Nella
terra magica di Faerie, una giovane giumenta bianca galoppava disperatamente
nel tentativo di sfuggire ai suoi inseguitori. Correva dando il massimo e con
il rischio di farsi scoppiare il cuore, ma avvertiva di essere ormai al limite
delle forze e il peso che le gravava in grembo le impediva di mettere una
distanza di sicurezza tra lei e le creature maligne che la inseguivano.
Il
terrore e l’istinto di protezione che sentiva naturalmente verso la sua
creatura, la spingevano alla fuga, ma l’affanno e la stanchezza le suggerivano
che stava rischiando di perderla ugualmente. Difatti, erano iniziate le contrazioni e
questo poteva solo significare che il parto era vicino. Urgeva che riuscisse a
sfuggire alle belve demoniache che non le davano tregua e che trovasse un luogo
tranquillo e sicuro dove fare nascere il suo piccolo. Se non fosse riuscita a
mettere al mondo la sua creatura, la sua stirpe rischiava l’estinzione. Purtroppo, era una dei pochi esemplari della
sua specie sopravvissuta alla strage perpetrata per anni dalle forze del male.
La giumenta
apparteneva alla prodigiosa stirpe degli unicorni, creature al servizio della
magia bianca, in stretta collaborazione con le fate.
Era noto che fossero creature timide, schive, che non si lasciavano avvicinare dagli esseri umani ed evitavano in tutti i modi di entrarne in contatto. Nel contempo si sapeva che fossero creature forti, dal fisico possente, resistenti a ogni fatica. Al candido pelo e al lungo corno a torciglione che spiccava sulle loro fronti erano state attribuite erroneamente e per secoli alcune proprietà magiche, e per questo motivo la creatura era stato soggetta a una caccia spietata e, col passare del tempo, la sua splendida razza era arrivata a contare poche decine di esemplari.
I dubbi
sulla sopravvivenza della specie erano molti nel mondo magico di Faerie. Se
anche il piccolo fosse riuscito a nascere e a crescere sano e robusto, ma
soprattutto libero, una volta adulto avrebbe mai trovato una compagna?
Era un
dubbio plausibile, ma questo non avrebbe impedito alla giovane mamma di cercare
in tutti i modi di salvare il suo puledro e nemmeno avrebbe mai permesso che venisse catturato vivo
e trasformato in una di quelle creature alate, nere come la pece e malvagie che
si vedevano sfrecciare nel cielo.
Creature
del male, dal sangue infettato e maligne anch'esse.
La
giovane giumenta, seppure dilaniata dalla sofferenza, se lo era ripromesso e in
alternativa alla prigionia e alla schiavitù era disposta anche a sacrificare la
propria creatura facendola precipitare nel limbo del nulla. Un luogo senza tempo, privo di vita ma anche
di morte, dove tutto era sommerso da una nebbia eterna, dove non esisteva
realtà ma nemmeno sogni, dove non esisteva futuro.
Una fitta
lancinante le trapassò in quell’istante il ventre, lasciandola senza fiato. La fuggitiva
intuì che era arrivato il momento. Quella corsa a perdifiato aveva anticipato
il travaglio e occorreva trovare al più presto un rifugio. Tuttavia, l’ultima
doglia le aveva fatto perdere terreno e ora si trovava a poca distanza dagli
inseguitori, tanto che le pareva quasi di sentirne il fiato sul collo. La
femmina di unicorno osò dare una sbirciata indietro, e fu proprio in quel
momento che una delle creature malvagie riuscì a sfiorarla.
Lei ne
intravide appena la sagoma terrificante. Appartenevano alla razza delle arpie e
l’avevano raggiunta un istante prima degli altri inseguitori. Era talmente
terrorizzata che non avvertì dolore al tocco degli artigli, ma forse non si
accorse nemmeno di essere stata graffiata.
Era bastato intravedere le figure delle inseguitrici perché nei suoi
occhi sbarrati vibrasse un orrore senza infinito.
Eppure,
fu quello stesso terrore che le alimentò nuovo vigore spronandola ad
accelerare.
La giumenta dimenticò il dolore del travaglio, la stanchezza e il martellare del cuore nel petto. Con un ultimo, prodigioso balzo in avanti aumentò le falcate e galoppò via divorando il terreno e lasciandosi alle spalle lo strepito e le strida degli inseguitori.
L’incontro
con la silfide
Era
riuscita a lasciarsi dietro la cacofonia di strida selvagge, ma ora doveva
trovare in fretta un riparo per poter partorire al sicuro.
La
femmina era molto giovane e al suo primo travaglio, e per questo motivo del
tutto inesperta e molto spaventata, oltre che stremata. Arrivata ai margini di
una foresta, vi si addentrò senza indugio, anche se consapevole che fitta selva
di rovi e di felci poteva anche nascondersi qualche belva affamata in attesa di
preda.
I suoi fianchi
sussultarono con un tremito convulso, mentre si aggirava sempre più trafelata
in cerca di rifugio. All’improvviso avvertì qualcosa d’indefinibile nell’aria e
s’immobilizzò. Tese i sensi allo spasimo
dilatando le froge e annusando, scrutando intorno attentamente.
I suoi
occhi rotearono dal terrore di veder apparire altre creature malvagie ma il
bosco, la natura intera, tutto sembrava cristallizzato, come in attesa di
qualche evento straordinario. La giumenta divenne sempre più nervosa. Nessun
richiamo e nemmeno un alito di vento a smuovere le fronde.
Avvertì
un fruscio, forse un sussurro. Qualcuno la stava chiamando e lei quasi
dimenticò la paura. Si trattava di un canto dolcissimo, una
melodia, un invito allettante. Che fosse una trappola? Come avrebbe potuto
essere così soave?
Ormai al limite delle forze, si arrese e, come
attirata da fili invisibili, si trovò costretta a seguire la scia di quella
nenia dolcissima.
Così, tra
l’intreccio di fronde e di rami, la intravide.
Era
bellissima! Una silfide. Una creatura arcana nata dalla stessa magia benefica a
cui apparteneva anche l’unicorno. La fanciulla, perché questo sembrava, volteggiava
con grazia coperta da una veste impalpabile lunga fino ai piedi. Danzava senza
staccare gli occhi di dosso alla femmina in affanno e invitandola con i gesti. Leggiadra, talmente diafana da poter sembrare
evanescente e dalle movenze ipnotiche che la invitavano a non aver paura e ad
avvicinarsi. «Vieni con me, Danae. Seguimi.» cantavano le note della melodia,
mentre le labbra della silfide rimanevano dischiuse in un sorriso dolcissimo.
Sentirsi
chiamare per nome, con quella tonalità così soave, era un invito a cui la
giumenta non seppe resistere e, in modo remissivo, seguì l’incantevole
creatura.
Danae rimase ammaliata dal canto della silfide e dimenticò la stanchezza.
In pochi
minuti, si trovarono in un posto fiabesco. L'acqua del ruscello scorreva così
quietamente da provocare appena un suono argentino e un leggero fruscio; refoli
gentili di vento facevano stormire le fronde e le cullavano nell'aria, facendo
danzare tante belle spore dorate. A Danae sembrò nevicasse un pulviscolo
prezioso.
Presa
dalla malia del luogo decise che quello fosse il posto giusto per partorire la
sua creatura e il suo animo si rasserenò, quindi si stese su un fianco.
La
graziosa fanciulla, che si chiamava Chrisell, le s'avvicinò, sorridendo
all’animale sofferente.
«Permettimi
di aiutarti e lenire il tuo dolore, Danae!» le sussurrò con dolcezza e la
femmina socchiuse gli occhi abbandonandosi a quelle mani minute che iniziarono
a carezzarle il ventre gonfio e contratto. Il sollievo fu immediato ma non durò
a lungo. Le contrazioni aumentarono e, assalita da una fitta atroce, iniziò a
tremare in modo convulso.
Eppure,
bastava la vicinanza della silfide, le sue mani delicate e il canto appena
appena sussurrato per alleviare un po’ il dolore e donarle conforto. Danae
ringraziò le stelle per averle offerto quel magico incontro. Almeno non era più
sola ad affrontare quel drammatico momento.
La natura
fece il suo corso moltiplicando le contrazioni e rendendo sempre più affannoso
il respiro della partoriente, che serrò gli occhi cercando di spingere con
tutte le sue forze; all'ennesima contrazione, finalmente il piccolo venne alla
luce. La silfide lo accolse amorevolmente tra le sue mani.
Seppur
esausta, la madre guardò la giovane che l'aveva assistita con gratitudine, poi,
sollevando il collo, si protese con le labbra vellutate a leccare il suo
cucciolo, ripulendolo amorevolmente. Quindi iniziò a sospingerlo con
delicatezza, dandogli piccoli colpetti col muso e stimolandolo così ad alzarsi.
Rabbrividendo, il piccolo cercò di sollevarsi sulle vacillanti ed esili
zampette, e dopo svariati tentativi e tentennamenti, finalmente riuscì a
rimanere con orgoglio ben ritto sulle zampette, tese spasmodicamente sul
terreno. La madre lo osservava con quei due grandi occhi stanchi, soddisfatta
di aver messo al mondo quel piccolo così sano, così vispo e così bello. Scambiò
un’ultima occhiata con la silfide.
“Prenditi
cura del mio piccolo, ti prego!” supplicavano quegli occhi, ormai velati di
lacrime e di gelida oscurità.
Chrisell
annuì in quel suo modo soave «Vai e galoppa serena per la Celeste Prateria. La tua creatura è al sicuro.» le disse, continuando
ad accarezzarla, fino a quando con un ultimo sospiro la femmina di unicorno
morì.
Chrisell pianse,
sfiorando con tenerezza il muso vellutato, quindi rivolse la sua attenzione
all’orfano. Come avrebbe fatto a mantenere la promessa appena fatta? Un
neonato, di qualunque specie aveva bisogno di cure assidue. Per lei non era
possibile accudire quel puledrino e occorreva trovare una balia che lo nutrisse
e che si occupasse a tempo pieno di lui.
Proprio
in quel momento il puledro abbassò il musetto in cerca delle mammelle della
madre e non trovando il liquido caldo e zuccherino a cui tanto aspirava, emise
un gemito sommesso. La giovane dovette costringere il piccolo a staccarsi,
strappandolo a viva forza dal corpo senza vita della giumenta. Ma il neonato non
voleva saperne di allontanarsi dall'odore così rassicurante del corpo impresso
nelle sue froge sin dai primi attimi di vita. La diafana creatura si vide
costretta a domandare l'aiuto delle sorelle. Intonò quindi il suo richiamo con
un canto melodioso che si espanse subito nell'aria e che, trasportato sulle ali
del vento, raggiunse le altre silfidi.
La radura in cui era avvenuto il parto venne
avvolta in un turbinio improvviso di foglie, petali e pulviscolo dorato, mentre
Chrisell e il neonato unicorno assistettero alla comparsa di un gruppo di silfidi.
L’aria si colmò delle voci argentine delle magiche creature, e subito fu un
intreccio di sussurri e di risatine gioiose, mentre le esili fanciulle volteggiavano
graziosamente intorno a Chrisell e al suo protetto.
«Che è
accaduto, Chrisell?» domandò Shaila, quella che tra loro sembrava la più
anziana rivolgendo uno sguardo colmo di malinconia verso il corpo esanime della
giumenta.
«Si è
appena conclusa una terrificante disgrazia. Non ho potuto fare nulla per
salvarla» rispose «Ma ora mi occorre il vostro aiuto, sorelle. Ho promesso alla madre che non avrei
abbandonato il suo piccolo e adesso non so come fare. Datemi un consiglio, vi
prego!»
«Occorre
innanzitutto trovare una balia per questa creatura, altrimenti morirà di fame.
Quando avremo risolto questo, discuteremo quello che sarà meglio per lui»
rispose Shaila, con tono assennato.
Chrisell
tirò un sospiro di sollievo. Essendosi ritrovata completamente sola ad
affrontare quell’emergenza, aveva passato ore ed ore colme di ansia e inquietudine.
Ma adesso finalmente poteva rilassarsi, perché le sue sorelle l’avrebbero
aiutata a risolvere quel grosso problema. Per fortuna il bosco era colmo di
creature che avevano da poco partorito, e per le silfidi non fu difficile
trovare una balia per il piccolo. Shaila scelse una cerva dagli occhi dolci e
dal temperamento mite. Nel momento in cui la giovane madre stava allattando il
suo cerbiatto le avvicinò il piccolo e, con il suo fare soave, la convinse a
nutrire anche l’orfano.
Il
neonato esitò solo un istante, poi, appena le minuscole froge si colmarono
dell'invitante odore di latte, s'attaccò, suggendo voracemente.
Un
incantesimo
Chrisell non
aveva smesso un istante di pensare a come sistemare in modo definitivo il
puledro; si era accorta sin dai primi momenti di vita che era stato contagiato
dal sangue materno. Evidentemente, la giumenta, presa com'era dall’impeto della
precipitosa fuga, non si era resa conto di essere stata ferita da una delle
arpie, che Chrisell sapeva fosse una specie velenosa. Con gli artigli, il
malefico uccello le aveva inoculato il veleno infettando poi anche il sangue
del suo puledro.
La
silfide aveva chiesto aiuto alle sorelle omettendo quel particolare perché se lo
avessero saputo il piccolo unicorno sarebbe stato condannato a morire.
“Come
fare?” Quella domanda era diventata ossessiva per l'eterea ragazza. Si
arrovellava nei suoi dubbi e nelle sue paure. Doveva trovare una soluzione prima che le
altre scoprissero la verità. Si sentiva in obbligo di farlo perché, oltre a
essersi affezionata al cucciolo, aveva anche promesso a sua madre che avrebbe
badato a lui.
Il
pensiero della Dama del bosco, sovrana del regno del bene, sempre gentile e
disponibile come insegnante di magia, nonché prodiga di buoni consigli, le
balenò nella mente, e Chrisell si affrettò a raggiungerla nella sua dimora
abituale, con il puledro al seguito.
«Qual
buon vento ti porta da me?» le domandò in tono dolce la fata, signora e padrona
di ogni angolo della foresta.
«Sono qui
per chiedere un consiglio, mia signora.»
La Dama Silvestre
scrutò con attenzione il puledro e scosse lievemente la testa.
«Suppongo
che si tratti dell’unicorno e mi dispiace doverti dire che il suo destino è
segnato.»
La
silfide rabbrividì. Quella risposta le colmò l’animo d’apprensione e presagi
funesti. Le visioni di morte e desolazione si moltiplicarono nella sua mente.
«Allora è
proprio vero che è condannato a morire?» riuscì a balbettare.
La
creatura magica annuì: «Lo vedi da te che è stato infettato e sai anche che il
veleno inoculato dagli artigli maligni non lascia scampo alcuno. Questo piccolo
è condannato a una terribile mutazione, e per evitare che possa spargere il
male nel resto del mondo, occorre che muoia.»
Gli occhi
di Chrisell si inondarono di lacrime. «Ma non è giusto! È così piccolo e
indifeso, senza nessuna colpa. Tu hai il potere della magia bianca tra le mani,
e se vuoi, puoi aiutarlo.» La fata del bosco guardò indulgente l'esile figura
di donna che con passione e determinazione perorava la causa del piccolo
cercando di salvarlo.
Silvestre
le aveva fatto da maestra, l’aveva guidata e sostenuta durante tutto il lungo e
difficoltoso tragitto dell’apprendimento. Chrisell era una delle allieve
migliori della fata, e si faceva apprezzare per le sue doti di umiltà e
schiettezza. La silfide era considerata da tutti una creatura briosa e nello
stesso tempo dolce, remissiva, e per queste sue peculiarità, la Dama l’aveva
presa a benvolere. Presa da un moto di tenerezza, le sorrise dolcemente dicendole:
«Io non ho l'autorità necessaria per interferire con ciò che è stato scritto
nel libro del destino. Tuttavia, posso cercare di fare in modo che lo stesso si
compia, tentando di limitarne le conseguenze.»
“Una risposta sibillina degna di una fata
maggiore” pensò la silfide, che però rimase in silenzio, in rispettosa attesa.
Silvestre
sorrise. Dal momento stesso in cui aveva visto arrivare l’eterea creatura con
al seguito il puledro aveva iniziato ad arrovellarsi per cercare una soluzione
adeguata, e forse adesso l’aveva trovata.
«Mia
piccola Chrisell» iniziò a dire con tono materno, «So che non lasceresti mai il
luogo magico in cui sei nata a cuor leggero; tuttavia, credo proprio che se
desideri veramente salvare questo cucciolo, tu ti debba sacrificare.»
La
silfide sgranò gli occhi, stupita e impaurita. Quale sacrificio le avrebbe
chiesto la fata? «Mi hai chiesto di aiutarti e non trovo altra soluzione che
proporti di accompagnare il piccolo nel mondo degli umani, dove credo possa
iniziare una nuova vita senza correre altri pericoli.»
Silvestre
lasciò che Chrisell assimilasse il concetto appena esposto, ma la silfide
continuava a rimanere immobile, come basita da quell’idea. Allora continuò: «Se sei disposta ad
assumerti questo onere, dovrò compiere un incantesimo che nasconda a tutti le
caratteristiche della sua razza, compreso il corno sulla sua fronte e la sua
natura magica. E ovviamente, anche il piccolo dovrà ignorare il fatto di essere
stato un unicorno. Quindi, dal momento stesso che pronuncerò la formula
dell’incantesimo, perderà non solo la memoria di quello che è stato, ma anche
qualsiasi istinto che possa rammentarglielo in qualche modo. Sei disposta ad affrontare tutte le
responsabilità che un simile viaggio prevede?»
Il
colorito della silfide, già di per sé abbastanza pallido, divenne terreo,
mentre la timida creatura dei boschi ritrovava appena il modo di rispondere:
«Il mondo degli umani? Ma non mi sono mai mossa da qui, non ho mai… lasciato
questo bosco e le mie sorelle! Il mondo degli umani è così alieno, così…
lontano! Come farò ad arrivarci?»
Il cuore di Silvestre palpitò dall’emozione.
L’atteggiamento timido e schivo della silfide la inteneriva, e se avesse
potuto, non l’avrebbe certo costretta a un tale sacrificio.
«Stai
tranquilla! Aprirò per voi un varco dal quale vi sarà possibile il passaggio
dal mondo arcano a quello del genere umano. Quando riterrai di aver trovato la
persona giusta per occuparsi del piccolo, potrai fare ritorno nella nostra
dimensione.»
Chrisell
emise un sospiro di rassegnazione e la fata le sorrise. «Non devi temere, cara.
Vedrai, non sarà difficile trovare una persona fidata. Inoltre, ti accompagnerò
io stessa al varco, e mi troverai lì ad attenderti al tuo ritorno.»
Lo
sguardo della giovane si posò con ansia dapprima sul puledro, quindi sulla
fata, e tirato un altro grosso respiro di rassegnazione, annuì. «Va bene, andrò.
E ti prometto che farò del mio meglio per portare a termine il compito che mi
hai affidato.»
«Brava
Chrisell! E io sono sicura che ci riuscirai!»
Fata
Silvestre non perse tempo e si concentrò, posando le mani sul candido collo
dell’unicorno, quindi mormorò la sua formula magica. L'incantesimo ebbe effetto
immediato; il piccolo corno a torciglione cominciò a ritrarsi fino a sparire,
la lunga criniera perse la sua lucidità e s'accorciò sfoltendosi, così come la
superba e ricca coda, che si ridusse a un misero spolverino. Del mitico e
bellissimo unicorno rimase solo il pelo candido, ma la fata affermò, decisa,
che ben presto anche quel candore sarebbe scomparso, lasciando il posto a un
manto nerissimo.
«Ora il
tuo piccolo amico è diventato agli occhi di tutti un cavallino. Ed è un compito
molto delicato quello che dovrai assolvere ora.
Conducilo sulla terra, e scegli con attenzione la persona che in futuro
se ne dovrà occupare. Il destino di questo puledro dipenderà dalla tua scelta.»
«Cercherò
di valutare bene prima di decidere» esclamò con fervore la giovane.
«Allora
posso procedere. Sei pronta ad affrontare il viaggio?» Il cuore della silfide
prese a battere in modo convulso. Il momento tanto temuto era arrivato.
Deglutì a
vuoto, mentre rispondeva: «Sono pronta!»
Se anche
rivelò una piccola esitazione, Silvestre non diede segno di essersene accorta.
«Bene!» disse, socchiudendo gli occhi e mormorando alcune parole misteriose.
Subito dopo, nel cielo limpidissimo fece la sua repentina comparsa un ponte
iridato che si estendeva davanti a loro all’infinito, fino all’orizzonte. La
donna più anziana prese per un braccio l’esile creatura. Chrisell posò con
delicatezza una mano sul collo del piccolo unicorno, che se ne stava docilmente
in attesa accanto a loro. Quindi,
mantenendo la promessa, la fata li accompagnò attraverso l’arcobaleno, sino al
portale che si era spalancato e che permetteva il passaggio tra i due
differenti mondi.
La
giovane ebbe la sensazione di camminare sulle nuvole e sorrise, lieta delle
sensazioni percepite. L’incredibile, magico sentiero aveva una consistenza
morbida sotto i suoi piedini nudi, e lei, ormai ammaliata dalla spettacolarità
dell’evento, riusciva a vedere il mondo sottostante attraverso la trasparenza e
l’iridescenza dei colori acquarello.
Camminarono
per qualche minuto, immersi nel silenzio maestoso della natura, rotto solo dal
sibilo del vento. Il varco si stagliò davanti a loro all’improvviso, sempre più
vicino e minaccioso, e Chrisell lo guardò con apprensione; quell’enorme antro
oscuro le apparve simile alle fauci
spalancate di un gigante.
La fata
si avvide dell’esitazione della silfide e le sorrise per esortarla a varcare la
soglia. «Coraggio! Non è poi tanto terribile come sembra. È una questione di
attimi, e fatti pochi passi ti ritroverai dall’altra parte. Vai, il portale non
rimarrà aperto a lungo.»
«E se
restassi prigioniera di là?» domandò, sgranando gli occhi, quasi fulminata
dalla terrificante prospettiva.
«Stai
tranquilla! Non accadrà se smetti di agitarti e di rimandare l’ingresso. Il
portale si chiuderà dopo il tuo passaggio, ma basterà che tu mi mandi un
messaggio mentale quando avrai svolto la missione e vorrai tornare.»
L’esile
fanciulla emise un sospiro profondo, quindi si congedò ringraziando: «Io e il
piccolo ti siamo profondamente grati.»
«È stato
fortunato a incontrare te! Ti deve la vita due volte. E ora vai! Al tuo ritorno
mi ritroverai qui, come promesso. Che la luce della saggezza illumini sempre i
sentieri della tua vita, Chrisell!»
«E anche
i tuoi! Arrivederci, Dama del bosco!»
La scelta
Appena
superata la fatidica soglia, la silfide venne inghiottita dall’oscurità in cui
il misterioso antro era immerso. Il transito attraverso il varco non fu
particolarmente traumatico, mentre il piccolo, forse, non si rese nemmeno conto
di quello che accadeva intorno a lui.
Dama
Silvestre aveva ragione: il tragitto durò soltanto una manciata di secondi,
comunque lunghi come una vita intera per Chrisell, che avanzava con passo
tentennante, intimorita dall’ignoto che incombeva e la circondava come una
cappa glaciale, mentre si aspettava di venire aggredita da un momento all’altro
da qualche creatura mostruosa. Per fortuna i suoi timori rimasero infondati, e
in breve i due viaggiatori temporali furono fuori da quell’incubo.
Quando
arrivò nella dimensione terrena, la diafana fanciulla emise un profondo sospiro
di sollievo, ma subito dopo venne prese dalla smania di sbrigarsi. Quel luogo
sconosciuto non le piaceva, vedeva pericoli in agguato dappertutto. Si mise quindi alla ricerca di un rifugio
sicuro, dove poter lasciare in tutta tranquillità il puledro. «Stai tranquillo,
tornerò presto!» gli sussurrò, accarezzandolo sul muso vellutato, ancora
incredula per quella trasformazione che aveva del sensazionale.
Avrebbe
sfidato chiunque a riconoscere in quel cavallino uno degli ultimi unicorni
esistenti. “Eppure il manto si mantiene morbido!” rifletté, facendo scorrere
più volte il palmo della mano sui fianchi già pronunciati del piccolo. Li sentì
fremere sotto il suo tocco, e per un attimo compianse l'amaro destino di quella
magica creatura, costretta dal male a ignorare per tutta la vita la vera natura
della sua essenza. Sarebbe stato obbligato per sempre a vivere in una
condizione e in un ambiente che non erano i suoi.
Perlomeno,
rifletté Chrisell, in quest’altra dimensione il puledro era al sicuro e aveva
salva la vita. E il veleno? La Dama del bosco se n'era forse dimenticata? No di
certo! Che sciocca! Il veleno trasmesso con il sangue della madre era stato di
sicuro neutralizzato con l'incantesimo. La silfide se lo augurò di cuore per il
cucciolo, quindi cercò di scacciare quel pensiero molesto e si mise alla
ricerca della persona giusta.
Non
poteva prevedere, la piccola silfide, quale destino crudele attendesse il suo
protetto. A Chrisell parve che il tempo trascorresse in modo molto veloce,
assai diverso rispetto alla dimensione arcana.
A volte si soffermava ad ammirare le bellezze che la circondavano,
pensando che alcune analogie vi erano di certo; tuttavia, rispetto al suo
mondo, quello in cui si trovava era senza dubbio più caotico.
Ebbe
inizio una ricerca sistematica che la vide attraversare montagne, laghi e
distese sterminate. Il suo non si poteva definire un classico viaggio
effettuato fisicamente e con enorme dispendio di energie, ma si trattava comunque
di lunghe e approfondite escursioni mentali, durante le quali la giovane si
stancava ugualmente. Quando aveva accettato l’incarico della Dama Silvestre,
non immaginava certo che sarebbe stato così gravoso e nemmeno che sarebbe stata
la somma dei casi, per così dire fortuiti, a stabilire che la strada del
piccolo unicorno e quella di Mark, il giovane sul quale sarebbe caduta la sua
scelta, s’incrociassero.
Nel
momento stesso in cui vide il ragazzo, la silfide intuì che quella era la
persona giusta. Non seppe spiegarsene il motivo, ma tra lei e quell’essere
umano intercorse subito una forte empatia.
Lei gli
sorrise e lui rimase incantato.
«Chi
sei?» le domandò squadrando la figura sin troppo snella di quella fanciulla dai
lunghi capelli corvini, la pelle candida come il latte e i piedini nudi apparsa
all’improvviso, come dal nulla.
Chrisell
si meravigliò di capirne il linguaggio e nello stesso tempo si sentì arrossire
sotto lo sguardo indagatore di quel giovane aitante. La veste impalpabile che
lei indossava celava a malapena le forme acerbe eppure femminili, e un refolo
di vento assai dispettoso le gonfiava e le sollevava i lembi della sottana
mettendo a nudo le lunghe gambe affusolate, idonee alla danza.
Mark
seguì con attenzione i movimenti della veste, e la silfide faticò non poco per
combattere la volubilità della brezza.
«Mi
chiamo Chrisell.» riuscì a rispondere con lo stesso idioma ma cercando di
riportare l’attenzione del giovane altrove. Quel ragazzo aveva uno sguardo
indagatore che le trapassava l’anima.
Il tentativo di distrarlo le riuscì, perché
ora Mark la guardava negli occhi.
«I tuoi
occhi sono splendidi. Hanno lo stesso colore di un lago di montagna o quello
verde smeraldo di un prato a primavera» sussurrò, ammaliato dal suo sguardo.
Le lunghe
ciglia di Chrisell palpitarono e s’abbassarono, nascondendo al ragazzo la
confusione e il compiacimento. Che cosa le stava accadendo? Non si era mai
sentita così imbarazzata. Eppure, quel giovane dallo sguardo immenso e glaciale
per la chiarezza delle iridi, e dal ciuffo ribelle e ricciuto, le piaceva e la
confondeva in un modo da farle battere forte il cuore nel petto.
Mark
sorrise, lui stesso a disagio. Fino a quel momento non aveva mai trovato il
coraggio di parlare così a una coetanea. Nessuna, tra le tante che conosceva,
lo aveva mai stimolato o invogliato a dialogare, mentre Chrisell lo incuriosiva
a tal punto da desiderare di saperne qualcosa in più: «Io mi chiamo Mark, ma tu
da dove vieni? Non ti ho mai vista da queste parti.»
Lei non
si seppe trattenere e si lasciò andare in una graziosa piroetta, come del resto
era nella sua indole, e lui la guardò stupito.
«Sei una
ballerina!» affermò, ammirato. Chrisell si rammaricò con se stessa per non
essere riuscita a contrastare il proprio istinto. Ma come avrebbe potuto? La
danza era nel Dna delle silfidi, considerate da molti come le danzatrici
ieratiche dei boschi. Per cui, quando affermò: «Sì, hai visto giusto. Sono una
ballerina» non si sentì per nulla in colpa per quella piccola distorsione della
verità.
Quasi
senza nemmeno rendersene conto, i due si avviarono insieme e, camminando,
parlarono e parlarono senza mai fermarsi. A un certo punto si trovarono con le
mani allacciate, ridendo e scherzando come due vecchi amici. Mark si ritrovò
innamorato all’istante di quella ragazza così diafana, così spontanea e così
argentina, e a Chrisell accadde la stessa cosa. Tuttavia, la silfide fu
consapevole sin dal primo momento che quello non era un amore possibile:
compiuta la propria missione avrebbe fatto ritorno nella sua dimensione e lei e
Mark non si sarebbero mai più rivisti. Ma per il momento, decise di godersi
ogni istante di quel sorprendente e dolce incontro. Distorcendo appena la
verità, gli raccontò del cavallino rinvenuto presso il corpo esanime della
giumenta, morta in seguito a un parto assai travagliato.
«Posso
vederlo? Dov’è?» chiese Mark, subito interessato alla sorte del puledro.
«Certo!»
rispose lei, guidandolo verso il luogo in cui aveva lasciato il puledro, in
cuor suo molto soddisfatta.
«È
buffo!» esclamò lui quando vide il cavallino «E com’è piccolo! Vorrei tanto
poterlo tenere e occuparmi di lui.»
«Io non
saprei dove metterlo. Se vuoi è tuo, Mark!»
Lui la guardò preoccupato: «Ma non so; forse
dovrei chiederlo prima al padrone. Sai, io lavoro in un allevamento di cavalli
e non saprei…» concluse, esitando.
«Facciamo
così: me lo tieni per qualche giorno, e poi, quando avrò trovato una buona
sistemazione, se non potrai tenerlo verrò a riprenderlo» mentì Chrisell, quindi
arrossì e volse il viso da un’altra parte.
«Va bene. Per il momento lo tengo io, poi si
vedrà»
La
silfide sospirò di sollievo. Ancora una volta, l’istinto che l’aveva guidata
verso quel ragazzo si era rivelato giusto. Mark le aveva ispirato tanta
simpatia e fiducia sin dal primo momento in cui l’aveva visto e, considerato
l’amore che aveva per i cavalli, sembrava la persona più adatta a prendersi
cura del piccolo orfano. I due passarono ancora un po’ di ore insieme, quindi
Chrisell, seppur a malincuore, decise che era arrivato il tempo di tornare. Era
sicura di aver fatto la scelta giusta.
Per l’unicorno sarebbe iniziata una nuova vita, e con Mark sarebbe stato
in buone mani.
Si
congedò dal giovane con un lungo e appassionato abbraccio, senza peraltro
confessargli che non si sarebbero più rivisti. Ormai fuori vista, Chrisell fece
un piccolo incantesimo, cancellando dalla memoria dell’amico il loro incontro,
quindi abbandonò in punta di piedi, così come vi era entrata, il mondo degli
umani.
Una nuova
vita
Mark
lavorava come stalliere presso una grande tenuta in cui si allevavano cavalli
da corsa. Il padrone, un uomo facoltoso, commerciava nella loro compravendita.
Mark era
un ragazzo di bell'aspetto. I capelli folti, castani, appena mossi, e gli occhi
tanto azzurri che spiccavano su quel volto dai tratti regolari, eternamente
abbronzato per via della vita che conduceva all’aria aperta. Il ragazzo pensava di essere stato fortunato
nel trovare quel lavoro che gli piaceva tanto e che gli permetteva di passare
intere giornate a contatto con i suoi amici animali. Amava i cavalli, aveva
sempre pensato che non esistessero animali più intelligenti e più fieri. Aveva
una cura estrema nell'occuparsene; passava ore a strigliarli, parlando e
sussurrando loro paroline dolci, in modo particolare a quelli più scontrosi,
avvezzi a fare continue bizze. Inoltre, non faceva mai mancare a nessuno
qualche piccola leccornia: una mela succosa, uno zuccherino, una carota, e loro
lo ripagavano con una devozione senza pari. Quando il ragazzo entrava nelle
stalle zufolando un motivetto allegro, ecco che rizzavano le orecchie
scalpitando nell'attesa di una carezza o di un’attenzione, quindi lui li
accompagnava fuori, nei grandi recinti costruiti appositamente per
l’addestramento e lo svago. Proprio come quel mattino.
Stava
conducendo per le briglie uno degli ultimi cavalli, quando la sua attenzione
venne attirata da un nitrito sommesso. Si volse e rimase stupito; quel puledro
era nuovo, non l’aveva mai visto prima. Il ricordo del magico incontro con la
silfide era stato relegato in un angolo della sua mente e del cuore, disgiunto
dal ricordo del cavallino affidatogli da lei. Quell’evento si era dissolto come
neve al sole, senza che il ragazzo se ne rendesse conto.
Il
puledro non aveva certo un bell'aspetto, basso e tozzo com'era. Sembrava più un
cavallo da tiro che da corsa. E già quel particolare gli parve strano. Dubitava
che il padrone delle scuderie potesse aver portato a termine un acquisto così
maldestro. Eppure Mark si avvicinò con premura al cavallino, che appena lo vide
lo guardò spalancandogli in viso i suoi occhioni miti. “Da dove sei arrivato?”
si domandò tra sé. “Sono sicuro che ieri
sera non c'eri! E nemmeno nelle stalle quando ho iniziato il mio turno. Chi ti
ha portato? Non certo il padrone! Non avrebbe mai voluto nelle sue stalle un
esemplare così goffo e sgraziato!” Il ragazzo decise che avrebbe indagato
appena avesse avuto tempo, e che per il momento, quel cavallino aveva solo
bisogno di una bella strigliata. Lo rinchiuse quindi con gli altri puledri e
continuò la sua giornata di lavoro.
Il
piccolo era stato accolto dagli altri cavalli, dapprima con stupore, poi con la
massima diffidenza. L'incantesimo al quale era stato sottoposto aveva effetto
solo sugli umani e sulle creature del male; gli animali continuavano a vederlo
come un magnifico puledro di unicorno, come in effetti era. E diffidavano tutti
sia della sua bellezza, che del magnifico corno che già spiccava come un
piccolo baluardo sulla sua fronte.
Dopo
pochi minuti, Mark, armato di secchio e di spazzola, iniziò a strigliare il
manto grigio topo del cavallino, prendendo a parlargli dolcemente com’era sua
abitudine fare. «Ehi, piccolo ce l’hai un nome? No? Allora bisogna rimediare!
Vediamo… uhm. Ricordo che un giorno lessi una fiaba che parlava di un magnifico
stallone bianco. Si chiamava Gylldor. Naturalmente tu sei l'esatto contrario di
lui, ma sono sicuro che saprai portare quel nome con altrettanta fierezza.»
Il
ragazzo s’avvide immediatamente, sin dalle prime strigliate, che in quel
puledro vi era qualcosa di strano. Mentre passava il guanto su uno dei fianchi
avvertì al tatto una piccola depressione che non avrebbe dovuto esserci. “Cosa
può essere? Forse una cicatrice. Ma che strano!” e quando trovò la stessa
depressione nel punto corrispondente sull'altro fianco, si fermò interdetto.
“La
stessa identica ferita! Com’è possibile?” In quel momento la cosa risultò
essere un mistero insolubile, quindi, scrollate le spalle, continuò il suo
lavoro. Tuttavia, ebbe la stessa, identica sensazione nel momento in cui la sua
mano sentì una piccola protuberanza molto dura sulla fronte.
Mark, che
non vedeva nulla di anomalo, passò e ripassò la mano sulla testa di Gylldor, ma
dovette rinunciare a capire e anche quello rimase un mistero inesplicabile.
«Chi sei tu, cavallino? O meglio, cosa sei?» domandò, piazzandosi deciso
davanti al puledro. Quegli occhi lo turbarono. Oltre ad avere un bel colore
ambrato, erano enormi, liquidi e sostenevano lo sguardo di Mark con altrettanta
intensità. Il giovane si mosse a disagio: quegli occhi parlavano, trasmettevano
una forte, inspiegabile emozione e sembravano rispondere: Non so cosa sono. Ma so cosa vorrei essere. Uno stallone magnifico e
volare sulle ali del vento.
Scosso
dalla strampalata sensazione, Mark sorrise nervosamente. Aveva sempre intuito
al volo ogni desiderio, ogni bisogno dei cavalli a lui affidati, ma era la
prima volta in assoluto che aveva l’impressione di udire risuonare la voce di
uno di loro nella sua mente. Cercò di riscuotersi dalla strana malia che lo
aveva preso, dandosi dello sciocco. Distolse lo sguardo e, in silenzio, riprese
a strigliare quel manto con lena.
Dopo un
po’ fece il suo inaspettato arrivo il padrone della tenuta, il quale con
decisione si diresse verso i recinti. «Ehilà, ragazzo! Che mi racconti di
nuovo?»
“Chissà
perché si ostina a chiamarmi ragazzo ignorando il mio nome” pensò con lieve
disappunto Mark. «Buongiorno signore!» salutò, mostrando comunque indifferenza
e rispetto verso il proprietario. «Durante la sua assenza sono nati due
magnifici puledri.» «Bene! Bene!» ripeté l’uomo soddisfatto, carezzando il
manto pomellato dello stallone che Mark stava strigliando. «Magnifico
esemplare!» esclamò con orgoglio, quindi proseguì: «Appena finito questo lavoro
me li mostrerai.»
«Ma ecco,
signore. Riguardo invece quel puledro grigio, volevo dirle…»
«Di quale
puledro grigio stai parlando?»
«Quello
arrivato stamattina, signore!»
«Stai
vaneggiando, ragazzo? Oltre i due nati durante la mia assenza ne è arrivato un
altro? E chi lo avrebbe portato?»
Il
giovane spalancò uno sguardo meravigliato sul suo datore di lavoro, «Come, lei
non sa nulla?»
«Insomma!»
sbottò spazientito l’uomo «Giochiamo agli indovinelli? Fammi vedere questo
puledro!»
Mark
indicò il recinto dove venivano raccolti tutti i nuovi nati e le loro madri.
«L’ho messo nel recinto insieme agli altri, signore, ma ho notato che è rimasto
in disparte per tutto il tempo» disse, scortando il padrone visibilmente
contrariato.
«Non ci
posso credere! Da dove è venuto quel… quell’asino!» sbraitò l’uomo, livido di
rabbia «Chi l'ha portato qua?» continuò, non osando nemmeno avvicinarsi al
puledro mite e solitario, come se provasse ribrezzo.
Investito
dall’improvviso scatto d’ira, Mark riuscì appena a balbettare una risposta:
«No, no signore! È brutto certo, ma non è un asino! E io l'ho trovato qui
stamattina.»
«Ma
cos'è, uno scherzo, forse? O mi stai prendendo in giro?»
«Io non
ne so nulla!» si discolpò il ragazzo, sempre più confuso.
«Non sai
nulla, eh? E chi dovrebbe saperlo? Sei tu il responsabile di queste stalle!» lo
accusò l’uomo, ormai furibondo. Mark indietreggiò, intimidito, quasi che
temesse di venire aggredito. Ma non
accadde. Il padrone strinse i pugni e contrasse la mascella, dominandosi:
«Allora, senti bene quello che ti dico! Quel somaro deve sparire dalle mie
stalle. Non è ammissibile che quella stupida bestia divida il box con i miei
campioni purosangue. Deve ritornare nella stalla fetida dalla quale è venuto.
Non voglio più vederlo qui! Mai più! Siamo intesi?»
Quell’ingiusta
esplosione di collera servì solo a mortificare ulteriormente il giovane
stalliere, che se ne rimase immobile, del tutto incapace di reagire. Non era
mai stato sgridato, anzi, per la verità era anche la prima volta che veniva
ripreso da quando lavorava lì, e in quel momento decise che quella sarebbe
stata anche l’ultima.
«Va bene,
signore» riuscì a mormorare, quindi, sotto lo sguardo truce dell’uomo, si
diresse a testa bassa verso il puledro e, afferratolo per la cavezza, lo guidò
fuori dalla tenuta.
«Cosa ne
faccio di te ora? Dove ti porto?» domandò Mark più a se stesso che al
cavallino. Tienimi con te, ragazzo! Non
so proprio dove potrei andare.
Il
giovane stalliere s’immobilizzò pietrificato. Aveva udito realmente quella voce
che bisbigliava nella sua mente, o era uno scherzo dovuto ai suoi nervi
tesi? Si guardò intorno alla ricerca di
una spiegazione plausibile, ma i dintorni era deserti e non tirava nemmeno un
refolo di vento che potesse giustificare l’insolita sensazione appena provata.
Allora tornò a scrutare il piccolo e si smarrì nuovamente in quello sguardo
liquido e oltremodo mite. «Davvero non so cosa fare con te. Il padrone si è
sbrigato a dire che non ti vuole più vedere. Ora il problema è tutto mio. Dove
ti porto?» E ancora una volta una voce si fece largo tra i suoi cupi pensieri.
Tienimi con te. Non ti darò fastidio. Sono
buono e ubbidirò a tutti i tuoi comandi. Non mi abbandonare per la strada, ti
prego!
Esterrefatto
da quanto stava accadendo, Mark spalancò la bocca: «Non ci posso credere; tu…
tu parli?»
Parlare? No, ragazzo! Io non posso parlare.
Però ti posso capire, così come tu capisci me. È proprio così che comunichiamo,
per un'intesa reciproca.
«No! Sto
solo vagheggiando! Non è possibile una cosa del genere!»
Tienimi con te! ripeté Gylldor con accento tremulo, Sarò anche molto brutto, ma sono forte e, soprattutto, sono buono.
«Ma
allora non sto sognando! Questo è un prodigio!
Noi due ci intendiamo davvero!» esclamò con tono entusiasta il giovane
stalliere.
Sì! Noi due ci intendiamo e diventeremo grandi
amici se rimarremo insieme. rimarcò il cavallino.
Mark esitò. La gioia appena provata per quella sensazionale scoperta passò in
fretta. Ora non sapeva che fare. Prese a
passeggiare nervosamente attorno al puledro; ogni pochi passi si fermava
squadrandolo, si grattava la testa confuso, quindi riprendeva a camminargli
intorno, finché sbottò: «Ma dove ti metto? Hai sentito il padrone? Non ti vuole
più vedere!» esclamò afflitto. Ora si trovava in stato confusionale; era
combattuto tra la pena che provava e l'ordine del padrone che gli imponeva di
farlo sparire.
Gylldor
sembrò percepirne il disagio, poiché se ne stava quieto ad aspettare che
prendesse la sua decisione. Dopo aver fatto parecchi giri inutili attorno al
cavallino, finalmente il ragazzo si fermò: «Siamo d’accordo! Ma solo per
qualche giorno, però! Non posso rischiare di perdere questo lavoro e se ti
scoprissero ancora qui, non oso pensare alla reazione del padrone. Ti porterò
nelle vecchie stalle, quelle in fondo alla tenuta. Sono abbandonate da tempo e
credo che per un po’ potresti stare tranquillo. Poi decideremo il da farsi.»
Sei un bravo ragazzo! Sapevo che non mi avresti
abbandonato.
«E
speriamo che non debba mai pentirmene, Gylldor!»
Mark
sistemò il nuovo amico in una delle vecchie scuderie in disuso, gli procurò la
biada, dell’acqua fresca, e dopo averlo accudito, si allontanò. «Ci vediamo
domani. Fai il bravo, ti prego!» raccomandò, e il puledro lo salutò con un
sommesso nitrito.
continua...
Racconto pubblicato dalla MorganMiller edizioni
Immagini Phoneky
Amo los unicornios te mando un beso
RispondiEliminaNuovo racconto nuove avventure per un protagonista magico. Aspettiamo con trepidazione il seguito. Grande!
RispondiEliminaBel racconto colmo di magia
RispondiEliminaUn caro saluto
Giorgio
Veramente magico e si preannuncia un racconto molto intrigante. Forse i protagonisti sono più adatti a un pubblico molto giovane ma a me piacciono molto questi fantasy e soprattutto trovo magici unicorni e pregasi. Ti seguirò con attenzione. Giulia.
RispondiEliminaCara Fata delle Lettere: cosa dirvi..! non riesco nemmeno a spiegare
RispondiEliminaquanto queste scene mi scaldino il cuore.
Cosi puro e amorevole. Senza dubbio, uno dei migliori nella storia
del fantasy giovanile,
adoro che tutti abbiano ottenuto cio che volevano alla fine,
e il messaggio principale era che erano uniti e stasera...
si riapre il portale delle fate; cosi le avventure
piu emozionanti
continueranno!
Tanti baci e calorosi abbracci dal freddo inverno argentino.
Ho iniziato a leggere la prima parte. Devo dire un racconto che per il momento si sta dimostrando davvero coinvolgente. Sei molto brava nella scrittura e con i racconti fantastici. Mi dedicherò alla lettura delle altre parti perchè mi incuriosiscono tanto. I tuoi racconti ti invogliano a leggere. Brava.
RispondiEliminaMi sono appassionata alla storia della tua giumenta e anche se magari non riuscirò a lasciare i commenti per ogni puntata, di sicure le leggerò tutte.
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