  1. Uelà!!!Sempre più intrigante! Aspetto il seguito del seguito con impazienza! Complimentoni per la fantasia. Ti abbraccio!

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  2. Sempre avvinenti e di bella lettura, i tuoi fantastici brani...
    Buona domenica carissima e un abbraccio,silvia

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  3. Ciao Vivi' la storia è molto bella, intrigante e piena di sorprese. Attendo il seguito con curiosità.Belle le immagini.
    Un caro saluto, fulvio

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  4. Ciao, bentornata !!! Spero , tutto bene !!!Mi sembra tanto che manchi dal blog !
    Aspetto il seguito di questa storia avvincente. Ciao

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  5. Vivi fai presto a pubblicare il seguito. Non sto nella pelle di sapere come va a finire. Ciao.

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  6. Sai che potresti anche scrivere libri per bambini? Hai uno stile fluido, una narrazione scorrevole e piena di novi5 che sarebbero una delizia per i piccoli lettori.

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  7. Sempre più avvincente questo racconto. Hai mai pensato di pubblicare un libro, se non l’hai ancora fatto ? Sei davvero brava.

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    1. Ciao, senti ho provato a cercare il blog che mi hai postato, però non lo trovo. Se sai come fare, fammi sapere.

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