Istintivamente, cercai con lo sguardo quello
dell'imperatrice e lo ritrovai, puntato su di me, leggendovi un’inquietudine
senza fine. Strinse a sé i piccoli,
avvolgendoli il più possibile nel suo caloroso abbraccio.
I lupi apparvero all'improvviso, come materializzati
dal nulla. I nostri archi erano già tesi con le frecce incoccate e diedi l'ordine
di lanciare.
Tutto quello che accadde dopo lo vissi come al
rallentatore. Sotto la prima raffica di frecce, caddero almeno cinque lupi, ma con
una sola occhiata mi resi conto che non si trattava di un piccolo branco, bensì
di un'intera orda famelica.
Dopo il primo tiro, nessuno di noi ebbe il
tempo di incoccare, per cui sfoderammo le spade.
Ma se noi sguainavamo le temibili spade ricurve,
le belve sfoggiavano zanne altrettanto spaventose. E dopo il primo attimo di
sbandamento dovuto al nostro tiro micidiale, l'audacia dei lupi aumentò e iniziarono ad avanzare con cupi brontolii.
Uno dei miei compagni fu aggredito da tre belve
contemporaneamente, creando un vuoto nella nostra difesa. Sentii l'urlo unanime
dei principi terrorizzati e quello altrettanto angosciante dell'imperatrice.
Accecato dalla neve sferzante e dal furore
della battaglia, la vidi di sottecchi mentre balzava in avanti, come fosse stata lei stessa una belva, ma
in quel momento non realizzai cosa stesse facendo. Poi, il mio sguardo cadde
davanti a lei e constatai con orrore cosa fosse accaduto. Un lupo era riuscito
ad afferrare tra i denti un lembo della tunica di uno dei bambini e stava trascinando
via il piccolo terrorizzato, mentre la madre, alla pari di una leonessa che difende i suoi cuccioli, tentava in tutti i
modi di strapparglielo dalle fauci.
Quella scena mi ghiacciò il sangue nelle vene. Reagii
in un battibaleno, gettandomi con la spada sulla famelica belva. Sferrai
un colpo netto e violento con la mia
lama e la sentii affondare nelle carni della bestiaccia ringhiosa. La sentii
guaire e capii che aveva abbandonato la presa sul piccolo, che trovai
abbandonato sulla neve con gli occhi sbarrati dall'orrore, e con l'urlo rimasto
strozzato nella gola. Perlomeno era incolume.
Lo sollevai velocemente, e senza nemmeno porre
il caso alla delicatezza, lo restituii alla madre, scortandoli al centro del
cerchio difensivo.
Ricevetti in cambio un mesto cenno del capo e
tornai a combattere, trovandomi ancora una volta, spalla a spalla con i miei
compagni, ad affrontare zanne e artigli e fauci bavose.
Se fosse stato solo per la mia vita, non mi
sarei preoccupato più di tanto, ero stato addestrato ad affrontare ogni tipo di
situazione e di pericolo. Era piuttosto il pensiero di lei e dei bambini che in
quel momento mi angosciava.
Scrollai la testa da inutili dubbi. Non potevo
fare altro che combattere e mi preparai, ergendomi in modo imponente, molto simile
a un grande orso furioso. Se avessero prevalso, a quei lupi sarebbe costata molto
cara la vittoria. Incitai i miei compagni a fare altrettanto, urlando per
sovrastare gli ululi del vento e i ringhi del branco.
Sconcertati dal tono e dall’improvviso cambiamento
in atto, le belve esitarono. Vi fu qualche attimo di stasi e ne approfittai per
studiare la situazione. Altri lupi si erano aggiunti a quelli già presenti ed
erano tanti, da non riuscire nemmeno a contarli.
In quel momento il capobranco emise un lugubre
ululato, che preannunciava un nuovo attacco.
Eravamo
giunti alla resa dei conti e mancava poco alla fine. Alla nostra fine! Non esisteva
possibilità di salvezza, perché loro erano in troppi. Ed evidentemente il
branco lo presagiva, pregustando la vittoria e la ormai prossima scorpacciata
di carne.
La rabbia e la frustrazione mi accecarono e fui
il primo a lanciarmi contro il capobranco, che si protendeva, ringhiando e sbavando
proprio davanti a me. Le sue dimensioni e la sua ferocia mi sorpresero. Per un
istante ci eravamo squadrati, ed entrambi avevamo compreso di essere noi i capi
e che dovevamo sfidarci. Per noi sarebbe stata vita o morte e la vittoria dell’uno
o dell’altro avrebbe comportato la resa immediata del suo seguito. Durante i
lunghi anni di addestramento al monastero, avevo imparato che, se privato di
una guida decisa e coraggiosa, un intero esercito può finire allo sbando. Evidentemente,
era una nozione che, per istinto, conosceva bene anche il mio avversario a
quattro zampe.
Con uno scatto possente la belva divorò la
distanza che ci separava ma, proprio in quel momento, un cupo e profondo boato
esplose, come cento tuoni fragorosi nell'aria.
Quel rumore assordante ci paralizzò sul posto,
lasciandoci basiti. Non avevo mai sentito nulla di simile! I lupi volsero il
loro sguardo atterrito alla cima della montagna e dopo solo un attimo di
esitazione, scattarono, fuggendo come tanti demoni e dileguandosi nel marasma
della bufera.
L’urlo mi salì dal cuore: «Una valanga! Presto!
Dobbiamo toglierci da qui!»
Senza badare ai modi abbrancammo sotto le
nostre braccia i ragazzini e iniziammo la nostra folle corsa verso la salvezza
seguendo la direzione dei lupi, sapendo che gli animali, per istinto, ci
avrebbero guidati in salvo.
Fu la disperazione e l’istinto di sopravvivenza
a darmi la forza e la velocità necessaria a sfuggire alla valanga di neve che
si stava riversando dal pendio. Affondavamo sì nella neve ormai alta, ma niente
e nessuno sembrava in grado di fermarci.
Sentivo la slavina dietro le mie spalle come
fosse stata una belva mostruosa e famelica. Ero in grado di capire, quasi contare
ogni masso e ogni tronco divelto e raccolto dal suo abbraccio mortale e trascinato
con violenza verso valle. Ero in grado di intuire dal fragore, quanti metri ci
separavano da essa. Pochi! Troppo pochi! Con uno sforzo sovrumano urlai,
spronando i miei compagni, e cercando di non perdere contatto con coloro che
avevo mandato alla ricerca del rifugio. Purtroppo, mi accorsi ben presto che
non potevano sentirmi per il marasma causato dalla tempesta e perché l’ansia
della salvezza ci aveva distanziati di parecchi metri.
Per fortuna, però, avevano raggiunto un punto
abbastanza al riparo dalla valanga e quella constatazione mi donò un po’ di
sollievo, poi fui costretto a guardare in avanti e li persi di vista.
In certi momenti di quella folle discesa mi
ritrovavo accecato dal turbinio della neve, ansante e disperato, senza la
possibilità di scansare eventuali e improvvisi ostacoli. Trasportavo i due
ragazzini come fossero fantocci senza peso e loro non reagivano. Non ne avevano
più la forza, poverini!
A un certo punto, però, mi sembrò persino che
qualcuno mi avesse sollevato e che stessi volando e con un brivido mi resi
conto che, nonostante tutti i miei sforzi, il grosso della slavina ci aveva raggiunto
e io mi ritrovai di nuovo nei guai.
Alle mie spalle un mostro dalle dimensioni
immani ruggiva, protendeva le sue fauci e tentava di ingoiarmi. Per un attimo
sentii venir meno il mio spirito battagliero. Ero di nuovo allo stremo e sarebbe
stato facile lasciarsi andare cercando l’oblio, ma ero responsabile della vita
dei bambini e se avessi ceduto, anche solo per un attimo, sarebbe stata la
fine. Scacciai quel dubbio e mi schiarii le idee ponendo più attenzione a
quello che accadeva intorno.
La neve che precipitava dal colle mi aveva
sollevato da terra e rischiavo di cadere da un momento all’altro. Mi concentrai.
Nulla mi doveva distrarre, né la miriade di tronchi divelti né i massi che mi rotolavano
intorno rischiando di investirmi. Cosa potevo fare se non cercare di evitarli?
All’improvviso mi venne un’idea. L’unica possibilità era adattarsi alla complicata situazione come l’acqua che si adatta al suo contenitore. E allora mi allacciai entrambi i miei fardelli al collo raccomandando loro di tenersi forte, poi allargai le braccia e seguii il montare dell’onda nevosa che si gonfiava sempre di più ritrovandomi al suo apice e cavalcandola come fosse quella del mare.
Non era affatto semplice mantenere l’equilibrio con i due bambini
avvinghiati ma, mi lasciai trasportare, scivolando e cercando in
tutti i modi di non affondare. Per qualche momento, addirittura, la sensazione
provata fu esaltante. Nonostante il fragore terrificante provocato dalle tonnellate
di neve che precipitavano a valle insieme a me, io riuscivo a volare. In quella
sciagurata situazione riuscii anche a sorridere.
Non so come, ma ce la feci a deviare e a uscire
dalla traiettoria della slavina e, a un certo punto, me ne ritrovai fuori.
Mi fermai senza fiato, con i bambini
abbarbicati tenacemente alla mia persona. Poveri piccoli! Mi guardavano con
occhi sgranati senza un lamento e senza una lacrima. Poi, il più piccolo mi
sorrise e per me fu come un raggio di sole che si fa largo tra le nuvole.
Era un sorriso birichino, incredulo, come solo
i bimbi sanno fare quando ricevono un regalo insperato. Posai per terra entrambi e li guardai. L’altro
strizzò gli occhi e li sgranò, poi scoppiarono a ridere e allora compresi che i
due si erano divertiti. Per loro si era trattato di un gioco!
Sorrisi a mia volta ringraziando gli dei perché
i piccoli non avevano compreso l’entità della catastrofe che li aveva visti
protagonisti e per non averli fatti penare durante la rocambolesca discesa.
In un moto di tenerezza li strinsi ancor di più
a me e poi li guidai nella risalita alla ricerca degli altri compagni.
Li trovai a poche centinaia di metri che mi
stavano aspettando.
Tien mi venne incontro facendosi carico dei
bambini e poi ci riunimmo al gruppo.
Feci la conta con un nodo alla gola. Eravamo
rimasti in pochi. Una decina di guerrieri e l’imperatrice, più i bambini.
Cercai lo sguardo di Maylin e questa volta lo
trovai colmo di lacrime di sollievo. Abbracciò i suoi figli con trasporto e i
monelli presero a raccontare, saltellando gioiosamente, quanto era avvenuto.
Il mio amico mi diede una pacca sulla spalla: «Credevamo
di avervi perso! Ma tu sei stato in gamba, come sempre!»
Gli risposi con un cenno e quasi caddi sulla
neve per la stanchezza. Mi tremavano le gambe. L’adrenalina fluita nelle mie
vene per tutto il tempo della fuga aveva lasciato uno strascico di grave
paralisi nella mia fibra. I muscoli dei polpacci mi bruciavano per il grande
sforzo subito e mi cedettero. Tien mi afferrò e mi costrinse ad appoggiarmi a
lui, poi mi sostenne fino a quando arrivammo alla caverna.
Ci sistemammo come meglio potevamo e io mi
lasciai cadere avvolto in una coperta, lasciando agli altri il compito di provvedere
ai bambini.
Sentii il fragore della slavina scemare
lentamente, finché nell’aria rimase solo il sibilo del vento, quindi un
terribile silenzio avvolse il mondo all’esterno del nostro rifugio.
Avrei voluto dormire per recuperare un po’ di
energie, come del resto facevano gli altri, ma ero troppo stanco e irrequieto. Pensavo alla
discesa che dovevamo affrontare l’indomani.
E inevitabilmente la cercai con lo sguardo.
La vidi supina, con i piccoli stretti al suo
corpo. Il suo volto era tanto pallido da apparire diafano. Aveva gli occhi
chiusi, e il pensiero che stesse male o, peggio ancora, che fosse morta, mi colpì
come uno schiaffo e il mio cuore perse un battito.
Dimenticando la spossatezza mi trascinai vicino
a lei. Non dava segni di vita.
Le cercai le pulsazioni sul bianco collo esile
e le trovai. Seppur in modo appena percettibile, il suo cuore batteva. Era
svenuta, forse per la stanchezza o per il troppo stress subito a causa della
morte del marito e a tutte le disavventure vissute da quel momento.
Provai una grande pena per lei e il suo futuro
ma, nel contempo, tirai un sospiro di sollievo e mi apprestai a rianimarla con
piccoli schiaffetti gentili sulla sua mano.
Per qualche secondo ne studiai la reazione e percepii
il mio cuore carambolare nel petto. Avendo
l’opportunità di guardarla da vicino potei rendermi conto di quanto fosse giovane,
di quanto fosse indifesa in quel momento e di quanto fossero fini e delicati i
suoi lineamenti. Aveva una pelle di porcellana e labbra ben delineate, rosee…labbra
da baciare.
Solo allora realizzai la profondità del
sentimento che in quei giorni, era maturato per lei nel mio cuore. Non me ne
resi nemmeno conto, ma il mio volto si avvicinò pericolosamente al suo e mancò
un soffio che la mia bocca sfiorasse la sua.
In quel momento i suoi occhi si aprirono con un
battito di ciglia, come il frullo di ali di farfalla, e a me parve di annegarvi
dentro.
I suoi occhi mi parlavano con una dolcezza
infinita e io, in quei brevi istanti persi la mia anima in quella soave della splendida
creatura.
Lei, percepì tutta la mia emozione perché
arrossì, scostandosi, quindi nascose il suo sguardo in un gesto discreto abbassando
il bel volto.
«Come ti senti, mia signora?» le domandai con
premura.
Lei sorrise dolcemente: «Molto meglio,
comandante» sussurrò, con un filo di voce «Dev’essere stata la stanchezza.»
Annuii. Le sue guance stavano riprendendo colore e, rassicurato, ricambiai il suo sorriso. Poi mi ricomposi, tornando a essere il guerriero che ero ma, in una tacita promessa, le dedicai la mia devozione per sempre.
Tornai al mio posto e questa volta mi addormentai
con il suo sorriso impresso nella mente.
Con la notte l’oscurità piombò nella caverna.
Il fuoco che avevamo acceso per tenerci al caldo andò a smorzarsi lentamente,
senza che nessuno fosse in grado di ravvivarlo. Era come se ognuno di noi avesse
dovuto sostenere un furioso combattimento per un’intera giornata. Dormivamo
tutti e non ci rendemmo conto di quello che accedeva fuori.
All’esterno la bufera infuriò per molte ore e solo al mattino smise di nevicare.
Purtroppo, quando ci svegliammo, trovammo una brutta sorpresa.
Per proteggerci dalla bufera e dal vento
gelido, ci eravamo rifugiati in un anfratto, il più lontano possibile dall’ingresso.
Come capo spedizione avevo anche ritenuto inutile mettere un uomo di guardia,
anche perché eravamo tutti esausti e non era il caso.
Di conseguenza nessuno di noi si accorse che i
rumori della tempesta si attutivano perché l’ingresso veniva lentamente ostruito
da tonnellate di neve ghiacciata, fino a rimanere del tutto sigillato.
continua...
Racconto pubblicato nel 2012 da Garcia edizioni
immagini Phoneky e Pinterest
bellissima leggenda!
RispondiEliminaE' sempre un grandissimo piacere, vivere la speciale atmosfera, dei tuoi racconti fantasy...
RispondiEliminaBuona festività e un abbraccio, mia cara,silvia
Un bel racconto molto ben scritto e coinvolgente ricco di pathos e suspence. Molto apprezzato nella sua stesura. Un saluto cordiale. D.F.
RispondiEliminaMuy agradable disfrutar de tu relato.
RispondiEliminaTus letras son bellas.
Te deseo un feliz mes de Junio.
Un abrazo.
Molto bello e coinvolgente dall'inizio alla fine. Complimenti.
RispondiEliminaBellissimo e coinvolgente racconto che attrae il lettore. un caro saluto Vivì, grazia!
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