Nella
terra magica di Faerie, una giovane giumenta bianca galoppava disperatamente
nel tentativo di sfuggire ai suoi inseguitori. Correva dando il massimo e con
il rischio di farsi scoppiare il cuore, ma avvertiva di essere ormai al limite
delle forze e il peso che le gravava in grembo le impediva di mettere una
distanza di sicurezza tra lei e le creature maligne che la inseguivano.
Il
terrore e l’istinto di protezione che sentiva naturalmente verso la sua
creatura, la spingevano alla fuga, ma l’affanno e la stanchezza le suggerivano
che stava rischiando di perderla ugualmente. Difatti, erano iniziate le contrazioni e
questo poteva solo significare che il parto era vicino. Urgeva che riuscisse a
sfuggire alle belve demoniache che non le davano tregua e che trovasse un luogo
tranquillo e sicuro dove fare nascere il suo piccolo. Se non fosse riuscita a
mettere al mondo la sua creatura, la sua stirpe rischiava l’estinzione. Purtroppo, era una dei pochi esemplari della
sua specie sopravvissuta alla strage perpetrata per anni dalle forze del male.
La giumenta
apparteneva alla prodigiosa stirpe degli unicorni, creature al servizio della
magia bianca, in stretta collaborazione con le fate.
Era noto
che fossero creature timide, schive, che non si lasciavano avvicinare dagli
esseri umani ed evitavano in tutti i modi di entrarne in contatto. Nel contempo
si sapeva che fossero creature forti, dal fisico possente, resistenti a ogni
fatica. Al candido pelo e al lungo corno a torciglione che spiccava sulle loro
fronti erano state attribuite erroneamente e per secoli alcune proprietà
magiche, e per questo motivo la creatura era stato soggetta a una caccia
spietata e, col passare del tempo, la sua splendida razza era arrivata a
contare poche decine di esemplari.
I dubbi
sulla sopravvivenza della specie erano molti nel mondo magico di Faerie. Se
anche il piccolo fosse riuscito a nascere e a crescere sano e robusto, ma
soprattutto libero, una volta adulto avrebbe mai trovato una compagna?
Era un
dubbio plausibile, ma questo non avrebbe impedito alla giovane mamma di cercare
in tutti i modi di salvare il suo puledro e nemmeno avrebbe mai permesso che venisse catturato vivo
e trasformato in una di quelle creature alate, nere come la pece e malvagie che
si vedevano sfrecciare nel cielo.
Creature
del male, dal sangue infettato e maligne anch'esse.
La
giovane giumenta, seppure dilaniata dalla sofferenza, se lo era ripromesso e in
alternativa alla prigionia e alla schiavitù era disposta anche a sacrificare la
propria creatura facendola precipitare nel limbo del nulla. Un luogo senza tempo, privo di vita ma anche
di morte, dove tutto era sommerso da una nebbia eterna, dove non esisteva
realtà ma nemmeno sogni, dove non esisteva futuro.
Una fitta
lancinante le trapassò in quell’istante il ventre, lasciandola senza fiato. La fuggitiva
intuì che era arrivato il momento. Quella corsa a perdifiato aveva anticipato
il travaglio e occorreva trovare al più presto un rifugio. Tuttavia, l’ultima
doglia le aveva fatto perdere terreno e ora si trovava a poca distanza dagli
inseguitori, tanto che le pareva quasi di sentirne il fiato sul collo. La
femmina di unicorno osò dare una sbirciata indietro, e fu proprio in quel
momento che una delle creature malvagie riuscì a sfiorarla.
Lei ne
intravide appena la sagoma terrificante. Appartenevano alla razza delle arpie e
l’avevano raggiunta un istante prima degli altri inseguitori. Era talmente
terrorizzata che non avvertì dolore al tocco degli artigli, ma forse non si
accorse nemmeno di essere stata graffiata.
Era bastato intravedere le figure delle inseguitrici perché nei suoi
occhi sbarrati vibrasse un orrore senza infinito.
Eppure,
fu quello stesso terrore che le alimentò nuovo vigore spronandola ad
accelerare.

La
giumenta dimenticò il dolore del travaglio, la stanchezza e il martellare del
cuore nel petto. Con un ultimo, prodigioso balzo in avanti aumentò le falcate e
galoppò via divorando il terreno e lasciandosi alle spalle lo strepito e le
strida degli inseguitori.
L’incontro
con la silfide
Era
riuscita a lasciarsi dietro la cacofonia di strida selvagge, ma ora doveva
trovare in fretta un riparo per poter partorire al sicuro.
La
femmina era molto giovane e al suo primo travaglio, e per questo motivo del
tutto inesperta e molto spaventata, oltre che stremata. Arrivata ai margini di
una foresta, vi si addentrò senza indugio, anche se consapevole che fitta selva
di rovi e di felci poteva anche nascondersi qualche belva affamata in attesa di
preda.
I suoi fianchi
sussultarono con un tremito convulso, mentre si aggirava sempre più trafelata
in cerca di rifugio. All’improvviso avvertì qualcosa d’indefinibile nell’aria e
s’immobilizzò. Tese i sensi allo spasimo
dilatando le froge e annusando, scrutando intorno attentamente.
I suoi
occhi rotearono dal terrore di veder apparire altre creature malvagie ma il
bosco, la natura intera, tutto sembrava cristallizzato, come in attesa di
qualche evento straordinario. La giumenta divenne sempre più nervosa. Nessun
richiamo e nemmeno un alito di vento a smuovere le fronde.
Avvertì
un fruscio, forse un sussurro. Qualcuno la stava chiamando e lei quasi
dimenticò la paura. Si trattava di un canto dolcissimo, una
melodia, un invito allettante. Che fosse una trappola? Come avrebbe potuto
essere così soave?
Ormai al limite delle forze, si arrese e, come
attirata da fili invisibili, si trovò costretta a seguire la scia di quella
nenia dolcissima.
Così, tra
l’intreccio di fronde e di rami, la intravide.
Era
bellissima! Una silfide. Una creatura arcana nata dalla stessa magia benefica a
cui apparteneva anche l’unicorno. La fanciulla, perché questo sembrava, volteggiava
con grazia coperta da una veste impalpabile lunga fino ai piedi. Danzava senza
staccare gli occhi di dosso alla femmina in affanno e invitandola con i gesti. Leggiadra, talmente diafana da poter sembrare
evanescente e dalle movenze ipnotiche che la invitavano a non aver paura e ad
avvicinarsi. «Vieni con me, Danae. Seguimi.» cantavano le note della melodia,
mentre le labbra della silfide rimanevano dischiuse in un sorriso dolcissimo.
Sentirsi
chiamare per nome, con quella tonalità così soave, era un invito a cui la
giumenta non seppe resistere e, in modo remissivo, seguì l’incantevole
creatura.
Danae
rimase ammaliata dal canto della silfide e dimenticò la stanchezza.
In pochi
minuti, si trovarono in un posto fiabesco. L'acqua del ruscello scorreva così
quietamente da provocare appena un suono argentino e un leggero fruscio; refoli
gentili di vento facevano stormire le fronde e le cullavano nell'aria, facendo
danzare tante belle spore dorate. A Danae sembrò nevicasse un pulviscolo
prezioso.
Presa
dalla malia del luogo decise che quello fosse il posto giusto per partorire la
sua creatura e il suo animo si rasserenò, quindi si stese su un fianco.
La
graziosa fanciulla, che si chiamava Chrisell, le s'avvicinò, sorridendo
all’animale sofferente.
«Permettimi
di aiutarti e lenire il tuo dolore, Danae!» le sussurrò con dolcezza e la
femmina socchiuse gli occhi abbandonandosi a quelle mani minute che iniziarono
a carezzarle il ventre gonfio e contratto. Il sollievo fu immediato ma non durò
a lungo. Le contrazioni aumentarono e, assalita da una fitta atroce, iniziò a
tremare in modo convulso.
Eppure,
bastava la vicinanza della silfide, le sue mani delicate e il canto appena
appena sussurrato per alleviare un po’ il dolore e donarle conforto. Danae
ringraziò le stelle per averle offerto quel magico incontro. Almeno non era più
sola ad affrontare quel drammatico momento.
La natura
fece il suo corso moltiplicando le contrazioni e rendendo sempre più affannoso
il respiro della partoriente, che serrò gli occhi cercando di spingere con
tutte le sue forze; all'ennesima contrazione, finalmente il piccolo venne alla
luce. La silfide lo accolse amorevolmente tra le sue mani.
Seppur
esausta, la madre guardò la giovane che l'aveva assistita con gratitudine, poi,
sollevando il collo, si protese con le labbra vellutate a leccare il suo
cucciolo, ripulendolo amorevolmente. Quindi iniziò a sospingerlo con
delicatezza, dandogli piccoli colpetti col muso e stimolandolo così ad alzarsi.
Rabbrividendo, il piccolo cercò di sollevarsi sulle vacillanti ed esili
zampette, e dopo svariati tentativi e tentennamenti, finalmente riuscì a
rimanere con orgoglio ben ritto sulle zampette, tese spasmodicamente sul
terreno. La madre lo osservava con quei due grandi occhi stanchi, soddisfatta
di aver messo al mondo quel piccolo così sano, così vispo e così bello. Scambiò
un’ultima occhiata con la silfide.
“Prenditi
cura del mio piccolo, ti prego!” supplicavano quegli occhi, ormai velati di
lacrime e di gelida oscurità.
Chrisell
annuì in quel suo modo soave «Vai e galoppa serena per la Celeste Prateria. La tua creatura è al sicuro.» le disse, continuando
ad accarezzarla, fino a quando con un ultimo sospiro la femmina di unicorno
morì.
Chrisell pianse,
sfiorando con tenerezza il muso vellutato, quindi rivolse la sua attenzione
all’orfano. Come avrebbe fatto a mantenere la promessa appena fatta? Un
neonato, di qualunque specie aveva bisogno di cure assidue. Per lei non era
possibile accudire quel puledrino e occorreva trovare una balia che lo nutrisse
e che si occupasse a tempo pieno di lui.
Proprio
in quel momento il puledro abbassò il musetto in cerca delle mammelle della
madre e non trovando il liquido caldo e zuccherino a cui tanto aspirava, emise
un gemito sommesso. La giovane dovette costringere il piccolo a staccarsi,
strappandolo a viva forza dal corpo senza vita della giumenta. Ma il neonato non
voleva saperne di allontanarsi dall'odore così rassicurante del corpo impresso
nelle sue froge sin dai primi attimi di vita. La diafana creatura si vide
costretta a domandare l'aiuto delle sorelle. Intonò quindi il suo richiamo con
un canto melodioso che si espanse subito nell'aria e che, trasportato sulle ali
del vento, raggiunse le altre silfidi.
La radura in cui era avvenuto il parto venne
avvolta in un turbinio improvviso di foglie, petali e pulviscolo dorato, mentre
Chrisell e il neonato unicorno assistettero alla comparsa di un gruppo di silfidi.
L’aria si colmò delle voci argentine delle magiche creature, e subito fu un
intreccio di sussurri e di risatine gioiose, mentre le esili fanciulle volteggiavano
graziosamente intorno a Chrisell e al suo protetto.
«Che è
accaduto, Chrisell?» domandò Shaila, quella che tra loro sembrava la più
anziana rivolgendo uno sguardo colmo di malinconia verso il corpo esanime della
giumenta.
«Si è
appena conclusa una terrificante disgrazia. Non ho potuto fare nulla per
salvarla» rispose «Ma ora mi occorre il vostro aiuto, sorelle. Ho promesso alla madre che non avrei
abbandonato il suo piccolo e adesso non so come fare. Datemi un consiglio, vi
prego!»
«Occorre
innanzitutto trovare una balia per questa creatura, altrimenti morirà di fame.
Quando avremo risolto questo, discuteremo quello che sarà meglio per lui»
rispose Shaila, con tono assennato.
Chrisell
tirò un sospiro di sollievo. Essendosi ritrovata completamente sola ad
affrontare quell’emergenza, aveva passato ore ed ore colme di ansia e inquietudine.
Ma adesso finalmente poteva rilassarsi, perché le sue sorelle l’avrebbero
aiutata a risolvere quel grosso problema. Per fortuna il bosco era colmo di
creature che avevano da poco partorito, e per le silfidi non fu difficile
trovare una balia per il piccolo. Shaila scelse una cerva dagli occhi dolci e
dal temperamento mite. Nel momento in cui la giovane madre stava allattando il
suo cerbiatto le avvicinò il piccolo e, con il suo fare soave, la convinse a
nutrire anche l’orfano.
Il
neonato esitò solo un istante, poi, appena le minuscole froge si colmarono
dell'invitante odore di latte, s'attaccò, suggendo voracemente.
Un
incantesimo
Chrisell non
aveva smesso un istante di pensare a come sistemare in modo definitivo il
puledro; si era accorta sin dai primi momenti di vita che era stato contagiato
dal sangue materno. Evidentemente, la giumenta, presa com'era dall’impeto della
precipitosa fuga, non si era resa conto di essere stata ferita da una delle
arpie, che Chrisell sapeva fosse una specie velenosa. Con gli artigli, il
malefico uccello le aveva inoculato il veleno infettando poi anche il sangue
del suo puledro.
La
silfide aveva chiesto aiuto alle sorelle omettendo quel particolare perché se lo
avessero saputo il piccolo unicorno sarebbe stato condannato a morire.
“Come
fare?” Quella domanda era diventata ossessiva per l'eterea ragazza. Si
arrovellava nei suoi dubbi e nelle sue paure. Doveva trovare una soluzione prima che le
altre scoprissero la verità. Si sentiva in obbligo di farlo perché, oltre a
essersi affezionata al cucciolo, aveva anche promesso a sua madre che avrebbe
badato a lui.
Il
pensiero della Dama del bosco, sovrana del regno del bene, sempre gentile e
disponibile come insegnante di magia, nonché prodiga di buoni consigli, le
balenò nella mente, e Chrisell si affrettò a raggiungerla nella sua dimora
abituale, con il puledro al seguito.
«Qual
buon vento ti porta da me?» le domandò in tono dolce la fata, signora e padrona
di ogni angolo della foresta.
«Sono qui
per chiedere un consiglio, mia signora.»
La Dama Silvestre
scrutò con attenzione il puledro e scosse lievemente la testa.
«Suppongo
che si tratti dell’unicorno e mi dispiace doverti dire che il suo destino è
segnato.»
La
silfide rabbrividì. Quella risposta le colmò l’animo d’apprensione e presagi
funesti. Le visioni di morte e desolazione si moltiplicarono nella sua mente.
«Allora è
proprio vero che è condannato a morire?» riuscì a balbettare.
La
creatura magica annuì: «Lo vedi da te che è stato infettato e sai anche che il
veleno inoculato dagli artigli maligni non lascia scampo alcuno. Questo piccolo
è condannato a una terribile mutazione, e per evitare che possa spargere il
male nel resto del mondo, occorre che muoia.»
Gli occhi
di Chrisell si inondarono di lacrime. «Ma non è giusto! È così piccolo e
indifeso, senza nessuna colpa. Tu hai il potere della magia bianca tra le mani,
e se vuoi, puoi aiutarlo.» La fata del bosco guardò indulgente l'esile figura
di donna che con passione e determinazione perorava la causa del piccolo
cercando di salvarlo.
Silvestre
le aveva fatto da maestra, l’aveva guidata e sostenuta durante tutto il lungo e
difficoltoso tragitto dell’apprendimento. Chrisell era una delle allieve
migliori della fata, e si faceva apprezzare per le sue doti di umiltà e
schiettezza. La silfide era considerata da tutti una creatura briosa e nello
stesso tempo dolce, remissiva, e per queste sue peculiarità, la Dama l’aveva
presa a benvolere. Presa da un moto di tenerezza, le sorrise dolcemente dicendole:
«Io non ho l'autorità necessaria per interferire con ciò che è stato scritto
nel libro del destino. Tuttavia, posso cercare di fare in modo che lo stesso si
compia, tentando di limitarne le conseguenze.»
“Una risposta sibillina degna di una fata
maggiore” pensò la silfide, che però rimase in silenzio, in rispettosa attesa.
Silvestre
sorrise. Dal momento stesso in cui aveva visto arrivare l’eterea creatura con
al seguito il puledro aveva iniziato ad arrovellarsi per cercare una soluzione
adeguata, e forse adesso l’aveva trovata.
«Mia
piccola Chrisell» iniziò a dire con tono materno, «So che non lasceresti mai il
luogo magico in cui sei nata a cuor leggero; tuttavia, credo proprio che se
desideri veramente salvare questo cucciolo, tu ti debba sacrificare.»
La
silfide sgranò gli occhi, stupita e impaurita. Quale sacrificio le avrebbe
chiesto la fata? «Mi hai chiesto di aiutarti e non trovo altra soluzione che
proporti di accompagnare il piccolo nel mondo degli umani, dove credo possa
iniziare una nuova vita senza correre altri pericoli.»
Silvestre
lasciò che Chrisell assimilasse il concetto appena esposto, ma la silfide
continuava a rimanere immobile, come basita da quell’idea. Allora continuò: «Se sei disposta ad
assumerti questo onere, dovrò compiere un incantesimo che nasconda a tutti le
caratteristiche della sua razza, compreso il corno sulla sua fronte e la sua
natura magica. E ovviamente, anche il piccolo dovrà ignorare il fatto di essere
stato un unicorno. Quindi, dal momento stesso che pronuncerò la formula
dell’incantesimo, perderà non solo la memoria di quello che è stato, ma anche
qualsiasi istinto che possa rammentarglielo in qualche modo. Sei disposta ad affrontare tutte le
responsabilità che un simile viaggio prevede?»

Il
colorito della silfide, già di per sé abbastanza pallido, divenne terreo,
mentre la timida creatura dei boschi ritrovava appena il modo di rispondere:
«Il mondo degli umani? Ma non mi sono mai mossa da qui, non ho mai… lasciato
questo bosco e le mie sorelle! Il mondo degli umani è così alieno, così…
lontano! Come farò ad arrivarci?»
Il cuore di Silvestre palpitò dall’emozione.
L’atteggiamento timido e schivo della silfide la inteneriva, e se avesse
potuto, non l’avrebbe certo costretta a un tale sacrificio.
«Stai
tranquilla! Aprirò per voi un varco dal quale vi sarà possibile il passaggio
dal mondo arcano a quello del genere umano. Quando riterrai di aver trovato la
persona giusta per occuparsi del piccolo, potrai fare ritorno nella nostra
dimensione.»
Chrisell
emise un sospiro di rassegnazione e la fata le sorrise. «Non devi temere, cara.
Vedrai, non sarà difficile trovare una persona fidata. Inoltre, ti accompagnerò
io stessa al varco, e mi troverai lì ad attenderti al tuo ritorno.»
Lo
sguardo della giovane si posò con ansia dapprima sul puledro, quindi sulla
fata, e tirato un altro grosso respiro di rassegnazione, annuì. «Va bene, andrò.
E ti prometto che farò del mio meglio per portare a termine il compito che mi
hai affidato.»
«Brava
Chrisell! E io sono sicura che ci riuscirai!»
Fata
Silvestre non perse tempo e si concentrò, posando le mani sul candido collo
dell’unicorno, quindi mormorò la sua formula magica. L'incantesimo ebbe effetto
immediato; il piccolo corno a torciglione cominciò a ritrarsi fino a sparire,
la lunga criniera perse la sua lucidità e s'accorciò sfoltendosi, così come la
superba e ricca coda, che si ridusse a un misero spolverino. Del mitico e
bellissimo unicorno rimase solo il pelo candido, ma la fata affermò, decisa,
che ben presto anche quel candore sarebbe scomparso, lasciando il posto a un
manto nerissimo.
«Ora il
tuo piccolo amico è diventato agli occhi di tutti un cavallino. Ed è un compito
molto delicato quello che dovrai assolvere ora.
Conducilo sulla terra, e scegli con attenzione la persona che in futuro
se ne dovrà occupare. Il destino di questo puledro dipenderà dalla tua scelta.»
«Cercherò
di valutare bene prima di decidere» esclamò con fervore la giovane.
«Allora
posso procedere. Sei pronta ad affrontare il viaggio?» Il cuore della silfide
prese a battere in modo convulso. Il momento tanto temuto era arrivato.
Deglutì a
vuoto, mentre rispondeva: «Sono pronta!»
Se anche
rivelò una piccola esitazione, Silvestre non diede segno di essersene accorta.
«Bene!» disse, socchiudendo gli occhi e mormorando alcune parole misteriose.
Subito dopo, nel cielo limpidissimo fece la sua repentina comparsa un ponte
iridato che si estendeva davanti a loro all’infinito, fino all’orizzonte. La
donna più anziana prese per un braccio l’esile creatura. Chrisell posò con
delicatezza una mano sul collo del piccolo unicorno, che se ne stava docilmente
in attesa accanto a loro. Quindi,
mantenendo la promessa, la fata li accompagnò attraverso l’arcobaleno, sino al
portale che si era spalancato e che permetteva il passaggio tra i due
differenti mondi.
La
giovane ebbe la sensazione di camminare sulle nuvole e sorrise, lieta delle
sensazioni percepite. L’incredibile, magico sentiero aveva una consistenza
morbida sotto i suoi piedini nudi, e lei, ormai ammaliata dalla spettacolarità
dell’evento, riusciva a vedere il mondo sottostante attraverso la trasparenza e
l’iridescenza dei colori acquarello.
Camminarono
per qualche minuto, immersi nel silenzio maestoso della natura, rotto solo dal
sibilo del vento. Il varco si stagliò davanti a loro all’improvviso, sempre più
vicino e minaccioso, e Chrisell lo guardò con apprensione; quell’enorme antro
oscuro le apparve simile alle fauci
spalancate di un gigante.
La fata
si avvide dell’esitazione della silfide e le sorrise per esortarla a varcare la
soglia. «Coraggio! Non è poi tanto terribile come sembra. È una questione di
attimi, e fatti pochi passi ti ritroverai dall’altra parte. Vai, il portale non
rimarrà aperto a lungo.»
«E se
restassi prigioniera di là?» domandò, sgranando gli occhi, quasi fulminata
dalla terrificante prospettiva.
«Stai
tranquilla! Non accadrà se smetti di agitarti e di rimandare l’ingresso. Il
portale si chiuderà dopo il tuo passaggio, ma basterà che tu mi mandi un
messaggio mentale quando avrai svolto la missione e vorrai tornare.»
L’esile
fanciulla emise un sospiro profondo, quindi si congedò ringraziando: «Io e il
piccolo ti siamo profondamente grati.»
«È stato
fortunato a incontrare te! Ti deve la vita due volte. E ora vai! Al tuo ritorno
mi ritroverai qui, come promesso. Che la luce della saggezza illumini sempre i
sentieri della tua vita, Chrisell!»
«E anche
i tuoi! Arrivederci, Dama del bosco!»