Fantasia

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La brama della scrittura arde come una fiamma in un cuor propenso. Vivì

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sabato 3 luglio 2021

Ali candide nel cielo (4a parte)

 




Certo di aver domato i caratteri ribelli dei prigionieri, Zephar si accomodò sul trono, quindi, piluccando con indifferenza due acini d’uva che un servo gli offriva su un vassoio d’argento, aggiunse: «Esigo che mi mostriate la vostra ubbidienza inginocchiandovi entrambi davanti a me! Ora! Subito!»

I due giovani ebbero qualche istante d’esitazione e tra i sudditi si propagò un mormorio. Tra Mark e Gylldor intercorse un’occhiata interrogativa. Ognuno cercava nell’altro un appoggio, un suggerimento sul da farsi. Piegarsi ai voleri del tiranno cercando in seguito una soluzione ai loro problemi o ribellarsi e sfidarne la collera andando incontro a chissà quale punizione?

Quasi a sottolineare quella sinistra prospettiva, nel salone si espanse il gracidare malevolo delle arpie e un senso di gelo pervase tutti gli presenti. “In ginocchio! In ginocchio!” gracchiavano fastidiose, ma i due prigionieri le ignorarono come se non fossero esistite.

“Qualsiasi cosa deciderai, sarò con te, Gylldor” comunicò Mark nel loro dialogare silenzioso, e l’unicorno annuì.

Seppur a malincuore, il puledro abbassò il capo e i garretti in un inchino appena accennato e il ragazzo ne seguì l’esempio piegando un ginocchio e la testa.

«Non si può dire che l’abbiate fatto con vera partecipazione» ghignò Zephar, schernendoli «ma per oggi mi ritengo soddisfatto per quanto ottenuto e vi congedo, con la speranza che in futuro mostriate più impegno. Tuttavia, vorrei ricordaste un ultimo avvertimento: non mi deludete e il vostro soggiorno in questa dimensione potrebbe risultare addirittura piacevole, ma se mi tradirete nessuna punizione sarà abbastanza temibile prima della vostra condanna a morte. Mi sono spiegato?» domandò con tono truce.

La risposta dei prigionieri fu talmente impercettibile che molti sudditi nemmeno la udirono: «Sì» sussurrano entrambi.

Zephar si sollevò di scatto: «Sì mio signore! Questa deve essere la vostra risposta!»

«Sì. Mio signore.» ripeterono a fior di labbra i due amici.

Il despota si concesse ancora qualche istante, quindi concluse: «Ora vi aspetta un periodo di adattamento e riflessione, il primo nelle segrete del palazzo, mentre tu» disse, rivolto al puledro «andrai nelle stalle e lì sarai attentamente seguito e preparato. Lì avrete modo di decidere da che parte vi conviene stare. Portateli via!» ordinò perentoriamente ai suoi tirapiedi, quindi con un movimento improvviso e aleggiante del suo fosco mantello se ne andò.

I due giovani furono strattonati malamente e costretti ad avviarsi. “Sii forte! Non perdere la speranza!” riuscì a comunicare Gylldor all’amico prima di essere divisi, e Mark, da parte sua, rispose con un pallido sorriso.

Il ragazzo fu scortato nelle segrete sottostanti il tetro palazzo reale, mentre Gylldor fu condotto verso le stalle, presso i recinti in cui venivano addestrati i nuovi arrivati, i più riottosi e recalcitranti a essere assoggettati.

Da quel momento, non si videro più. Entrambi vennero sottoposti a un trattamento coercitivo, atto a piegare la loro volontà. E mentre il ragazzo si angustiava nella sua piccola cella, dove tra l’altro aveva appena lo spazio sufficiente per muoversi, il giovane unicorno fu tenuto prigioniero in una piccola e fatiscente stalla oscura, in totale isolamento.


Mark venne tenuto a regime di pane raffermo e acqua, mentre Gylldor aveva un secchio d'acqua e della biada, appena sufficienti per non morire di fame e di sete. In quella triste situazione, ambedue disperarono di poter tornare liberi e di potersi salvare.


 


La prigionia di Mark

I giorni si accavallarono gli uni agli altri, monotoni e tutti colmi di malinconia per Mark, senza che accadesse nulla di particolare, in completo isolamento. Sembrava proprio che il tiranno si fosse dimenticato di lui. Rinchiuso in quella piccola cella, vi languì per parecchio tempo, mentre si torturava domandandosi che fine avesse fatto il suo amico. Ne sentiva una grande nostalgia. Gylldor, per lui, era l’equivalente di libertà, corse all’aria aperta e gioia di vivere. Quanto gli mancava la compagnia dell’amico!

La cella in cui l’avevano rinchiuso era umida e sporca, e per giaciglio aveva a disposizione soltanto della paglia fetida, colma di parassiti e insetti di ogni tipo.  Per il timore di essere infestato e per la repulsione, Mark preferiva sdraiarsi sul nudo pavimento.

La prima sera aveva pianto in silenzio. Lacrime che nascevano dal cuore.   La sua situazione era veramente disperata. La cella era priva di un qualsiasi affaccio all’esterno, e lui poteva avere solo un’idea approssimativa del tempo a seconda dell’oscurità che piombava all’interno o del poco chiarore che s’infiltrava dagli interstizi della porta sbarrata.

Le domande iniziarono a torturarlo. Cosa aveva fatto di male per meritarsi un regime carcerario così spietato? Nulla, si diceva. Doveva avere pazienza e resistere, perché si trattava soltanto di una rigida tattica del sovrano, atta a fiaccare la sua determinazione.  Ma in breve, le forze gli vennero meno, così come la sua volontà, che pareva affievolirsi ora dopo ora. Si disse che doveva reagire, lasciarsi andare in quel modo significava soltanto infierire sulla propria persona.

Per tenersi occupato e per passare il tempo si mise a osservare lo stillicidio di umidità che filtrava sulla parete e a contare le gocce che sentiva cadere, o i passi dei suoi carcerieri lungo il corridoio. Esclusi quei rumori, il silenzio regnava sovrano, e in alcuni momenti, la disperazione raggiungeva un livello tale da fargli pensare che forse era meglio farla finita piuttosto che impazzire, ma subito dopo, rinsavendo, s’impegnava a escogitare un piano di fuga. Non poteva darla vinta al tiranno; non senza provare a resistere. Ma era più facile a dirsi che a farsi.

Erano giorni che non si lavava, e questo lo deprimeva. Ormai l’odore che emanava il suo corpo, sommato al secchio che fungeva da latrina, lo disgustavano in un modo insopportabile. I suoi capelli, ridotti a un groviglio inestricabile, iniziavano a creargli dei grossi problemi. Per il prurito a cui era soggetto, Mark sospettava che vi avessero fatto il nido degli sgraditi ospiti, e ciò aggiungeva inquietudine all’ansia che lo attanagliava.

Era nei momenti bui di disperazione che tornava ad apparirgli l’immagine sorridente della fanciulla.

In uno dei suoi tanti sogni a occhi aperti stoppò la figura danzante nella sua mente e si mise a osservarla. Di sicuro quella silhouette così longilinea, quasi diafana, con quella pelle così candida e delicata, non apparteneva al genere umano. Non si trattava di una creatura terrestre, concluse. A questo punto, con tutti gli esseri alieni che aveva conosciuto, compreso l’amico unicorno, nulla più riusciva a sorprenderlo.  Il suo unico desiderio, a proposito della sconosciuta, era sapere chi fosse e per quale motivo gli apparisse così di frequente.  Perché ci doveva essere un valido motivo!

E finalmente, un giorno, durante una delle sue fantasticherie, gli parve che lei gli rispondesse: “Non devi torturarti in questo modo. Sono qui per aiutarti. Vedrai, insieme riusciremo a superare questi momenti difficili. Devi solo aver pazienza e fidarti di me!”

Il suono di quella voce argentina lo sorprese e Mark spalancò lo sguardo scandagliando tutti gli angoli della cella e aggrappandosi a quello che era evidentemente un sogno, come un naufrago che si aggrappa a un relitto. «Ma chi sei?» domandò, mentre nell’aria si delineavano i contorni di un’esile figura femminile che piroettava armoniosamente, come se danzasse.

Il ragazzo ne rimase affascinato e per qualche istante la sua prigione si colmò della grazia e della briosità dell’incantevole creatura.

«Cosa sei? Una Ninfa?»

La paura che l’immagine di lei si dissolvesse come neve al sole lo fece tremare.

Lei gli sorrise: «Il mio nome è Chrisell e sono una creatura silvestre.»

All’improvviso Mark intuì: «Sei una silfide!» esclamò, meravigliato dalla rivelazione.

Lei ridacchiò in modo argentino: «Silfide? È così che ci chiamate voi umani?»

Tutto preso dall’incanto della sua grazia, Mark iniziò a balbettare: «Sei… bellissima!»

«Ti ringrazio!» rispose lei sorridendo «Anche tu sei bello quando sei pulito e in ordine.»

Mark arrossì per la vergogna e sentì le lacrime agli occhi per le condizioni pietose in cui si era ridotto il suo corpo.

Con la leggerezza di una farfalla lei gli si avvicinò, ponendogli una lieve carezza sui capelli: «Sono qui per aiutarti.» gli sussurrò con quel suo modo soave.

 Per incanto, i capelli del ragazzo si districarono come avessero vita e tornarono lisci e puliti.

Mark passò una mano sulla testa e sgranò gli occhi incredulo.

«Come…come hai fatto?»

Lei ridacchiò. Quel terrestre, in quel momento e con quell’espressione, aveva proprio un’aria buffa.

Ancora una volta gli piroettò accanto e lo toccò sulle spalle e ancora una volta accadde un prodigio.

Il giovane corpo travagliato per le angherie e la fame subite si rigenerò, tornando solido e soprattutto pulito.

L’espressione di Mark divenne estasiata.

Chrisell continuò poi a danzare, toccando vari punti della cella e, la sporcizia e i cattivi odori, sparirono per incanto.  Per Mark fu un ristoro anche per la mente, anche se, tutto preso dalla presenza della fanciulla, si rese appena conto del cambiamento che avveniva intorno a lui.

La silfide, forse per accertarsi di non avere tralasciato nessun particolare, scrutò con attenzione il giovane prigioniero, quindi, con un briciolo di malizia, gli rispose: «Ora sì, che sei bellissimo!» e subito dopo, forse per un eccesso di pudore, scomparve.

Inutilmente Mark provò a riacciuffarne la visione; la sua coscienza, ormai del tutto vigile, lo costrinse ad aprire gli occhi tenuti serrati fino a quel momento, e il ragazzo si ritrovò di nuovo desolatamente solo.

«Perché te ne sei andata? Chrisell, sei solo un sogno o la mia dannazione?» domandò, quasi urlando verso la gelida parete della cella.

«Smettila di strillare, umano, se non vuoi che entri a fustigarti!» sbraitò qualcuno all’esterno, battendo sull’anta della massiccia porta di legno.

Il ragazzo sobbalzò. Lo spioncino di cui era fornita la porta si era spalancato, e l’occhio di un essere misterioso lo stava osservando, malevolo e minaccioso. Mark distolse lo sguardo e si rannicchiò con le ginocchia strette al petto e le spalle al muro cercando di calmare i battiti sordi del cuore.


“Devi stare tranquillo!” gli suggerì, nella mente, l’eco di una voce gentile.

“Non andare via! Non lasciarmi solo!” pregò col pensiero. “Mi sei rimasta solo tu!”

“Tornerò presto! Te lo prometto! Appena posso torno da te.”

Poi Mark avvertì soltanto un silenzio desolante, quindi i suoi occhi s’inumidirono di pianto. Il guardiano, ancora fermo a scrutarlo, dovette cogliere quell’attimo di sconforto e, travisandolo per vigliaccheria, lo schernì: «Gli umani…puah! Esseri insignificanti, pavidi e abominevoli. Che se ne farà il sovrano di una creatura così squallida? Bah!» e sbatté con vigore lo spioncino.

Mentre i passi si allontanavano, Mark riuscì a cogliere un particolare divertente: chissà da quale essere mostruoso e dalle fattezze bizzarre ne venivano quegli improperi sulla natura del prigioniero! Poi ritornò col pensiero alla silfide, e fu questo a rincuorarlo. Lei non solo gli aveva promesso che sarebbe tornata, ma un attimo prima di svanire nel nulla, gli aveva anche fatto un complimento. Avvertì di nuovo un languore, poi un subbuglio nel suo intimo e arrossì, compiaciuto e confuso. Quella ragazza lo faceva impazzire, pensò, poi all’improvviso si rese conto che qualcosa era cambiato.

Cos’era? si domandò alzandosi in piedi.

Il puzzo nauseabondo che emanava il suo corpo era svanito, così come quello emanato dal bugliolo in cui espletava i suoi bisogni. Poco prima non si era reso conto del tutto del prodigio in atto. Era troppo confuso e troppo preso da quella visione meravigliosa, che aveva spazzato via gli orrori e la angoscia di quella incomprensibile prigionia.

Mark passò una mano sui capelli tornati lisci e soffici, liberi da parassiti, come la paglia del suo giaciglio del resto. Chrisell era una creatura magica e aveva fatto un incantesimo. Mark si commosse. “Non sei solo un sogno, allora!” Dopo tanta sofferenza, aveva motivo di rallegrarsi: non era più solo, poteva contare nuovamente sull’amicizia e sull’affetto di qualcuno.

Il suo sguardo vagò per tutto il locale angusto e il pensiero che anche i suoi aguzzini notassero i cambiamenti avvenuti, lo assalì all’improvviso.

“Non preoccuparti! I tuoi guardiani sono esseri ottusi e non si accorgeranno di nulla!” le suggerì una vocina e poi fu di nuovo silenzio.

“Grazie per essere con me! Grazie di esistere!” disse, sorridendo all’aria intorno a sé.

Poi fu il pensiero di Gylldor che arrivò ad angustiarlo e pregò per il benessere e l’incolumità del puledro.

“Amico mio, riuscirò mai a riabbracciarti?” pensò, immergendosi nei ricordi delle loro folli corse sui prati.

Da quel giorno altro tempo passò senza che accadesse nulla di nuovo. Sostenuto dal piacevole ricordo della silfide, Mark si tranquillizzò; e forse fu questo suo atteggiamento remissivo verso i suoi carcerieri a premiarlo, perché un giorno due guardie entrarono nella cella.

Il ragazzo era preso dal torpore dettato dalla monotonia delle innumerevoli ore passate a rimuginare sempre sulle stesse cose, e il rumore del chiavistello che scorreva rumorosamente lo fece trasalire. L’arrivo dei due sgherri non faceva presagire nulla di buono, e Mark, davanti alle colossali presenze, si appiattì contro il muro.

«Vieni con noi!» esclamò con cipiglio duro uno dei due afferrandolo con decisione per un braccio. L’altro carceriere rimase immobile limitandosi a fissarlo con aria indecifrabile. A Mark sembrò una statua di marmo, e sotto quello sguardo vacuo si sentì a disagio.

Con un atteggiamento autoritario l’altro lo riprese: «Muoviti, Norok, non stare lì impalato!»

Con il volto granitico e inespressivo, la creatura chiamata Norok si mosse, e senza misurare la potenza della sua presa, afferrò il giovane per la spalla.

Mark si lasciò sfuggire un gemito di dolore e inutilmente tentò di sottrarsi alla presa dell’energumeno, al cui confronto si poteva definire un fuscello.

Senza alcun preavviso, l’altro assestò un vigoroso pugno sul bicipite possente del compagno costringendolo ad allentare la presa, poi, scuotendo il capo, lo insultò: «Stupida creatura! Ti avevo avvertito di non esagerare! Eppure, conosci gli ordini del sovrano!»

Norok sembrò non accusare nemmeno il colpo ricevuto, ma continuando a osservare il prigioniero con espressione da ebete ribatté: «Smettila di insultarmi, Taresh. Ognuno ha i suoi modi e i suoi tempi!» 

«Puah!» con un gesto di disgusto Taresh sputò per terra, quindi assestò un deciso scrollone al compagno per spronarlo a muoversi.

A quel punto Mark temette che la situazione degenerasse in un furibondo litigio tra i due mastodontici personaggi, ma Norok, oltre ad avere un evidente ritardo mentale, doveva essere una creatura dall’indole arrendevole, perché si limitò a obiettare: «Noi siamo amici, Taresh, e non capisco perché mi tratti così in malo modo.»

«Continua pure a non capire, ma aiutami a scortare questo disgraziato così come ci è stato ordinato.»

«Va bene. Va bene. In fondo sei tu il capo» disse Norok avvicinandosi al prigioniero.

Il ragazzo si sentì sollevare da entrambe le parti e trasportato lungo il corridoio.

«Lasciatemi! Sono in grado di camminare da solo!» protestò, invano mentre i suoi piedi scalciavano in aria.

Se non fosse stato per un senso di pudore, oltre a gridare, avrebbe anche pianto. Ormai, dopo giorni e giorni vissuti nell’angoscia e nella completa solitudine, il timore di quanto poteva ancora accadergli gli aveva fiaccato sia il coraggio che la determinazione, che erano invece caratteristiche della sua indole. Nella mente gli balenò il ricordo del viscidume sparso sul pavimento della sala del trono dovuto al sangue che era scorso per le esecuzioni, e il suo animo per un attimo vacillò. La paura di morire tra le più atroci sofferenze gli torse le budella.

«Dove mi portate?» balbettò, ormai certo che fosse arrivato alla fine dei suoi giorni. La domanda rimase senza risposta, ma per fortuna i suoi peggiori timori non si avverarono. I suoi aguzzini si fermarono davanti a una porta, quindi venne letteralmente scaraventato in una cella un po’ più grande di quella precedente.

«Se fosse dipeso da me, ci saresti marcito in fondo a quella latrina, umano!» gli sibilò Taresh, poi, affibbiandogli uno spintone violento, lo lasciarono solo. Come Chrisell gli aveva assicurato, i carcerieri non si erano accorti del cambiamento.

Si sentì lo sferragliare degli ingranaggi della serratura, poi tornò il silenzio.

Con un gran sospiro di sollievo, Mark prese atto che la nuova prigionia era quasi lussuosa in confronto alla precedente. Innanzitutto, prendeva luce da una finestra piccola e sbarrata, che gli permetteva di distinguere bene il passare delle ore, e già questo gli donava un certo sollievo. Inoltre, la cella era fornita di paglia fresca e soffice, a prima vista del tutto priva di parassiti. In un angolo qualcuno si era premurato di lasciare acqua fresca e una ciotola di minestra ancora fumante. “Si trattava di un premio?” si domandò Mark. Il demone chiamato Zephar aveva cambiato tattica? Tanto meglio, si disse. La sua situazione andava sicuramente a migliorare, ma il sovrano s’illudeva: niente e nessuno avrebbe potuto costringerlo ad arrendersi al male.

Riguardo la sua condizione, il ragazzo aveva visto giusto. Il cibo e il trattamento riservatogli dai guardiani erano senz’altro migliori, e forse questo apriva uno spiraglio sul suo futuro. “Forse non tutto è perduto!” si disse, sentendo rifiorire una fievole speranza. Eppure, il pensiero di Gylldor tornò a ossessionarlo. Che fine aveva fatto il suo amico? Dov’era, e come lo trattavano? Sempre che fosse ancora vivo!

L’idea della morte gli procurò l’ennesima fitta dolorosa al ventre. «No! Gylldor non può essere morto! Una creatura così bella e unica come lui non può essere scomparsa. È l’ultimo della sua specie, e nelle sue vene scorre sangue reale, non può finire nel nulla la sua stirpe» si disse per rincuorarsi.

«Hai ragione!» sentì sussurrare al suo fianco. Mark si volse di scatto e vide il volto dolcissimo della silfide che gli sorrideva.

«Gylldor è vivo e ti sta aspettando!»

«Sei tornata!» esclamò stupidamente, mentre il suo cuore aveva accelerato i battiti.

«Perché ti meravigli? Te lo avevo promesso!»

Mark d’istinto le afferrò le mani. Erano morbide, lisce e piccolissime. Un senso di tenerezza infinita e devozione gli invase la mente.  Se le accostò alle labbra depositandovi un bacio lievissimo. Chrisell lo guardò con espressione sorpresa, poi arrossì e sorrise, confusa da quel gesto così intimo ma così tanto spontaneo.

«Sono felice che tu sia qui!» le confessò lui, «Anche se me lo avevi promesso, temevo che accadesse qualcosa che t’impedisse di tornare. Lo so che posso apparire stupido, ma qui mi sento come un naufrago, e tu sei la mia àncora di salvezza.»

La silfide lasciò le sue mani in quelle del giovane, e neppure per un istante tentò di sottrarsi agli sguardi amorevoli in cui Mark l’avvolgeva.

Tra i due intercorsero attimi di pura magia, e fu solo un rumore sopraggiunto dal corridoio a strapparli dal loro incanto e a riportarli alla realtà. Le mani si sciolsero e loro rimasero con i sensi tesi, pronti a captare il minimo segnale di pericolo, ma oltre allo sgocciolio dell’acqua sui muri non avvertirono più alcun suono.

«A volte ti chiamo e tu non rispondi. Dove vai quando scompari? Anche solo invisibile, non puoi rimanere qui con me?»

Lei gli sorrise con mestizia: «Non posso trattenermi più del dovuto, Mark. Sono una creatura appartenente al regno del bene e la mia permanenza in questo luogo malvagio dovrebbe essere limitata a una manciata di minuti. Se mi trattenessi troppo, potrebbe risultare fatale per la mia essenza.»

«Potresti morire?» domandò il ragazzo con aria stralunata.

«Non so cosa potrebbe accadere al mio corpo. Probabilmente perderei tutti i miei poteri e potrei rimanere prigioniera per sempre in questo posto orribile. Proprio come voi, Mark.» Lui rabbrividì «Non vorrei mai che ti accadesse una cosa così. Ma dimmi, che ne sarà di Gylldor? Non so più nulla di lui, e questo mi fa stare male.»

«Sono stata mandata qui per aiutare entrambi, e lo farò.»

«Sei stata mandata?» ripeté stupito «E da chi?»

Lei sorrise in modo misterioso: «Lo saprai presto. Ora devo andare da Gylldor.»

«Vai da lui? Davvero? Ti prego, digli che è sempre nei miei pensieri e che non vedo l’ora di riabbracciarlo! Lo farai?»

«Lo farò! Sta tranquillo» rispose Chrisell mentre la sua figura diventava evanescente per poi svanire nel nulla.

Mark accusò l’ennesimo distacco con una stretta al cuore e sospirò. La presenza della silfide l’aveva rincuorato, e le sue parole l’avevano in parte rassicurato. Ora sapeva che Gylldor era vivo, e la fiamma della speranza tornava vivida nel suo animo.  Subito dopo iniziò a escogitare un piano di fuga.

La prigionia di Gylldor

 

La prigionia dell’unicorno fu altrettanto drammatica e non ebbe subito un risvolto tanto favorevole quanto quella del giovane stalliere.

Gylldor mostrò sin dall’inizio evidenti gesti di ribellione, e per questo motivo il sovrano ordinò che venisse punito in modo più incisivo dai suoi carcerieri. 

Il puledro languì a lungo recluso in una stalla fatiscente e in condizioni al limite della sopravvivenza. Isolato da ogni altro essere vivente, barbaramente impastoiato, torturato e costretto alla fame, le sue zampe prive di forza cedettero dopo pochi giorni. Gylldor crollò su un mucchio di paglia putrescente dove giacque ormai in preda alla debilitazione.

Quando Chrisell apparve al suo fianco, nemmeno si accorse della sua presenza. Le palpebre erano calate e, privo di energia e volontà di riaprirle, l’unicorno viveva da ore in uno stato letargico pietoso.

La silfide s’intristì alla vista di quel corpo ridotto quasi a pelle e ossa, meravigliandosi di trovarlo ancora in vita. La mano della creatura silvestre sfiorò il manto ormai irto di peli ruvidi e ispidi. Chrisell si commosse, avvertendo attraverso il palmo tutta la sofferenza sprigionata da quelle carni martoriate, e un velo di lacrime le appannò la vista: «Gylldor!» sussurrò più volte prima di riuscire a ridestare l’attenzione del puledro.

Lui socchiuse gli occhi senza avere nessun’altra reazione. Il suo sguardo vacuo si posò sulla fanciulla sconosciuta e non mostrò né sorpresa né spavento. Era così malconcio da vedere i lineamenti di Chrisell appannati e sembrava non rendersi conto di quanto avveniva intorno a lui.

«Come ti hanno ridotto?» continuò a sussurrargli lei dolcemente mentre, al passaggio della sua mano sul manto, il pelo riacquistava un minimo di luminosità e morbidezza.

Chrisell estrasse una fiala da una tasca della veste e ne amalgamò con un gesto il misterioso contenuto. Il fluido ambrato emanò bagliori, che ridestarono i sensi dell’unicorno. La silfide aprì l’ampolla e l’accostò alle labbra del puledro, ancora accasciato sul misero giaciglio. Poi, mentre versava il liquido goccia a goccia nella sua bocca, iniziò a salmodiare con tono solenne: «Che questo elisir ridoni energia ai tuoi muscoli, al tuo cuore e alla tua mente, e che il sangue torni a scorrere impetuoso nelle tue vene, principe degli unicorni.»

L’effetto fu immediato. Ogni goccia che Gylldor avvertiva scivolare in gola era un toccasana. Quel liquido gli procurò lo stesso sollievo che causa l’acqua che cade su un terreno arido o che spegne un incendio. Il suo fisico, martoriato da tante vessazioni, bevve le gocce assorbendole come una spugna, e il beneficio ricevuto apparve lampante nello sguardo vigile e curioso che il puledro pose sulla silfide.

«Ti conosco! Io ti ho già vista» esclamò sollevando il collo «Non ricordo quando, ma so che ci siamo già incontrati. Dimmi chi sei, creatura benevola!»

Chrisell ridacchiò per quel tono forse un po’ pomposo. «Ti esprimi proprio con regalità, mio principe» gli disse, accennando un grazioso inchino. «E comunque hai ragione. Ci siamo già incontrati in passato. Mi chiamo Chrisell, e sono io che ti ho accompagnato nella dimensione terrestre quando eri piccolo.»

«Perché mi chiami “Mio principe?”» domandò, provando a rialzarsi sulle zampe, e, seppur a fatica, riuscendoci. I  fianchi dell’unicorno tremarono per lo sforzo e impiegò alcuni secondi a riprendersi.

«Vedrai, tra qualche giorno starai molto meglio.»

«Rispondimi, ti prego! Ho tante domande e troppi dubbi che mi assillano! Ho bisogno di sapere!»

Lei annuì, comprensiva. «Tu sei il vero sovrano di questo regno. Molti anni fa queste terre appartenevano agli unicorni, e tua madre ne era la regina.»

 Lo sguardo dell’unicorno si velò di commozione al pensiero della madre, poi domandò: «Allora Zephar è un usurpatore! Questo regno sarebbe mio di diritto!»

«Sì, mio principe, e farò tutto quello che è in mio potere per aiutarti a riconquistarlo.» «Grazie! Ora ho di nuovo un motivo per tornare a combattere. Lo devo a mia madre e a me stesso! Grazie a te avverto nuova vita e nuova energia scorrere nel mio corpo. Ma dimmi, cosa mi hai dato da bere?»

«Un elisir preparato per te dalla Dama Silvestre.»

Gylldor la scrutò con attenzione. «Credo che tu abbia molte cose da raccontarmi, bella e magica fanciulla.» Lei annuì, sorridendo. Trovava divertente il fatto che l’unicorno, certamente più giovane, la trattasse come fosse lui l’adulto.

«Sono stata mandata per servirti e aiutarti in tutti i modi, mio principe» rispose con umiltà. Lui annuì: «Ne sono felice! Prima, però, devi dirmi del mio amico. Come sta Mark?»

Quel nome la fece arrossire, e Gylldor scambiò l’imbarazzo della giovane per reticenza. «Cosa gli è successo?» domandò allarmato.

La silfide si riprese e lo rassicurò: «Non devi preoccuparti, Mark sta bene e vi rivedrete presto.»

«Allora perché mi sei apparsa così confusa?» domandò ancora scettico il puledro, e lei volse la testa per non mostrare il proprio disagio. Gylldor non insistette e la spronò a parlare: «Scusami se ti ho messa in imbarazzo. Adesso mi racconti qualcosa del mio passato?» Chrisell iniziò il suo racconto dal tragico inseguimento di cui era stata testimone, quindi dell’incontro che lei aveva avuto con la giumenta, del parto e della sua morte. Non tralasciò nessun particolare, fino ad arrivare al consiglio fornito dalla Dama del bosco di accompagnarlo attraverso il portale.

«Ora capisco perché quella soglia m’incuteva così tanto terrore» disse tra sé l’unicorno. «Mia madre, tu l’hai conosciuta. Parlami di lei, ti prego.»

«Si chiamava Danae, ed era una regina dal carattere forte e coraggioso. Ha lottato fino alla fine pur di salvare te e la stirpe reale. Era bellissima, e tu le somigli tanto.»

«Grazie» mormorò il puledro volgendo lo sguardo altrove.

La commozione era palpabile nella cella, e aveva coinvolto entrambe le creature. Il silenzio si protrasse per qualche secondo, poi fu Gylldor a interromperlo con un tono deciso che sorprese la silfide.

«Devo uscire da qui. A qualunque costo!»

«Uscirai presto, ne sono sicura, e da parte mia farò tutto quanto è in mio potere per aiutarti. L’ho già promesso a Mark, e ora lo prometto a te, principe!»

«E allora vai da lui, ti prego! Stagli vicino e rassicuralo. Digli che ci rivedremo presto.» Chrisell fece un lieve inchino, quindi, con una graziosa giravolta, scomparve.

continua... 


                                                   

Racconto pubblicato nel 2012 dalla MorganMiller edizioni

6 commenti:

  1. Atrapante, crece sin fin la historia, Vivi... además se advierte tu pasión al escribir estas historias, amiga. Admirable.

    Abrazo grande.

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  2. Ciao Vivi. Trovo sempre più avvincente questo fantasy e il tuo modo di narrare gli eventi. BRAVISSIMA!!! Con stima ti abbraccio. P.S Pubblica presto il seguito!

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  3. Ciao Vivi, buona domenica.
    Tra un impegno e l'altro mi ero persa questa storia.
    Ora recupero ^_^

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  4. Semplicemente fantastico. A quando il seguito?

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  5. Più lo leggi, più ti attira. È proprio un bel racconto. Buona serata.

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