Il silenzio sceso tra i tibetani era dovuto
al gelo provocato dall’inquietante apparizione.
Ragghin immaginò la fine fatta dalle vedette
messe a difesa dell'accampamento e, il monaco guerriero che gli era accanto, ne
concretizzò il pensiero: «Le sentinelle non hanno avuto nemmeno il tempo di
dare l'allarme!»
Per istinto, Tuya, portò la mano sul
pendaglio magico, ma Ragghin ne fermò il gesto: «Non ora, mia signora! Servirebbe
a poco.»
La gemma era fredda e la ragazza rinunciò
a esporla, domandosi però, se quella creatura arcana fosse in grado di
percepire e presagire le imminenti potenzialità magiche della pietra.
Come se ne avesse percepito il dubbio,
la creatura le spiegò: «Per qualche motivo misterioso quella gemma è in grado
di captare un pericolo imminente e in questo momento, come puoi ben vedere, la
minaccia rimane lontana. Se tu la esponessi non funzionerebbe.»
Proprio in quel momento un gruppo di
cavalieri mongoli si mosse, palesando un vessillo bianco, con la chiara intenzione
di parlamentare.
Ancora una volta fu Ragghin a muoversi
per prima seguita dagli altri. «Andiamo a sentire cosa vogliono!» disse, spronando
il suo cavallo al trotto.
Entrambi i gruppi si fermarono nel mezzo delle due formazioni belliche.
Il capo dei mongoli squadrò con aria incredula
la scimmia a cavallo studiandone con curiosità e sfrontatezza la postura, le
armi e la corazza di cuoio. Un ghigno gli balenò sul volto, dai lineamenti che
sembravano sbozzati nel legno scuro e storcendone le labbra sottili in una
smorfia sprezzante.
Timughe Khan continuò imperterrito a scrutare il primate. Gli occhi scuri, dal taglio spiccatamente all’insù, si strinsero come due fessure e il silenzio tra i due gruppi si prolungò imbarazzante. Poi, il khan esordì con tono irrisorio: «Quando i miei guerrieri mi hanno parlato di una scimmia amazzone ho pensato a uno scherzo!»
Ragghin non mosse un muscolo e non diede
a vedere di avere compreso; squadrò a sua volta con freddezza il mongolo
lasciando a Tuya la parola: «Dov'è il principe Ramroch?» domandò la ragazza marcando
un tono autoritario e assumendo una posa ancora più marziale.
Timughe Khan spostò la sua attenzione su
di lei soffermandosi ad ammirarne la figura ed esagerando un'espressione ammirata.
«Finalmente ti conosco “Tuya, la misericordiosa!” Durante la battaglia sei riuscita a conquistarti la stima e l’ammirazione di gran parte dei miei guerrieri e ora ne comprendo i motivi.»
Le parole allusive ma, soprattutto lo
sguardo lascivo del sovrano mongolo, la fecero infuriare, ma Tuya ingoiò la
risposta prepotente che le salì alla bocca. Strinse con forza il pomolo della
sella imponendosi la calma e scandì con più veemenza: «Ti ripeto la domanda, dov'è
il principe Ramroch?»
Il khan sorrise di sghembo, poi si volse appena indietro e fece un gesto verso i guerrieri appostati sulla collina.
Per qualche istante non accadde nulla, poi
sullo sfondo comparve la figura di un guerriero a cavallo che, al galoppo, trascinava
un prigioniero legato con una lunga corda alla sella. La lontananza era molta,
ma la figura del principe tibetano era inconfondibile.
Ramroch era costretto a correre dietro
al cavallo e rischiava ogni momento di inciampare e cadere.
Il cavaliere trascinò il prigioniero per
qualche secondo, seguito dallo sguardo preoccupato dei compagni, poi rientrò
nei ranghi e le due figure si confusero tra le altre sulle colline.
«Cosa pretendi per la sua liberazione?» domandò Ragghin e il mongolo, sentendola parlare,
trasalì visibilmente: «Una scimmia parlante? Che stregoneria è mai questa?»
Si udì un ringhio profondo, minaccioso. Gli occhi della creatura si accesero di un fuoco ferino, selvaggio. I cavalieri mongoli, intimoriti da quella inquietante figura, indietreggiarono, trasmettendo il loro nervosismo alle cavalcature che scalpitarono, ma le loro mani si posarono sulle lance e sulle else delle spade.
«Dicci cosa vuoi per liberarlo!» rimarcò
in modo tenebroso Ragghin.
Timughe Khan si riebbe dalla sorpresa e tentò
un sorriso, ma era evidentemente a disagio: «Questa è davvero la prima volta in
vita mia che mercanteggio con una scimmia ...»
Non terminò la frase perché Ragghin diede
uno strattone alle redini facendo avanzare di qualche passo il suo destriero ed
emettendo una serie di ringhi inequivocabili. Per un breve istante i canini
balenarono minacciosi.
Solo allora il sovrano si decise: «Va
bene! Va bene! Non ti infuriare! Datemi quella gemma e io vi consegnerò il
vostro principe.»
Tuya impallidì: «Mai! Non avrai mai la gemma
di Taishir!»
Il sovrano la guardò sorpreso: «La gemma
di Taishir! È questo il suo nome, dunque! Ma non importa. Ora vi domando: per
voi è più importante quella pietra o la vita del vostro principe?»
Ragghin tergiversò, con tono accomodante:
«Dacci solo un po’ di tempo per vagliare la tua proposta, re dei mongoli. Ti
sapremo dare presto una risposta.»
Tuya sobbalzò, lanciando occhiate nervose al primate. Avrebbe voluto intervenire ma, Ragghin, le fece un cenno impercettibile con la mano avendo cura di non farsi scorgere dal nemico.
«Domani, quando il sole sarà di nuovo in quel punto preciso – scandì il mongolo indicando il disco infuocato nel cielo - mi darete la risposta. Naturalmente insieme alla gemma o, in cambio, vi farò dono della testa del vostro principe!» concluse, con un ghigno malvagio.
Senza attendere risposta, Timughe Khan
piantò gli speroni nei fianchi del suo destriero, che nitrì di dolore e balzò
in avanti, poi spronato dal suo cavaliere, si voltò, lanciandosi in un folle galoppo.
La scorta del sovrano mongolo, sorpreso dalla mossa improvvisa, esitò un istante, quindi si buttò all’inseguimento.
Tuya non perse tempo e scattò: «Per
quale motivo hai promesso di pensarci? Se quel barbaro dovesse entrare in
possesso della gemma, l’intero oriente sarebbe in pericolo.»
Ragghin volse il suo cavallo con calma e con altrettanta pacatezza le rispose: «Ho solo voluto guadagnare un po’ di tempo, mia signora. In realtà, non ho nessuna intenzione di consegnare la gemma di Taishir a quel folle e nel contempo, desidero che la testa del principe rimanga sul suo collo, al suo posto. Torniamo all’accampamento. Studieremo un piano di azione.»
Qualche minuto dopo aver riunito i vertici militari, Ragghin spiegava agli altri ufficiali la sua strategia: «Dobbiamo tentare una sortita nell’accampamento nemico! »
«Non credi sia meglio un attacco
notturno su più fronti, con il supporto di una parte dell’esercito?» domandò Saikhan.
«Credi
che non l'abbiano previsto? Timughe Khan è uno stratega troppo esperto, non
credo non abbia messo in conto una simile eventualità. No! Penso sia meglio agire
con più cautela e con appena una ventina di incursori. Agiremo di notte, mentre
tutti dormono. Qualcuno ha qualcosa da obiettare?»
Gli ufficiali si squadrarono l’uno con l’altro,
ma fu Gansuk a prendere la parola:
«Sarà una missione suicida. Occorrono dei
volontari.»
«Sarebbe poco saggio da parte mia privare
l'esercito, di per sé già in minoranza, di altri abili guerrieri No! - obiettò
Ragghin - Mi servirò dei miei simili! Silenziosi come pantere, efficaci e
letali. Se le stelle ci assisteranno, prima dell'alba il principe sarà di nuovo
tra noi!»
I due monaci guerrieri si scambiarono un'occhiata eloquente, quindi fu Gansuk il primo a replicare: «Non ti lasceremo andare da sola! Io e Saikhan verremo con te!»
«No! -ribatté lei - l'esercito ha
bisogno delle vostre guide esperte. Rimarrete qui e se non dovessimo tornare, affronterete
voi quei barbari!»
Gansuk scosse la testa: «Basterà Tuya alla
guida. I nostri guerrieri si fidano di lei e la seguiranno fino alla morte.»
Davanti alla irremovibilità dei due guerrieri
Ragghin cedette: «E così sia!»
Tuya aprì la bocca per protestare, ma Ragghin
la provenne: «Basta discutere, mia signora! Tu devi rimanere alla guida con la
responsabilità gravosa della vita di migliaia di giovani e quello della protezione
del talismano.»
La vestale intuì di essere stata messa con
le spalle al muro e di non potersi rifiutare. Era la custode della gemma e aveva
il dovere morale della sua salvaguardia. Chinò la testa annuendo
impercettibilmente, poi si volse e con amarezza tornò nella sua tenda.
Ragghin radunò il suo plotone di scimmie
poi, scortata dai due monaci guerrieri partì al galoppo.
Poche ore, dopo al riparo di alcune
rocce, scrutavano l'accampamento mongolo. Le scimmie si erano liberate delle
sentinelle e appostate in ordine sparso attendevano nuove disposizioni.
I fuochi dei falò ancora accesi mandavano
riverberi rossastri, ma le fiamme tendevano a smorzarsi e questo significava che
i guerrieri stavano tornando nelle loro tende per riposare.
L’attesa si prolungò ancora. Il caldo era
asfissiante e l'oscurità quasi assoluta. A tratti la luna faceva capolino tra
le nubi e rischiarava la zona. Ragghin e gli altri si muovevano all’unisono, ma
solo quando le nubi offrivano un’adeguata copertura.
Nel silenzio della notte risaltava solo qualche sporadico rumore. Qualche guerriero insonne o nottambulo che si aggirava tra le tende in cerca di refrigerio.
Vi erano ben quattro soldati di guardia e
non fu difficile individuare la tenda del prigioniero.
In modo silenzioso le scimmie formarono
un cerchio protettivo intorno alla prigione e Ragghin, supportata dai due
monaci guerrieri si liberò delle sentinelle.
Le lame dei coltelli e delle spade lacerarono
facilmente il tessuto del padiglione adibito a prigione e gli incursori
tibetani irruppero all'interno.
La tenda era immersa nel buio totale e
solo gli occhi ferini di Ragghin furono in grado di perforare l’oscurità e fu
proprio lei a lanciare l'allarme, un istante prima che i compagni percepissero il
pericolo: «È una trappola! Alle armi!»
In quel momento una decina di torce si
accese all’unisono, illuminando l’intero padiglione. Altrettanti guerrieri mongoli
era in attesa con le armi sguainate.
Contemporaneamente, all’esterno, scoppiò
un pandemonio. Si sentirono urla e i ringhi selvaggi delle scimmie, poi il
clangore delle armi.
Ragghin e i due monaci guerrieri si scagliarono all'attacco.
A parecchie miglia di distanza, nel
frattempo, Tuya si rodeva nell’inquietudine.
L'attesa e l’inattività le pesavano. La
frustrazione si alternava alla brama di agire. Aveva promesso di custodire la gemma,
ma avvertiva anche che non era quello il modo giusto di farlo. Il talismano era
rimasto nascosto per troppo tempo, ma con l'invasione e la minaccia del tiranno
era arrivato il momento di sfruttarne le potenzialità. E non era stando lontano
dal nemico che questo poteva accadere.
Il rovello penetrò ancora più a fondo quando
il pensiero di Ramroch prigioniero le aggredì la mente.
Sentì il desiderio e la brama di
muoversi crescere a dismisura e si ribellò:
«No! Non posso rimanere qui a torturarmi!
Anche a costo di trasgredire le disposizioni di Ragghin.»
In quel momento avvertì il calore della
pietra diffondersi su tutto il petto. Ebbe persino la sensazione che il
talismano avesse reagito alle sue emozioni e intuì quello che doveva fare.
Chiamò a raccolta gli ufficiali
spiegando loro quali fossero le sue intenzioni e, con il loro appoggio
incondizionato, l'esercito si mosse.
La livida alba che seguì a quella notte
tormentosa vide l'accampamento mongolo in subbuglio.
Era occorso molto tempo e molti guerrieri
per sopraffare la compagnia di scimmie di Ragghin. Lo scontro era costato molte
vite da entrambe le parti e se i mongoli avevano infine prevalso, era solo per l’immane
superiorità numerica.
Il sole appena sorto illuminò i corpi
dei quattro prigionieri legati a dei pali issati al di sopra di una grande pira.
Ramroch, Ragghin, Gansuk e Saikhan erano circondati dai guerrieri mongoli, che pavesano
torce fiammeggianti, pronti a dare fuoco alle fascine.
Il silenzio divenne spettrale quando
l'esercito tibetano apparve sulle colline.
Tuya prese il cannocchiale e inorridì: «Hanno
intenzione di bruciarli vivi!» mormorò a fior di labbra riflettendo su quello che
avrebbe potuto fare per evitare la tragedia. La lente inquadrò i prigionieri a
uno a uno, fino a fermarsi sul principe tibetano.
A parte qualche livido e qualche graffio
sembravano tutti in buona salute e solo il più giovane sembrava provato.
Ma, come se avvertisse di essere
osservato, gli occhi scuri del giovane travalicarono ogni distanza fissandosi
sulla figuretta a cavallo con il cannocchiale puntato sulla sua persona. Ramroch
sorrise e le sue labbra si mossero, scandendo: «Non aver paura!»
Tuya non poté che ammirarne l'ardimento.
Lui, che era in pericolo di vita incoraggiava lei a non cedere e a non temere.
La ragazza tolse il ciondolo dal petto e
lo sollevò in piena vista, poi sollecitò i compagni con un gesto: «Sapete tutti
cosa dovete fare. Attendete il mio ordine!» L'ufficiale più vicino portò la
mano destra sul cuore chinando la testa.
Tuya spronò il suo destriero, subito
imitata da una decina di cavalieri, il primo dei quali sventolava un candido vessillo.
Dopo qualche istante, anche dall’accampamento mongolo partì un drappello di guerrieri.
I due plotoni di cavalieri si fermarono
a una ventina di metri gli uni dagli altri ma, il guerriero al centro del
drappello mongolo, avanzò spavaldamente e, con aria irrisoria, ancora per
qualche metro.
Tuya aveva riconosciuto già da lontano
la figura imponente del khan, che con aria di sfida si era lasciato la scorta personale
alle spalle e la osservava. Il sovrano mongolo indossava l'alta uniforme,
quella più bella, con la corazza che luccicava al sole lustrata come fosse uno
specchio. Il tipico elmo con il terminale a punta e il pennacchio giallo e oro che
sciorinava al vento.
«Sono ben felice di rivederti, Tuya la
misericordiosa - esordì il Khan - accentuando un plateale inchino con il corpo -
Ho accettato di incontrarti ancora una volta, ma credo che il tempo delle
parole sia ormai terminato. Come ben saprai, sono un uomo d'azione e questa
attesa e inattività stanno logorando i miei nervi.»
Tuya ignorò il comportamento sprezzante
e beffardo del mongolo, lo scrutò con estrema pacatezza e poi disse: «Per il
bene dei nostri due popoli avrei da farti una proposta, Timughe Khan!»
Lui si lisciò i baffi sottili e la
barbetta. Nei suoi occhi scuri, vividi e intelligenti balenò un lampo di
curiosità: «Interessante! Che genere di proposta?»
Tuya aprì il palmo dove teneva racchiuso
il monile. I raggi del sole colpirono la gemma, che emanò lampi di luce.
Il sovrano ebbe uno scatto e il cavallo
reagì indietreggiando. I suoi cavalieri portarono le mani sulle else ma Tuya,
fece un gesto rappacificatore.
«Non temete. Non ho cattive intenzioni!»
Timughe Khan corrugò la fronte. Il sospetto
di una trappola iniziò a serpeggiare tra i suoi pensieri e a limare la sua
spavalderia.
«Ti propongo un duello tra me e te. Libera
i miei guerrieri e la scimmia e battiti con me. Il vincitore dello scontro avrà
come premio la gemma mentre il perdente rinuncerà a ogni pretesa e a ogni altra
rivalsa.»
Il mongolo sgranò gli occhi incredulo: «Cosa?
Io, il re di tutti i re, il condottiero più potente e autorevole di tutto l'oriente,
dovrei battermi con una ragazzina?»
Timughe Khan rimase un istante
perplesso, poi si lasciò andare in una fragorosa risata e i suoi guerrieri lo
imitarono. Tuya lasciò che si calmasse, scrutandolo sempre da pari a pari, poi disse:
«Non una ragazzina qualsiasi ma la guerriera custode della gemma di Taishir!»
Il mongolo spronò il cavallo e le si
avvicinò, girandole intorno: «Ma davvero vuoi sfidare il re dei re?»
Con cipiglio marziale lei annuì.
Il khan rise ancora: «Nessuna vittoria sarà
mai stata più semplice e nemmeno più gradita. - sentenziò, tornando tra i
ranghi – Chi terrà la gemma? E dove dovrebbe avvenire la sfida?»
«Ci incontreremo nella terra di nessuno,
con il talismano appeso ben in vista.
Testimoni saranno i nostri guerrieri. Ma
solo dopo che avrai liberato i miei compagni!»
Timughe Khan annuì: «Li libererò, ma
rimarranno sotto stretta sorveglianza fino a quando non mi avrai consegnato la gemma.
Queste sono le mie condizioni!»
Ancora una volta Tuya acconsentì, poi volse
il cavallo e fece ritorno tra i suoi guerrieri.
La giovane donna attese che i mongoli
liberassero i prigionieri e solo quando li vide lontani dalla pira si
tranquillizzò. Per il momento erano in salvo e questo doveva bastarle.
Con il cannocchiale ne studiò le espressioni
interrogative. Di sicuro non capivano cosa stesse accadendo. Poi vide il khan
avvicinarsi e discutere con loro. Immaginò che il sovrano stesse spiegando il
loro accordo perché i volti degli amici si incupirono in un momento. Ragghin e
Ramroch cercarono il suo sguardo, ma lei era troppo lontana. Eppure, percepì ugualmente
la frustrazione, il livore e l'impotenza di ognuno di loro, costretti a dovere
assistere all'impari scontro. Quegli sguardi accusatori e a tratti smarriti, la
mortificarono: «Ho dovuto farlo! Non avevo altra scelta!» si giustificò, come se
loro avessero potuto sentire.
In quel momento Ramroch si eresse con
tutto il suo vigore affrontando senza remore il sovrano mongolo: «Se un duello
deve essere affronta me re dei mongoli!»
Timughe Khan squadrò l'impavido guerriero
e ghignò, sprezzante: «Perché dovrei? Una candida colombella si è offerta di
volare in uno spazio rapace, perché il falco non dovrebbe accettare?»
Ramroch si sentì andare il sangue alla
testa: «Questa è la dimostrazione che sei soltanto un vile re Nessuno!» inveì,
sputando ai piedi del mongolo.
Il sovrano, per non essere preso, balzò
all'indietro e si infuriò: «Tieni a freno la lingua se non vuoi che te la mozzi!»
poi si volse e con un cenno imperioso si fece condurre il cavallo dal suo
scudiero.
«Con te ci rivedremo presto!» minacciò, poi
batté con violenza i calcagni nel ventre del cavallo e partì al galoppo.
Tuya aveva assistito al diverbio e
immaginato il senso della discussione. Appena vide mongolo avviarsi, montò sul
suo destriero e afferrata la lancia andò incontro al suo rivale.
«Sei ancora in tempo per ripensarci e ad
arrenderti!» le disse lui baldanzoso galoppandole incontro.
Tuya calò la celata dell'elmo, senza
nemmeno darsi la pena di rispondere, poi appena lui fu a tiro, si sollevò sulle
staffe prendendo la mira e, appena certa, lanciò il giavellotto.
Dopo una lieve parabola ellittica nel
cielo, la punta andò a sbattere nello scudo sollevato dal mongolo provocando un
sonoro clangore, ma senza causare danni.
Allora la giovane sguainò la sua spada e
dopo un istante i due destrieri si scontrarono.
Soffio Impetuoso, subì l'impatto
scartando di lato e l'amazzone dovette lottare per non essere disarcionata. Il
mongolo ne approfittò per abbattere una serie di colpi con la sua spada dalla
parte smussata.
«Ti voglio viva, colombella!» ghignò, manifestando
le sue lubriche intenzioni.
Tuya parò ogni colpo con lo scudo, mentre
il mongolo, ottimo cavallerizzo e con un destriero addestrato alla guerra manovrava
affinché la rivale venisse disarcionata e alla fine il suo intento riuscì.
L'impatto fu molto violento. Tuya perse
l'equilibrio e si ritrovò per terra.
Il mongolo smontò e la raggiunse,
infierendo mentre ancora il corpo della ragazza non aveva toccato il terreno. Lei
cercò di ripararsi dietro allo scudo, ma l'arma dell’altro trovava ampi varchi e
i colpi erano molto violenti. Uno, in modo particolare, le tolse il fiato. Per
un attimo la collera le annebbiò i pensieri poi, le parole di Gansuk, che per anni
le aveva fatto da maestro, riemersero dalla nebbia del livore: «Ricorda che la
collera è sempre una cattiva consigliera, mentre la calma proietta la luce
indispensabile nella tua mente.»
Istantaneamente, Tuya emise un respiro profondo
e tutto sparì intorno a lei, tranne la presenza imponente e ingombrante del
barbaro, che incombeva sulla sua persona.
continua...
racconto di Vivì pubblicato sul sito Scrivere
immagini Pinterest
UNA BELLA STORIA CHE AVVINCE E CHE COMMUOVO QUANDO GENTE CON IDEE NOBILI VULE ROTEGGERE ED AMARE IL PROPRIO POPOLO CONTRO LA TIRANNIDE CHE VUOLE SCHIACCERE GLI AVVERSARI PER SFRUTTARLI ED APPROFITTARE DEL LORO SAPER FARE. UNA STORIA ACHE HO HRADITO MOLTO E CHE HO SEGUITO DALL'INIZIO ALLA FINE. COMPLIMENTTI VIVì. tI AUGURO UNA SERENA PASQUA ASSIEME AI TUOI CARI. UN AFFETTUOSO SALUTO, GRAZIA!
RispondiEliminaTanti cari auguri per una serena Pasqua e complimenti ancora per i tuoi bellissimi racconti
RispondiEliminaBravissima. Un susseguirsi di colpi di scena molto ben narrati. Buona Pasqua.
RispondiEliminaAtrapante saga, Vivi... Al final la historia de la humanidad siempre es la misma: vencer para sojuzgar.
RispondiEliminaAbrazo grande.
Un racconto avvincente, e pieno di colpi di scena, che avvince il lettore per il profondo significato che intende trasmettere...
RispondiEliminaSempre bello leggerti, un abbraccio, cara vivì,silvia
Ciao Vivi credo che questo racconto sia uno dei tuoi più belli e avvincenti. Devo rinnovarti tanti complimenti per la fantasia e la capacità di far visitare luoghi esotici con la potenza espressiva della tua penna. Complimenti ancora e non vedo l'ora che pubblichi il seguito. Buona pasquetta. acc! Sono Leo!!!😎😎😎😎😎😎
RispondiEliminaMolto molto intrigante. A quando il prossimo episodio? Luca M.
RispondiEliminaIn attesa del finale ti abbraccio.Lu.
RispondiEliminaCome tecnica per aggirare l'impazienza avevo deciso di leggere più capitoli durante una visita e sembra funzionare ma comunque rimango ansiosamente in attesa del finale. Ho notato che hai già iniziato una nuova storia ma credo che aspetterò almeno la comparsa di un altro capitolo prima di iniziare la mia incursione.
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