L’edificio sacro si ergeva maestoso e austero
in cima al colle e noi ragazzini, aspiranti monaci guerrieri, lo ammiravamo dal
basso con aria trasognata.
Oltre che di sacralità, un’aurea di magia aleggiava
intorno a quelle antiche mura, che svettavano imponenti dalle rocce di quelle impervie
montagne.
Eravamo una decina di ragazzi, dai quattro ai
dodici anni, l’età minima e la massima per entrare nella comunità religiosa, e
con i nostri genitori, sostavamo alle pendici del monte osservando con soggezione
quelle mura leggendarie. Una lunga serie di storie avventurose e ricche di
fascino e di mistero, circolavano tra la gente raccontate da ex allievi
diventati adulti all’interno del monastero. Gli stessi che avrebbero potuto
vantarsi della nomina di” Monaco Guerriero” se la rigida educazione ricevuta
negli anni, lo avesse permesso. Ma in quella scuola, una delle prime cose che s’imparava
era l’umiltà e a nessuno di quegli guerrieri sarebbe venuto in mente di
vantarsi.
Il mio nome è Hui Ling ed ero il più piccolo di
quel gruppo.
Con il cuore gonfio di emozione, noi ragazzi ci
inerpicavamo per i sentieri scoscesi, piuttosto difficili da superare,
affrontando le intemperie della montagna considerata sacra.
Il vento sibilava e soffiava gelido e grosse nuvole
scure si rincorrevano e si addensavano all’improvviso minacciando la pioggia. Quel
vento che insinuandosi tra i picchi e i pinnacoli rocciosi, formava quel suono
particolare, quasi un canto lugubre e continuo, che aveva poi dato il nome al
monastero.
Quel suono metteva i brividi, ma ormai mancava
poco al traguardo e si proseguiva, esortati dagli accompagnatori, con il timore
che il maltempo si tramutasse in bufera, e che la pioggia battente divenisse
tormenta di neve. Del resto, nulla e nessuno ci avrebbe mai fermati.
Per entrare al monastero come novizi occorreva sostenere
una selezione accuratissima, ed erano veramente pochi coloro che la superavano
e oltrepassavano l’antico portale di pietra.
Io ci riuscii, e quel giorno, avevo appena
cinque anni, con passo reso incerto dall’emozione, varcai quella soglia.
Prima che il portale si chiudesse alle mie
spalle, ricordo che mi voltai e vidi mio padre salutarmi con un sorriso. Quel
sorriso mi avrebbe accompagnato per tutta la vita.
Una volta accettati nella comunità, noi aspiranti
monaci dovevamo seguire un ritmo di vita esemplare. Non erano tollerate
manifestazioni di debolezza, e nemmeno eccessi di esuberanza infantile.
La nostra giornata cominciava ai primi chiarori
dell'alba e, subito dopo le normali attività mattutine, ci allenavamo nel
cortile antistante il grande chiostro, con le arti marziali. Nel nostro cuore
colmo di orgoglio e di ideali giovanili, era latente un unico grande scopo, che
ci accomunava e ci univa: diventare campioni di quella considerata come la più
nobile delle arti marziali: il Kung Fu.
La nostra lenta formazione durava molti anni, e
una volta raggiunto il livello più alto dell’addestramento, diventavamo maestri
noi stessi, ma solo i più meritevoli entravano a far parte delle guardie personali
dell'imperatore e della sua famiglia.
A me toccò quell’onore e quando compii venti
anni venni scelto per la salvaguardia della nobile dinastia.
Comunque, tornando al mio arrivo al monastero, impiegai
un po’ di tempo ad abituarmi alle rigide norme vigenti e al duro addestramento.
Inoltre, passarono ben tre mesi prima
che venissi accettato come novizio nel monastero e soltanto dopo aver superato esami
psicologici e prove di resistenza durissime. Solo la forza di volontà mi fece
conseguire il primo grande traguardo della mia vita. Avevo abbandonato i
genitori, la casa, gli amici, lasciandomi alle spalle tutto quello che avevo di
più caro al mondo. Mi ero prefissato di diventare una delle guardie personali dell'imperatore.
E ci sarei riuscito!
Il giorno che partii lo promisi ai miei
genitori, a mio padre in modo particolare, monaco guerriero prima di me,
rimasto seriamente ferito in un agguato teso ai danni della famiglia reale. Era
stato solo grazie al sacrificio di tanti guerrieri che il casato imperiale era
scampato al pericolo di estinzione della nobile stirpe.
Ricordo che quando arrivai al monastero, essendo
il più piccolo tra i novizi, venni preso subito a benvolere da tutti. Ero considerato
come un fratellino dagli altri aspiranti monaci e ora rammento con estrema
tenerezza quei giorni.
La nostra giornata aveva inizio con la
colazione, e subito dopo, cominciavamo gli allenamenti che duravano all'incirca
quattro ore. Dopo pranzo ci allenavamo ancora
nella corsa, nella meditazione, nella ginnastica, nella lotta con il bastone o
con le catene, disciplina quest’ultima che a me piaceva molto e, in cui, dopo
un po’ di tempo, primeggiai. Le ore rimanenti fino al tramonto, erano dedicate
agli studi.
Mio padre era rimasto mutilato di un braccio dalla
spada di uno degli aggressori. In seguito, aveva dovuto lasciare il monastero,
ma dicono che la sua forza, il suo coraggio e la sua abnegazione, mi furono trasmessi
insieme ai suoi geni.
In seguito a quella mutilazione venne
congedato, non senza sommo rammarico da parte della famiglia reale, e con una
cospicua pensione assegnatagli dall’imperatrice stessa, in qualità di reggente
dopo la morte del marito, essendo i principi ancora troppo piccoli per regnare.
Durante le rigide serate d'inverno
mio padre amava sedere davanti allo scoppiettante fuoco del caminetto,
raccontandomi le perigliose avventure vissute al servizio della famiglia reale.
Io ascoltavo quelle storie con occhi sgranati, guardandolo
con ammirazione. Lo consideravo un eroe, tanto che sognavo spesso come fanno i
ragazzini, di eguagliarne le imprese.
Conoscevo a memoria l'ultima avventura vissuta da lui il giorno della mutilazione, e quando al monastero sul far della notte si spegnevano le luci nelle camerate, iniziai a narrare la sua storia ai miei compagni, così come me l’aveva raccontata lui. Quella sera, dopo nemmeno pochi minuti, mi accorsi di avere un auditorio molto più vasto, poiché quasi tutti gli aspiranti guerrieri mi stavano ad ascoltare.
Residenza
estiva imperiale 20 anni prima
Eravamo al servizio della famiglia reale, che
si era trasferita nella residenza estiva. Eravamo in centinaio di guerrieri, ma
in caso di attacco, solo un esercito avrebbe potuto tenerci testa. E solo un
tradimento avrebbe potuto sfaldare il nostro accurato sistema di difesa, così come
infatti avvenne.
Quella sera per cena vennero serviti piatti
drogati. L'inganno fu possibile solo perché scaturì dal cuore stesso del nostro
sistema difensivo.
Fu a causa di una vendetta perpetrata dall’energia
del rancore che uno dei monaci aveva covato per anni e anni nel suo cuore.
Col passare del tempo quell’astio era cresciuto
a dismisura, e come avviene con le acque tumultuose di un fiume in piena,
quella sera, il nostro sistema di sicurezza venne travolto e spazzato via.
Il monaco traditore si alleò con i signori
della guerra, che volevano far cadere l’impero per poter mettere le mani essi
stessi sul potere. Furono loro ad armare gli assassini e a mandarli quella
notte alla residenza estiva della famiglia reale.
Solo una decina tra noi, quelli che si
riposavano preparandosi al servizio notturno, si salvarono. Fummo svegliati
dalle urla strazianti di coloro che avevano consumato il pasto serale e che si
contorcevano tra mille tormenti.
Demmo subito l'allarme, ma ormai era troppo
tardi per salvare i nostri compagni, l’unica cosa che rimaneva da fare era
pensare alla salvezza della famiglia reale.
Quando il palazzo venne dato alle fiamme, si
scatenò una bolgia drammatica. In quell'inferno di strepiti e di fumo persi il
contatto con i miei compagni. Non sprecai altro tempo e mi diressi di corsa
nelle stanze private dell'imperatore e, udendo le urla terrorizzate che provenivano
dall’interno, abbattei la porta che trovai sbarrata, scagliandomi su di essa con
tutta la forza e la potenza di cui ero capace.
Lo spettacolo che mi attendeva mi lasciò un
attimo interdetto. I piccoli principi, tre maschietti e tre femminucce, erano terrorizzati
e si stringevano ai genitori, che li guardavano smarriti.
Nella stanza c’erano quattro banditi, riusciti
a penetrare chissà come in quelle stanze riservate e che tenevano sotto
minaccia delle loro armi l’intera famiglia. Uno di loro, in particolare, aveva afferrato
per i capelli uno dei principi, e si teneva pronto ad affondare la lama nella piccola
gola indifesa.
Il bambino tremava come una foglia trattenuto con
violenza dal suo aguzzino e, nello sguardo disperato che saettava intorno, era
palese tutto il terrore che provava.
Rincuorato dalla mia presenza e certo del mio
supporto, il sovrano si lanciò sull'aggressore distraendolo e tentando di
disarmarlo. Ma l'assassino non esitò, e con un colpo violento affondò la spada
fino all'elsa nel corpo dell'imperatore, uccidendolo all'istante.
La tragedia era avvenuta in modo così repentino
e imprevedibile, che nulla potei per evitarla.
«La stirpe del Drago Azzurro deve essere
annientata!» proclamò con enfasi l’assassino e una luce fanatica gli brillò negli
occhi, mentre lo sguardo bramoso di sangue si posava sui bambini e sulla loro
madre.
Nell'aria si espanse un lamento soffocato. Per
un attimo colsi lo sguardo atterrito dell’imperatrice, che stringeva a sé i
piccoli cercando di proteggerli e nascondere loro quella scena orribile.
La sua inquietudine mi diede lo sprone e con un
balzo acrobatico atterrai con la leggerezza di un airone
davanti agli aggressori.
«Non ci riuscirete, maledetti!» esclamai con
enfasi.
I banditi rimasero attoniti dalla mia mossa a
sorpresa e approfittai del loro stupore per prelevare la mia arma dal kimono. Nel
silenzio sceso nella stanza, risuonò sinistro il sibilo delle catene da combattimento,
che feci roteare vorticosamente innanzi a me.
L’attenzione dei quattro era tutta puntata
sulle mie mani e sulla mia arma, diventata quasi indistinguibile in aria per
via della velocità acquisita.
Impressi ancora più energia e, come fossero bolas,
le lanciai. Il sibilo aumentò a dismisura e, dopo un’ardita evoluzione, le
catene andarono a stringere il collo del bandito che teneva prigioniero il
piccolo.
L’uomo mollò la presa sul bambino e si portò le
mani al collo. Inutilmente tentò di liberarsi. L’arma gli impediva di respirare
e lo attanagliava alla gola. In un attimo divenne paonazzo e dopo pochi secondi
cadde soffocato.
Con un solo movimento fluido del corpo, le
recuperai, spinsi il piccolo tra le braccia della madre e mi posizionai davanti
a loro per difenderli. Poi mi girai per affrontare gli altri tre banditi.
Il tutto avvenne in un battito di ciglia e mi
ritrovai a fissare i volti stupefatti dei miei avversari.
Il loro evidente sgomento durò solo un istante.
Reagirono all’unisono e dovetti difendermi.
Sin dalle prime mosse mi accorsi che i miei
rivali erano uomini addestrati nella sacra lotta, e che partivano in vantaggio
nei miei confronti. Lo spazio ampio di quella sontuosa stanza divenne
improvvisamente angusto per me.
Ero obbligato a tenere la famiglia reale alle
spalle e, con il pericolo di colpire qualcuno di loro con le mie catene, non mi
fu più possibile usarle. Abbandonai quell’arma e sfoderai la spada.
Qualcuno tra i piccoli urlò e i pianti si
moltiplicarono.
Proprio in quel momento, dal corridoio mi giunsero
i rumori di uno scontro. Immaginai che fossero i miei compagni accorsi in
difesa dei reali e allora urlai anche io: «Guerrieri a me!»
I miei compagni sentirono finalmente le
nostre urla, e appena poterono, accorsero in nostro aiuto.
continua...
Racconto pubblicato dalla Garcia edizioni nel 2012
immagini Pinterest
immagine di copertina di Alessia Coppola
E' sempre un gran piacere soffermarsi sul tuo fantasioso blog, nei variegati "sogni avventurosi" che presenta al lettore...
RispondiEliminaUn abbraccio, cara Vivì,silvia
Me parece una gran historia sigue esta muy interesante
RispondiEliminaUna storia molto interessante che attrae il lerrote addentrandolo nell'attraente struttura del racconto molto apprezzato. Complimenti Vivì. un caro saluto, Grazia1
RispondiEliminaPerdona por tardar en leerte, prolífica amiga. Atrapa esta historia. Ahora te sigo leyendo aunque atrasado...
RispondiEliminaRacconto avvincente e illustrato magnificamente.Lu.
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