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mercoledì 30 settembre 2020

Leggende bretoni: La scomparsa di Atlantide

                                                                                    


Tanto tanto tempo fa, una giovane e bella fanciulla, dagli splendidi occhi azzurri e dai bei modi garbati, viveva insieme ai genitori in un piccolo villaggio situato sulle coste della Bretagna.

Il suo nome era Arnaude.

Accadde che in un terrificante notte tempestosa una nave, che si trovava al largo e in grande difficoltà, cercando di mettersi al riparo dal mare in burrasca, finì per incagliarsi sugli scogli che emergevano lungo la costa frastagliata e proprio nel punto prospiciente la dimora della protagonista di questa antica leggenda.

Combattendo strenuamente con i marosi, i marinai riuscirono  a raggiungere a nuoto la riva e, alla fine, l'intero equipaggio dello sfortunato veliero si salvò. 

Gli abitanti del villaggio che assistettero al naufragio, all'inizio guardarono con sospetto quegli stranieri, di cui non capivano nemmeno la lingua.                    

Bastarono però i modi garbati e le palesi rassicurazioni del loro comandante, che dichiarò di essere il sultano di Atlantide, a tranquillizzare quella gente semplice e a convincerli a offrire a tutto l'equipaggio la loro ospitalità.

Il giorno dopo, la notizia dell’arrivo degli stranieri attirò l'attenzione di tutti gli abitanti, alcuni dei quali si resero disponibili e offrirono al sovrano la manodopera e il supporto necessari per riparare i danni riportati dalla nave, ancora incagliata saldamente alla scogliera.

Occorse un'intera giornata e gli sforzi congiunti di una trentina di persone ma, alla fine, il maestoso vascello venne liberato dalla morsa delle rocce appuntite e trascinato a riva, cosicché l'indomani poterono iniziare i lavori di restauro. 

La giovane Arnaude contribuì offrendo ai lavoratori ristoro con il latte, il miele e la frutta, che lei stessa si premurava di raccogliere dagli alberi.

In quei giorni, la sua dolcezza e le sue attenzioni, insieme alla limpidezza dei suoi occhi turchesi, finirono per conquistare il sultano, tanto che i due iniziarono a passare molto del loro tempo libero insieme.

Arnaude guidò lo straniero alla scoperta dei luoghi più suggestivi della sua terra. Entrambi impararono presto i rispettivi idiomi e lei poté narrargli le leggende tramandate dagli antenati e a insegnarli i richiami e i versi della fauna locale.

Il sultano si innamorò perdutamente della giovane e dopo pochi giorni la chiese in sposa.                    

Il loro matrimonio venne celebrato nella radura dei dolmen, tipico luogo di culto bretone realizzato con megaliti colossali di pietra  e venne benedetto da un anziano druido. I festeggiamenti con danze e banchetti vari durarono per ben sette giorni, ma la felicità dei due novelli sposi venne funestata dalla profezia di un mago, il quale lesse nelle stelle un nefasto presagio.

Ma i due erano in luna di miele e, troppo presi dal loro amore, dimenticarono presto la predizione e, non appena la nave fu in grado di riprendere il largo, partirono per Atlantide.

I venti favorevoli sospinsero la nave verso nuovi orizzonti e benché il viaggio fosse lungo, i due sposi lo vissero come una felice crociera e un giorno, Arnaude, salita sul pennone più alto con il suo innamorato, vide apparire la costa della sua nuova patria.            

Mentre il veliero si avvicinava, la giovane sposa rimase affascinata dal candore abbagliante della città, che risaltava nel turchese del mare e l'emozione la travolse. 

Arnaude si strinse al suo amore quindi, il suo sguardo colse, proprio sul colle più alto, la residenza reale.

L'arrivo dei giovani sposi avvenne tra due ali di folla accorsa ad acclamarli e a rendere omaggio alla nuova coppia reale.

Una nuova vita iniziò per Arnaude, che visse quel periodo come fosse una favola, ignara che una malefica nube oscura si stava addensando sulla sua bella storia d'amore.                                 

La leggenda narra che in una notte serena e durante una romantica passeggiata in riva al mare, una voce minacciosa irruppe sul loro incanto ricordando al sultano di aver violato la legge locale, che gli imponeva di prendere in sposa una dea di Atlantide. La voce tonante lo avvertì che, avendo contravvenuto all'obbligo, si era reso colpevole di aver suscitato l'ira degli dei e per questo, scatenato contro l'intera popolazione di Atlantide, la divina maledizione.

Inutilmente il sovrano invocò il perdono e la misericordia per la sua sposa e per la sua gente, gli dei non si impietosirono e sotto lo sguardo terrorizzato di  Arnaude, la terra iniziò a tremare e a sussultare in modo violento. Poi si spaccò e si aprirono profonde voragini, che tutto e tutti inghiottirono e in pochi minuti la catastrofe si compì.

Atlantide scomparve in una bolgia di flutti e terrificanti marosi e venne trascinata per sempre negli abissi marini.                   La leggenda     narra che tutti i suoi abitanti vennero trasformati in conchiglie.                  


Solo Arnaude si salvò e, aggrappata a un relitto, venne sospinta da un vento impetuoso verso il suo villaggio. Pare che gli dei l'avessero risparmiata affinché la fanciulla tramandasse in eterno la leggenda di Atlantide.

Arnaude non dimenticò mai la sua storia d'amore con l'esotico principe e il suo tragico epilogo, anzi, ne scrisse la storia e disegnò una cartina custodendo il tutto in uno scrigno.

Si narra che ogni settantacinque anni il misterioso continente riemerga dagli abissi e rimanga visibile per una notte intera.  

                                                     




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mercoledì 23 settembre 2020

La leggenda di Aracne

                                 

Aracne, detta anche Aragne, è una figura mitologica dell'antica letteratura greca. Si trattava di una bellissima e giovane donna che viveva a Colofone, nella Lidia.

Si narra che Aracne fosse un’abile tessitrice assai rinomata e stimata. I suoi manufatti erano di una bellezza e perfezione tali, da fare credere che fosse stata allieva della dea Atena, mentre la giovane, dimostrando molta baldanza, affermava il contrario.

Accadde che, un giorno, un’anziana signora si recò da Aracne per ammirarne i lavori e, conquistata dall'arte espressa dalla tessitrice, le consigliò di ritirare dal villaggio la sua blasfema vanteria, per non incorrere nella collera della divina Atena.

Aracne si rifiutò di ammettere di avere esagerato e calcò la mano dicendosi pronta ad affrontare un'eventuale sfida con la dea.

Davanti a tanta arroganza, Atena svestì le sembianze della vecchia signora e apparve alla fanciulla in tutto il suo divino splendore.

Gli occhi della dea fiammeggiarono di collera mentre decideva a quale punizione sottoporre la giovane tessitrice.

La leggenda narra che le due si studiarono con attenzione per alcuni minuti. Aracne, per nulla intimorita, sostenne con ardimento lo sguardo della dea e, il coraggio che dimostrò, convinse l’altra ad accettare la sfida.

Come soggetto per la sua tela, Aracne scelse gli amori e le passioni segrete degli dei mettendo in risalto le astuzie e ogni minimo sotterfugio, che essi perpetravano, per il raggiungimento dei loschi scopi.

Il risultato fu così perfetto e talmente irriverente, che Atena lo prese come un’offesa personale e si adirò tanto da strappare il capolavoro, riducendolo in brandelli e colpendo poi violentemente la giovane tessitrice con la sua spola.

Offesa e disperata, Aracne tentò il suicidio, ma Atena la salvò e non per pietà, ma per punirla in modo più efficace per tutti gli affronti e le offese, da lei subite, per colpa della giovane.

Aracne venne così trasformata in un ragno condannata a filare per tutta la vita e a vedere distrutto ogni suo lavoro dagli esseri umani.

                                                        



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sabato 19 settembre 2020

La leggenda del re Mida

 

La leggenda narra che Mida, re della Frigia e figlio della dea Cibele, passeggiando nei giardini del palazzo reale, ritrovò il vecchio satiro Sileno, precettore del dio Dioniso, che ubriaco fradicio, vagava con aria smarrita e senza meta.

Re Mida lo accolse a palazzo prendendosene cura e, quando il satiro si riprese dall'ubriacatura, lo riaccompagnò dal dio.

Dioniso, avendo creduto morto il suo mentore, fu talmente felice, da voler ricompensare il re, tanto da domandargli di esprimere un desiderio.

Re Mida rifletté un solo momento e poi chiese al dio di concedergli il potere di tramutare in oro tutto quello che da quel momento avrebbe toccato.            

Il dio esaudì il suo desiderio e re Mida si sentì davvero padrone del mondo mentre sperimentava il suo nuovo tocco magico. Ogni cosa, ogni oggetto che sfiorava, di qualsiasi materiale o natura fosse, si tramutava in oro.

Accadde prima con un rametto verde di leccio, quindi fu un sasso raccolto, poi fu la volta di una zolla di terra trasformata in pepita e alcune spighe di grano. Tutto si trasformò in oro puro, persino una mela che, si narra, fosse un dono delle Esperidi e persino lo stipite di una porta, che divenne tanto lucido d’apparire abbagliante.

Quando esausto re Mida fece ritorno a palazzo, i servi gli bandirono la tavola colmandola di varie leccornie e solo allora il sovrano poté rendersi conto della gravità di quanto gli era accaduto.                                 

Ovidio lo narra nel suo libro “Le metamorfosi.”

Ogni cibo, ogni pietanza che lui portava alla bocca si trasformava in oro. Re Mida inorridì quando si rese conto che non avrebbe più potuto toccare nemmeno un essere umano, con il rischio di vedere anche le persone a lui care trasformate in statue d'oro e allora si affrettò a tornare da Dioniso, affinché lo privasse di quel nefasto potere.

Mosso a compassione dalle accorate preghiere, ancora una volta Dioniso lo accontentò, suggerendogli di recarsi alle sorgenti del fiume Pattolo, perché quelle acque, in un certo qual modo magiche, avrebbero lavato via il dono che lui stesso gli aveva fatto. Re Mida ubbidì, immergendosi e rimanendo, per precauzione, per molto tempo a mollo, ma solo quando mise la testa sott'acqua si liberò del potere che era diventato la sua dannazione. 

 Da allora la leggenda narra che il fiume si arricchì di sabbia aurifera.                             

Per quanto riguarda le orecchie d'asino con cui viene raffigurato il sovrano, occorre andare a rivedere un’altra leggenda.

Si narra che re Mida s’intromise in una divergenza sorta tra Apollo e il dio Pan, su chi dei due fosse il più abile nel suonare il proprio strumento riuscendo a trarne le note più melodiose.

Da quella discussione nacque una sfida e Tmolo, il dio del fiume chiamato a dirimere e giudicare i due musici, sentenziò che fosse Apollo il vincitore, ma re Mida s’intromise, confutando con fin troppo vigore il responso e additando Pan come vincitore.                                      

Apollo, per punirlo della sua intromissione e della sua arroganza, gli fece crescere le orecchie a dismisura ricoprendole poi di fitto pelo grigio, proprio come quelle  di un asino.  


                                                



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mercoledì 9 settembre 2020

Creature mitologiche: i Giganti

 



I Giganti sono colossi mitologici dell'antica letteratura greca.

Una leggenda narra che aspirassero ad ascendere all'Olimpo e che per questa loro grande ambizione dovettero sovrapporre tre monti, uno sull'altro per arrivarne alle porte, ma furono sconfitti, cacciati e relegati nelle profondità dell'Etna.

I dodici divini abitanti dell'Olimpo non compirono l'impresa da soli. difatti, senza il supporto di Eracle, il semidio figlio di Zeus e di una mortale, non sarebbero mai riusciti a scacciare gli invasori.                             


I Giganti che provarono a conquistare l’Olimpo furono ventiquattro, tutti determinati e temibili. Oltre che con la colossale statura, venivano raffigurati  con  lunghe barbe e  folte capigliature inanellate. In qualche descrizione si fa' anche cenno  a lunghe code serpentine.

A capo della banda di assalitori era Alcioneo, che fu anche la prima vittima di Eracle. Il secondo a cadere fu Porfirione, che quasi riuscì a strangolare Era, la regina dell'Olimpo. In quel caso, l'intervento del dio Eros fu provvidenziale anche se non risolutore. Il dardo scagliato dal dio ferì al fegato il gigante, la cui brama omicida si trasformò in lussuria. Porfirione tentò di violentare la dea scatenando la collera di Zeus, che colpì il gigante con una folgore. Fu comunque Eracle a finirlo con colpi di clava.

                                      


Il gigante Efialte si scontrò con Ares; Eurito con Dioniso; Clizio con Artemide; Mimante con Efesto e infine Pallante con Atena. In tutti questi combattimenti fu sempre l'intervento di Eracle a risultare decisivo.

Demetra ed Estia, considerate le più pacifiche tra le dee dell'Olimpo, non parteciparono ai violenti scontri e si tennero in disparte mentre, le Moire, le tre dispettose figlie di Zeus, contribuirono alla vittoria finale scagliando pesanti oggetti di rame contro gli aggressori.

Messi alle strette e demoralizzati  per le perdite subite, i superstiti fuggirono, inseguiti tra i più bellicosi degli dei. Per prima Atena, che si trasformò lei stessa in colosso e raggiunto  Encelado, la dea scagliò un enorme masso, che colpì in pieno il gigante causandone l'inabissamento nel Mediterraneo. La leggenda narra che si formò così la Sicilia.

                                     

Poseidone abbatté Coo e lo scagliò in mare, dove il corpo del gigante diventò l'isola di Nisiro, nel Dodecanneso. Ermes abbatté Ippolito e Artemide uccise Grazione. Le tre Moire riuscirono a bruciare le teste di Agrio e Toante.

La pace tornò così sul monte Olimpo anche se, in un altro mito, il satiro Sileno si vantò di essere lui l’eroe che riuscì nell'impresa di salvare l’Olimpo con il raglio altisonante del suo asino, che spaventò i giganti inducendoli alla fuga.

Alla categoria dei giganti appartengono anche i Titani, i Ciclopi, mostri con un solo occhio situato nella fronte e i Centimani, colossi dalle cento mani.                


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domenica 6 settembre 2020

Creature mitologiche: la sfinge

                                                             


La parola “sfinge” deriva da un termine greco molto antico e per noi non trascrivibile, per via delle enormi differenze tra il nostro alfabeto e quello greco, un termine accomunato dai Greci stesso al verbo strangolare. Da questo deriverebbe la logica traduzione della parola sfinge come “la strangolatrice”. Una nomea terrificante che, secondo la leggenda, sarebbe ben meritata da questa creatura, in alcuni casi descritta con il corpo leonino e la testa umana, grandi ali di uccello, detta scientificamente androsfinge, raffigurata invece con testa d'ariete, briosfinge e, infine le ieracosfinge, come vennero definite da Erodoto le figure leonine con testa di falco.

All'inizio, una sfinge poteva avere, indifferentemente, le sembianze sia maschili che femminili, spesse volte scolpite con il volto del faraone regnante, solo in seguito divenne definitivamente alata e con sembianze femminili.                               


Famosa è la leggenda dell' indovinello che la sfinge, posta a guardia dell'ingresso dell'antica città greca di Tebe, poneva ai viandanti che volevano entrare.

La sfinge poneva il suo quesito, al quale la persona doveva dare la giusta soluzione e se ciò non fosse accaduto, la pena inflitta dalla mostruosa sentinella sarebbe stata la morte.

Si narra che nessuno tra i pellegrini, i viandanti e gli stessi tebani riuscisse a risolvere l’enigma, per cui la città rimase a lungo assediata dal mostro e isolata dal resto del mondo.

Creonte, figlio di Liceto e re di Tebe, disperato per aver perso il proprio figlio a causa del quesito posto dalla mitica creatura, promulgò una legge che prometteva il suo regno e la mano di Giocasta, vedova di Laio, a chi avesse dato la soluzione e sconfitto quel guardiano mostruoso.

Edipo accettò la sfida e si diresse alla rupe sulla quale stava di guardia la sfinge, che lo interrogò: “Chi, pur avendo una sola voce, al mattino si trasforma in quadrupede, a mezzogiorno in bipede e alla sera diventa un tripide?”

Edipo non ebbe esitazioni e rispose:" L'uomo che nell'infanzia striscia su quattro zampe, in età adulta cammina su due piedi e, infine, nella vecchiaia utilizza un bastone d’appoggio.”

Nel finale della leggenda, la sfinge, dopo essere stata sconfitta da Edipo si getta da una roccia molto alta e muore mentre, in un'altra versione, il mostro divora se stesso.


Edipo torna vittorioso nell'antica Tebe, sale al trono e sposa la bella Giocasta, ma ancora non conosce il drammatico risvolto che avrà la sua vita molti anni dopo.

 Secondo un altro mito, invece, esisterebbe un altro quesito: “Vi sono due sorelle, la prima dà alla luce l'altra e questa a sua volta dà vita alla prima. Chi sono?”

La risposta era il giorno e la notte difatti, nella lingua greca, entrambi i termini sono femminili.

Infine, il monumento più famoso che raffigura questo mostro mitologico è quello posto a guardia della necropoli di Giza, in Egitto.

La colossale sfinge misura una ventina di metri di altezza e più di settanta di lunghezza.

                                                        


 



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mercoledì 2 settembre 2020

Creature mitologiche: le Arpie

 



Le arpie, creature mostruose denominate anche “le rapitrici”, sono esseri mitologici con il viso di donna e il corpo di avvoltoio. Un'antica leggenda ricondurrebbe  le loro origini al formarsi delle tempeste.

Omero stesso le paragonava ai venti più impetuosi e travolgenti e, difatti, alcune tra le più famose portavano nomi significativi: Aello, che significa urlo e anche burrasca; Celeno che vuol dire “oscuro” come il cielo nel bel mezzo di un temporale; Ocipete e Podarge, le due arpie più veloci che, pare, si involassero nel vento.

                                       


Dall’unione di Podarge con Zephiro, nacquero Ballo e Xanto, i due divini cavalli di Achille, la cui velocità era paragonabile al soffio del vento.

Harpia significa ladre, rapitrici. Difatti queste creature venivano considerate responsabili della sparizione degli oggetti che non venivano mai più ritrovati, ma erano anche accusate di essere rapitrici di vita, una lugubre nomea che le portò a essere raffigurate sulle lastre tombali, con gli artigli protesi a ghermire le anime innocenti dei bambini.

Nel libro delle “Argonautiche” di Apollonio Rodio, le Arpie, per ordine della divina Era, perseguitarono, per un po' di tempo, il re dei Traci, indovino e cieco Fineo. Quella leggenda narra che il sovrano venne condannato dalla dea per aver tradito e svelato i progetti divini. Era si vendicò inviandogli le Arpie durante un sontuoso banchetto, a cui partecipavano ospiti di rango.  Le mostruose creature alate rubarono tutte le pietanze presenti sulla tavola imbandita e insozzarono con i loro escrementi le stoviglie.

                                     


Le ladre vennero inseguite fino alle isole Strofadi, ma le loro vite vennero risparmiate quando, raggiunte e sopraffatte, invocarono la clemenza ai loro aguzzini e  promisero che non avrebbero più importunato il sovrano.

Anche Ludovico Ariosto, nel suo Orlando Furioso, cita questo mito sulle Arpie e sul re dei Traci, mentre Dante Alighieri gli dedica il canto  XIII dell'inferno:

Quivi le brutte arpie lor nidi fanno,

che cacciar dalle Strofadi troiani

con triste annuncio di futuro danno.


Ali hanno late e colli e visi umani,

piè con artigli e pennuto il gran ventre,

fanno lamenti in su li alberi strani.


                                                                 








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