Mark
Mark si
torturò per giorni nella speranza di riuscire a escogitare un piano di fuga
semplice ma efficace. Ma non era affatto facile evadere da quella prigione; i
muri erano molto antichi, dello spessore di un metro circa, la piccola finestra
sbarrata da solide inferriate, la porta di legno massiccio rinforzata da sbarre
di metallo.
Studiò a
lungo gli orari dei carcerieri, il cambio dei turni, quello dei pasti e quello
dei controlli che venivano effettuati regolarmente attraverso gli spioncini.
Cercò di vagliare ogni minimo particolare, non tralasciando nemmeno di contare
i passi che facevano i carcerieri per coprire la distanza tra la sua cella e la
scala che portava ai piani superiori e quindi all’uscita. Tuttavia, dovette
convenire che la sorveglianza era così stretta da non lasciare speranza di
riuscire a eluderla.
Doveva
arrendersi? No, mai! Giunse quindi alla conclusione che non rimaneva altro che
l'inganno. In fondo, lui stesso si trovava prigioniero nel regno del male, e
forse non sarebbe stato poi così difficile ideare uno stratagemma per
abbindolare i suoi carcerieri. Doveva solo riflettere attentamente e aspettare
con pazienza il momento opportuno. Si mise a osservare le guardie che
s’alternavano nei turni. Non erano molte, ed escluso Taresh, non avevano
un’aria particolarmente intelligente. In modo particolare Norok,
dall’espressione ottusa, quasi da ebete, che Mark definì una creatura insulsa
oltre che bizzarra.
Norok era
un colosso che si muoveva al rallentatore, e questa era una caratteristica che
poteva tornare a suo favore. Il ragazzo decise che fosse lui l’obiettivo più
semplice, e si mise a studiarne le mosse e l’atteggiamento.
Lo colpì
il fatto che Norok camminasse come un automa, un burattino. Lo sguardo che si
posava su Mark era vacuo, senza alcuno sprazzo di discernimento. Possibile che
quell’individuo fosse totalmente privo di senno e di volontà?
La sua
osservazione durò per giorni interi, finché un’idea ben precisa si fece strada
tra le tante vagliate e già scartate: e se avesse tentato d’imitare il
comportamento del gigante? Certo, non poteva sperare che Taresh arrivasse a
credere che un prigioniero, finora orgoglioso e indomabile, fosse
all’improvviso rimbecillito, ma forse, se fosse riuscito a simulare la
rassegnazione e l’abulia di un animo provato da infinite angherie allora, forse,
sarebbe riuscito a convincere il suo carceriere e persino il sovrano.
“Cosa ho
da perdere? Vale la pena vivere una vita senza mai vedere la luce del sole o
senza mai respirare l’aria pura a pieni polmoni?”
«Mark» il
suo nome aleggiò nella cella ancor prima che apparisse la silfide.
«Ti porto
buone notizie. Gylldor sta bene e ti manda un messaggio.»
La gioia che gli procurò quell’annuncio era
pari all’emozione che provò nel risentire la sua voce.
Fu la sensazione
travolgente a indurlo a correre incontro alla giovane, che nel frattempo si era
materializzata.
Chrisell arretrò spaventata, ma lui l’afferrò per la vita sottilissima e la sollevò in aria, come non avesse peso. «Sei più leggera di una piuma!» esclamò ridendo e roteando su se stesso. «Oh come sono felice!» continuò ignorando gli occhi sgranati e l’espressione di lei, tra il timoroso e l’incredulo.
Mark non
smise mai di girare, piroettando con la fanciulla stretta tra le braccia, fino
a che la stanza iniziò a roteare vorticosamente e lui perse l’equilibrio
barcollando e crollando poi, insieme a lei, sul mucchio di fieno.
Entrambi
distesi per terra in una posizione scomposta, si guardarono allibiti, poi
scoppiarono a ridere a crepapelle.
«Sei matto!»
riuscì a dire Chrisell tra un respiro e un singulto, «Sei proprio tutto matto!»
ma, nel frattempo, non riusciva a smettere di ridere.
Quando il
respiro si normalizzò, Mark le si avvicinò e le tolse alcune pagliuzze dai
capelli: «Qual è il messaggio di Gylldor?»
«Ha detto
di stare tranquillo e che presto vi ritroverete. Ma Mark ascolta» lo ammonì con
tono tornato serio «non abbiamo più molto tempo e dobbiamo trovare un modo per
farti uscire da qui.»
«Io un
piano lo avrei già elaborato. Ma non sono sicuro. Se vuoi te ne parlo, così mi
dici cosa ne pensi.»
Il
ragazzo iniziò a spiegare delle sue osservazioni e della sua idea di simulare arrendevolezza,
rassegnazione, disponibilità a collaborare, con l’intento di migliorare la
propria situazione.
«Forse,
con questo cambiamento, quel demone si convincerà che non rappresento più un
problema e allenterà le maglie della sorveglianza. Forse arriverà anche a darmi
fiducia e a liberarmi. È solo questo il mio scopo: voglio tornare libero per
aiutare Gylldor e magari trovare una via di fuga da questo regno malefico. Che
ne dici, Chrisell?»
«Ti
aiuterò, Mark, perché la tua mi sembra una buona idea. Ma secondo me occorre
perfezionarla. Bisogna indurli a credere che la prigionia, le privazioni e i maltrattamenti
subiti abbiano condizionato in modo tale la tua mente e il tuo cuore da
portarti alla follia. Io posso rendere più credibile la tua sceneggiata.»
«Come?»
gli domandò lui con un pizzico di preoccupazione.
«Ti fidi
di me?»
«Tu sei
l’unica amica che ho, oltre a Gylldor naturalmente. Certo che mi fido!»
«E allora
avvicinati e guardami, Mark. Lasciati andare, guarda le mie mani e guarda nei
miei occhi.»
Mark ascoltò con piacere quella voce e quell’invito, si rilassò e seguì con attenzione i movimenti aggraziati delle manine, che sembrava eseguissero una danza davanti al volto delicato della silfide. Chrisell accompagnò i gesti con una nenia dolcissima.
Quella
melodia lo indusse a chiudere gli occhi, e Mark si sentì accarezzare la pelle,
la mente e il cuore, ma subito dopo e in modo anacronistico nella sua memoria
apparve l’immagine di Norok, il gigante dallo sguardo vacuo, e s’immedesimò in
quella figura atona.
«Ora e
solo ora la tua volontà è sopita. Il tuo sguardo diventa vuoto e si fissa
intorno, sfiora appena gli oggetti che lo circondano senza vederli, come se non
esistessero. Eseguirai tutti gli ordini che ti verranno impartiti dagli altri,
a meno che non compromettano la tua sicurezza e fino a quando sentirai la mia
voce ordinarti di risvegliarti. Solo allora tornerai a essere l’individuo che
sei sempre stato. Mi hai inteso, Mark?»
Il
ragazzo riaprì gli occhi, senza peraltro rendersi conto di dove era e cosa ci
fosse intorno a lui. Chrisell agitò una mano davanti al suo volto e constatò
che il suo sguardo rimaneva fisso. Allora la silfide annuì, poi d’istinto
accostò il suo viso a quello del giovane e con le labbra pose un bacio
lievissimo sulla sua bocca socchiusa.
Certa
dell’incoscienza di lui, Chrisell si lasciò andare in una risata argentina e
maliziosa, quindi la sua immagine sfumò lentamente.
«Che le
stelle illuminino la tua strada, Mark!»
La Dama Silvestre
«Ti sei
messa in un bel guaio, ragazza!»
Chrisell,
mortificata, abbassò il capo e lo sguardo. Si era recata dalla sua superiore
per fare rapporto e per domandarle un consiglio, ma la Dama era riuscita a
leggerle nel cuore e la stava redarguendo.
«Innanzitutto,
sei tornata nel regno di Zephar senza mettermi al corrente delle tue
intenzioni, e già solo per questo meriteresti una punizione. Ma non è bastato!
Ti sei lasciata incantare dalle moine di un terrestre, pur essendo consapevole
che non era possibile un’unione tra due creature di genere diverso come siete
tu e quell’umano. E nonostante ciò, ti
sei lasciata andare a un sentimento che non potrà mai avere un futuro. Come ti
giustifichi?»
Chrisell
non riuscì nemmeno a rispondere. Cosa poteva obiettare se già sapeva che
Silvestre aveva ragione?
«Almeno
guardami negli occhi, Chrisell!» la riprese la fata, muovendosi con leggerezza
tra la sua collezione di orchidee. Ve ne erano a centinaia, di tutte le specie
e di tutti i colori, e svettavano tra le felci e il verde della radura simili
ad ali di una miriade di farfalle colorate. La silfide sollevò timidamente la
testa e Silvestre intravide un lucore nello sguardo limpido della giovane.
Allora si mosse a disagio: «Forse un briciolo di colpa ce l’ho anche io. Non
dovevo affidare un compito così gravoso a una ragazzina sprovveduta e
impreparata su tutto ciò che riguarda la dimensione terrena. Ma come potevo
prevedere che le cose sarebbero andate a questo modo?»
«Io non
so come… sia potuto accadere» accennò Chrisell senza riuscire a terminare il
suo pensiero.
«Nemmeno
io lo so» la interruppe brusca Silvestre, ma si pentì subito del suo scatto.
L’atteggiamento mite e contrito mantenuto dalla silfide non poteva che
intenerirla. Era meglio evitare di guardarla, concluse.
«E
comunque ora occorre solo rimediare.» La Dama del bosco tacque, sovrappensiero.
Le sue
dita carezzarono nervosamente un mucchio di orchidee tigrate, e i fiori,
percependo il nervosismo della fata, risposero ritraendosi al tocco. Solo
allora Silvestre riprese: «L’unico modo è esonerarti da questo incarico.
Affiderò il compito ad Ameris, molto più matura di te» terminò, battendo le
mani tre volte.
«No! Ti
prego, no! Lascia che continui a occuparmi io del caso.»
«Non
posso permetterti di combinare qualche sciocchezza. Sei già troppo invischiata
in questa faccenda, sono sicura che ne metteresti a repentaglio la buona
riuscita e per il bene tuo e di tutti quelli coinvolti è meglio che io affidi
il problema ad altri.»
Mentre
nella radura faceva il suo ingresso una giovane silfide di bell’aspetto,
Chrisell si sforzò di non lasciarsi andare in un pianto disperato. Doveva
trovare un motivo valido affinché Silvestre desistesse dalla decisione di
sostituirla.
«Ordina
pure, mia signora» esclamò la nuova venuta con un grazioso inchino.
«Ameris,
ti ho convocata per affidarti un delicato incarico. Desidero che tu ti rechi
nel regno del male per tentare di liberare il principe degli unicorni e un
giovane stalliere di nome Mark. So che tu possiedi abbastanza poteri magici per
affrontare e superare le difficoltà e i pericoli di quel territorio alieno.»
«Farò
come desideri, mia signora, anche se ti confesso che l’idea di affrontare
Zephar non mi alletta per nulla.»
«Naturalmente
non sarai sola. Ti affiancherò dei validi aiuti. Scegli tu le creature magiche
che ti accompagneranno.»
«Fata
Silvestre, perdonami se insisto» intervenne Chrisell «ma soltanto io conosco in
che situazione si trovano Gylldor e Mark. Soltanto io conosco i piani del
ragazzo per la riconquista della libertà.»
La Dama
del bosco l’avvolse con uno sguardo severo: «È inutile, Chrisell. Ho già preso
la mia decisione. Non aggiungere altro e ritirati nella tua radura a riflettere
sul guaio in cui ti sei cacciata. Un periodo d’isolamento non può che farti
bene.»
In quel
momento la silfide vide sfumare tutte le nuove emozioni e le sensazioni
ricevute dall’incontro con Mark. Mai prima d’allora aveva conosciuto un essere
che le trasmettesse altrettanta gioia, allegria e serenità di quella che lei
aveva percepito e provato in compagnia del giovane stalliere.
Davvero
non lo avrebbe più rivisto? Era pronta a dover rinunciare per sempre alla sua
amicizia? No, si disse Chrisell decidendo di mettere in gioco un’ultima
possibilità.
«Vai
pure, Chrisell» la congedò la Dama del bosco, accorgendosi della sua
esitazione.
«Mia
signora, ci sarebbe ancora un particolare importante che non ti ho ancora svelato.»
Le
sopracciglia della creatura più anziana si inarcarono in modo interrogativo.
«Cos’altro dovrei sapere?»
«Ho
sottoposto il giovane stalliere a un incantesimo e solo io ora sono in grado di
scioglierlo.»
«Cosa hai
fatto?» domandò indignata Silvestre. «Oh, santi numi! Questo è veramente
troppo!»
In quel
momento la collera trapelava dal bel viso della dama, ed era evidente lo sforzo
che faceva nel dominarsi. Silvestre respirò più volte prima di riprendere e
prima pensò bene di congedare l’altra silfide. «Vai pure, Ameris! Se avrò
bisogno ti farò chiamare!»
La
giovane s’inchinò con grazia: «Rimango ai tuoi ordini, mia signora!» disse
svanendo.
Rimaste
sole, Silvestre scrutò con severità l’esile fanciulla: «Che genere di
incantesimo?» domandò, ma poi si riprese: «No! Non voglio nemmeno saperlo! Sono
troppo arrabbiata con te, ragazza! Devi essere impazzita!» esclamò, scuotendo
con vigore la testa.
«Ma tu lo
sai che operando l’incantesimo hai corso il rischio di venire scoperta? Ti
trovavi nella dimensione del male oscuro, e tutte le creature arcane avrebbero
potuto avvertire la potenza della tua magia nell’aria. In modo particolare il
sovrano, che è uno degli stregoni più potenti che io conosca.»
«Mia
signora, non sono una sprovveduta come credi! Sono stata attenta. Prima di
agire ho creato una bolla di protezione. Nessuno sarebbe stato in grado di
percepire i filamenti dell’incantesimo intorno a noi, inoltre ci trovavamo
nelle segrete della fortezza, con pareti spesse parecchi metri. Nemmeno il
sovrano credo possegga tutto quel potere.»
«Perlomeno
in questo hai mostrato senno.» convenne la dama, suo malgrado. «Ma ora cosa
devo fare con te, benedetta figliola? Non solo hai agito di testa tua senza
consultarmi, ma hai anche infranto ogni normale regola del buon senso
innamorandoti di quell’umano. E l’incantesimo, poi, con quale intento l’hai
fatto?»
Chrisell
raccontò a Silvestre del piano di Mark e di quanto lei l’avesse perfezionato
«Ecco, ti ho detto tutto, mia signora. Ora non resta altro che attendere e
sperare che il trucco funzioni.»
La dama
annuì. Nonostante tutto, il piano elaborato dalla silfide e dal suo amico
sembrava abbastanza realizzabile, e forse, con un briciolo di fortuna, sarebbe
riuscito.
«Ho preso
la mia decisione, Chrisell. Tornerai nel regno del male e cercherai di portare
a termine il compito che ti sei prefissata. Mi auguro che tu riesca a liberare
il principe degli unicorni e il suo giovane amico, ma ricorda, quando tutta
questa storia sarà finita opererò personalmente un incantesimo su quel
terrestre, facendogli dimenticare tutto l’accaduto.»
Chrisell
non rispose, non poteva, le si era formato un groppo in gola. Non poteva
pensare a quella eventualità senza soffrirne.
«Guardami,
ragazza!» la esortò la dama «Ti mando a malincuore nella tana del lupo, ma solo
perché non posso fare altrimenti. Promettimi che starai attenta e che non
sottovaluterai mai il potere del Signore degli inganni. Ti ho già detto di
quanto sia astuto e intelligente, e quando sarai là non devi dimenticarlo
nemmeno per un istante. Ora desidero farti un dono che penso possa tornarti
utile in caso tu ti trovassi in difficoltà.»
Silvestre
si spostò nei pressi di un tronco cavo adattato a portaoggetti e dall’interno
trasse un’ampolla misteriosa. La tese poi verso la silfide con atteggiamento
solenne.
«Questa è
una pozione magica, Chrisell, da utilizzare solo in caso di estremo pericolo.
Se tu o i tuoi amici veniste aggrediti, la devi spargere intorno a voi in un
cerchio protettivo ed essa agirà bloccando ogni movimento del nemico. Ma
ricorda, l’effetto dura solo pochi minuti, usala sempre con parsimonia perché
un suo abuso potrebbe avere un effetto letale su chi l’adopera.»
«Grazie,
mia signora. Cercherò di seguire tutti i tuoi consigli e vedrai, tornerò con il
principe degli unicorni.»
«Vai ora,
e che le stelle illumino il tuo cammino!»
L’inganno
I
pensieri di Mark aleggiavano nella sua mente come tante farfalle ubriache o impazzite.
Un’idea si faceva strada prendendo consistenza, ma poi finiva per perdersi e
dissolversi nel nulla, e inutilmente il giovane stalliere cercava di fissare la
sua coscienza su un concetto.
Ma la
cosa non gli recava nessun disturbo. Niente poteva scalfire la calma serafica
che aveva pervaso il suo animo, e la sua pazienza che ora sembrava infinita.
Non si
era mai sentito così sereno nella vita, e se anche per qualche istante gli
balenava qualche dubbio sulla sua bizzarra condizione, anche quello finiva per
svanire come se non avesse la minima importanza. L’incantesimo di Chrisell
aveva ottenuto il suo effetto, e qualora gli fosse rimasta una vaga
reminiscenza sulla sua identità e il motivo per cui era prigioniero, non
sarebbe mai riuscito ad approfondirla.
Anche i
suoi carcerieri si erano accorti di questo suo nuovo atteggiamento, e se per i
primi giorni avevano ignorato la sua immobilità e il suo sguardo vacuo, con il
persistere di quel fenomeno avevano dovuto fare rapporto a Taresh.
Mark era
talmente intento a riacciuffare i suoi pensieri che non si rese nemmeno conto
dell’ingresso del gigante nella cella. Lo sgherro gli si pose davanti
afferrandolo per le braccia, ma si rese subito conto che non vi era bisogno di trattenere
con la forza il giovane stalliere.
Difatti,
il prigioniero mostrò di non essere affatto consapevole di quanto avveniva, e
nemmeno dette segno di accorgersi delle dita d’acciaio che stringevano i suoi
muscoli fino all’indolenzimento.
Taresh
afferrò con violenza quel corpo rigido e immobile sollevandolo, così da
trovarsi il viso del ragazzo a pochi centimetri dal proprio. Se anche Mark
avvertì il puzzo di quel alito pesante, non diede segno di disgusto. Nessun
muscolo facciale si mosse, e i suoi occhi rimasero vuoti e fissi nelle iridi
glaciali dello sgherro. Taresh scrollò il corpo penzoloni di Mark, che si mosse
come un pupazzo nelle mani di un burattinaio; solo allora il gigante si
convinse che non c’era finzione e lo lasciò cadere sul pavimento. Senza
rivolgergli una sola parola, il gigante lasciò la cella: «Tenetelo d’occhio»
ordinò alle guardie rimaste ad attenderlo nel corridoio, quindi si avviò a
informare il suo sovrano.
Nella
sala del trono c’era molta agitazione. I cortigiani si erano raggruppati e
parlottavano tra loro come fossero in fibrillazione. Si era sparsa la voce che,
in occasione dell’anniversario della sua incoronazione, il re avesse
organizzato una grande manifestazione con iniziale parata militare. Il corteo
avrebbe dato inizio ai festeggiamenti con musica, cibo e vino a volontà.
Un evento
da considerarsi più unico che raro e di cui approfittare, considerato il clima
di terrore e di oppressione con cui il Malefico teneva sotto controllo i suoi
sudditi.
Quando
Taresh fece il suo ingresso nella sala, il sovrano era appena arrivato e
discuteva con i suoi consiglieri su varie questioni.
«Mio
signore, ti porto una buona notizia» disse, interrompendo i discorsi prolissi
di un cortigiano e inchinandosi davanti al re.
Zephar lo
fulminò con lo sguardo, quindi prese posto sul trono sovrastando persino la
mole gigantesca degli addetti alla sicurezza.
«Mi
auguro davvero che sia buona» affermò studiandosi le unghie lunghissime e
affilate come artigli. Quello era uno dei suoi numerosi vezzi, come il corpo
seminudo, completamente glabro e mantenuto lustro dagli oli essenziali. Il
sovrano aveva una cura maniacale per il fisico, che manteneva in forma con
esercizi quotidiani assai impegnativi. Zephar era molto vanitoso e amava
mettere in mostra la sua figura imponente e statuaria. In quel momento, i
muscoli dei bicipiti e del torace si contrassero e luccicarono, investiti dalla
luce delle lampade. Gli sguardi femminili si fissarono interessati, seguendo
ogni movimento del sovrano.
I maschi
presenti mormorarono contrariati anche se, tutto sommato, subivano loro stessi
il fascino di quella figura carismatica.
«Il
carattere di quell’umano appare del tutto domato, mio signore.»
Le
sopracciglia delineate abilmente dal kohl del tiranno s’inarcarono: «Davvero?» domandò
con aria scettica.
«Sì, mio
signore e ti posso assicurare che non si tratta di una finzione» terminò
Taresh, prevenendo una naturale obiezione.
«Questo
lascia che sia io a verificarlo» disse il re con aria di rimprovero. «Per
quanta fiducia possa riporre in te, preferisco sempre giudicare di persona.»
Sotto lo
sguardo truce del re il carceriere rabbrividì e chinò il capo. Le reazioni del
demone erano sempre imprevedibili.
Zephar
intuì la soggezione del subalterno e per un attimo si divertì. La sua mano
destra si adagiò con lentezza sul pomolo che azionava il trabocchetto mortale e
lì vi rimase per qualche lungo secondo. Nella sala scese un silenzio di piombo
e tutti gli sguardi si posarono sulla figura del carceriere in ginocchio
davanti al trono. Le serpi s’irrigidirono con i corpi tesi allo spasimo e gli
occhietti fiammeggianti mentre, le arpie, si leccarono i rostri con le lunghe
lingue nere. Il gesto del sovrano prometteva sempre un prossimo, succulento
pranzetto.
Taresh,
tenendo il capo chino, sollevò appena lo sguardo spiando le mosse del re, con
il fiato sospeso.
Zephar sorrise tra sé, quindi allontanò la
mano dal pomolo.
«Ora va e
conducilo da me!» ordinò soddisfatto, poi congedò il suo subalterno con un
gesto brusco e tornò a discutere con i consiglieri.
Taresh, sospirò
di sollievo cercando di assumere un’espressione indecifrabile a favore dei
presenti. Poi indietreggiò senza mai
volgere le spalle, quindi arrivato alla porta s’inchinò, e solo allora, non
visto, si lasciò sfuggire una smorfia di stizza per essere stato umiliato
davanti a tutti i cortigiani.
Nel
frattempo, approfittando dell’assenza momentanea del gigante, Chrisell apparve
nella cella di Mark e per un istante si sentì rimordere la coscienza per averlo
ridotto in quello stato.
Il
ragazzo era seduto in posizione statica, il viso immobile con lo sguardo fisso;
non dava alcun segno di essersi accorto della presenza della silfide. Lei
avvertì una morsa fastidiosa serrarle la bocca dello stomaco. Gli si piazzò davanti e, come non le era mai
stato possibile prima, ne studiò attentamente i minimi particolari del volto.
Mark era pallido ed era molto dimagrito, ma la pelle manteneva la bellezza e il
turgore della giovinezza.
Le dita
della silfide ne seguirono i contorni carezzandoli con dolcezza, e un insolito
languore le confuse i sensi. Chrisell fece un sorriso amaro. Quell’umano le
piaceva da impazzire, era disposta ad affrontare ogni sorta di pericolo pur di
liberarlo. Sapeva che il suo sentimento era corrisposto. Lo aveva letto nel
cuore del ragazzo, nel suo modo di guardarla e nel contempo arrossire e nei
modi gentili che le riservava.
Ma
Chrisell era altresì consapevole che il loro amore non era possibile. Erano due
creature dalla natura completamente diversa, difficilmente compatibili. La
giovane non aveva mai sentito parlare di un’unione tra il genere silvestre a
cui lei apparteneva e quello umano. Inoltre, a complicare ulteriormente le
cose, lei era parte integrante del regno magico. Era veramente disposta a
lasciare il suo mondo per seguire Mark e, nel caso lui gliela avesse chiesto,
andare a vivere nella dimensione terrestre? La silfide scacciò quel pensiero
molesto. Non era quello il momento per soffermarsi sul loro futuro, ma
piuttosto lo era per pensare al da farsi.
«Ascoltami
bene, Mark» sussurrò dolcemente «Non posso accompagnarti davanti al Malefico,
ma sappi che con il cuore e con il pensiero sarò lì con te. Appena sarà
possibile ti libererò da questo sgradevole sortilegio e tornerai a essere il
ragazzo sveglio e intelligente che ho conosciuto. Ora devo sparire, ma ricorda,
sono sempre con te!» Chrisell pose le sue labbra su quelle di lui, poi dei
passi pesanti lungo il corridoio la spronarono a svanire. Taresh irruppe nella
cella scrutando nervosamente in ogni angolo.
Mentre
percorreva il corridoio, ancora una volta aveva avuto la percezione che
qualcosa di magico si diffondesse oltre la porta di quercia. Eppure, non colse
nulla di strano. Il ragazzo era lì dove l’aveva lasciato, con la stessa
espressione ebete stampata sul volto. Niente affatto convinto, il gigante
annusò l’aria come un cane da caccia che segue l’usta, la traccia olfattiva
lasciata da una preda.
Chrisell,
ancora presente ma del tutto invisibile, si era affrettata ad avvolgere la
stanza in una bolla protettiva che escludeva ogni suono, rumore e odore, mentre
su se stessa aveva fatto calare un incantesimo d’occultamento.
Per
qualche istante Taresh si meravigliò di non percepire altro che il respiro del
prigioniero. Dove era finito il suono del gocciolio dell’acqua che cadeva in
uno stillicidio continuo dal soffitto? E lo squittio dei topi che albergavano
tranquillamente negli anfratti delle pareti? E come mai non avvertiva l’odore
dell’umidità e della muffa che imbrattavano i muri?
Di
particolari strani ce n’erano abbastanza da metterlo in guardia.
Ma la
silfide ne lesse il disagio e con un gesto veloce e preciso cancellò ogni
dubbio dalla mente dello sgherro. Agli
occhi di Taresh, la cella tornò a essere quel luogo inospitale e desolato che
era sempre stata, e ormai preso dal pensiero del prigioniero, lo afferrò per le
braccia, sollevandolo dal pavimento e trascinandolo nella sala del trono.
Mark
continuava a non rendersi conto di quanto avveniva. I suoi passi erano pesanti,
così come la sua testa era vuota. Le immagini che gli giunsero lungo il breve
tragitto erano distorte, appannate. Parecchie volte inciampò in ostacoli che
non aveva visto, e avrebbe rischiato di cadere se non fosse stato per il
sostegno del gigante.
«Per
tutti i diavoli! Cerca di camminare dritto!» imprecava continuamente Taresh, ma
Mark sembrava davvero un burattino che, in alcuni tratti, doveva essere
sollevato di peso.
«Ma cosa
ti è successo da ridurti in questo stato, sottospecie di feccia umana? La
prigionia ti ha spappolato il cervello?» le domande caddero nel vuoto, il
prigioniero non era in grado di rispondere.
«Malefico
sarà soddisfatto» concluse tra sé il gigante, quindi fecero il loro ingresso
nella sala del trono.
Al
passaggio del prigioniero, i cortigiani mormorarono. Nel regno in cui si
vedevano normalmente creature dall’aspetto alieno, deformi o mostruosi, non era
affatto usuale osservare da vicino un essere umano, e Mark nell’aspetto era del
tutto simile a Zephar. Ma il prigioniero appariva anche l’esatto contrario del
Malefico. Il sovrano aveva una stazza possente accompagnata da un’aura oscura,
minacciosa, mentre il fisico del giovane, debilitato dalle privazioni, appariva
minuto. Mark aveva capelli chiari e occhi azzurri ammalianti, anche se in quel
momento vagavano sui presenti con espressione spenta, mentre quelli
dell’antagonista brillavano come lucida ossidiana.
Il brusio
si prolungò per qualche minuto, anche mentre i due, raggiunta la marmorea
scalinata che portava al trono, vi sostarono in attesa.
Taresh si
guardò intorno in modo nervoso. Nell’aria aleggiava un sentore d’inquietudine,
paura e persino ribrezzo. Alcuni cortigiani avevano un atteggiamento timoroso,
mentre lo sguardo di altri risaltava, allucinato, quasi esaltato.
Cos’era
accaduto in quella sala durante la sua breve assenza, si domandò il gigante. La
regale sedia, a parte i rettili, era vuota, ma il pavimento al di sotto di essa
era reso viscido dal sangue fresco. Evidentemente vi era stata un’esecuzione e
non era ancora stato impartito agli inservienti l’ordine di ripulire.
Lo
sgherro sogghignò mentre rilevava che tra i consiglieri raggruppati in un
angolo mancava proprio quello che aveva visto discutere con Zephar. Nella sala
risuonò improvviso il gracchiare sonoro delle arpie, e Taresh si girò giusto in
tempo per vedere le orripilanti creature, per metà uccello e per l’altra metà
umane, contendersi un pezzo di carne sanguinolenta. In un groviglio di ali, di
penne aleggianti, di artigli e di becchi intravide sul fondo della gabbia lembi
di stoffa dello stesso colore del mantello indossato dal consigliere e, suo
malgrado, il gigante rabbrividì.
Era stato
dunque il sentore della sofferenza, della morte, quell’immane senso d’angoscia
che opprime sempre i condannati ad averlo investito al suo ingresso. A Taresh parve quasi di poter sentire le urla
di dolore del malcapitato. Per un attimo, il pensiero che potesse capitare la
stessa sorte anche lui lo assalì, ma tentò di scacciare l’orribile sensazione
di gelo. In fondo bastava assecondare, ubbidire senza contraddire né
manifestare dissenso al sovrano, per continuare a vivere una vita abbastanza
tranquilla.
Il
gigante abbandonò la visione della carneficina che stava avvenendo nella gabbia
per concentrarsi sull’indole del suo re. Il Signore del male era un negromante
che amava sorprendere i suoi sudditi, suggestionarli e intimidirli con le sue
conoscenze delle arti magiche e oscure. Taresh pensò che l’assenza di Zephar si
fosse prolungata troppo, e che da lì a poco avrebbe fatto un’apparizione
teatrale.
Difatti,
dopo pochi istanti si udì un forte tonfo e in una nube densa di fumo acre
comparve la figura imponente del sovrano. Si zittirono tutti, persino le arpie
smisero di combattere per osservare i movimenti del proprio padrone.
Zephar si
accomodò sul trono, e fu subito circondato dalle sue amate serpi, che fino
allora inutilmente si erano dimenate nei pressi delle gabbie, in attesa di un
bocconcino goloso sfuggito alle arpie. Lo sguardo del re percorse la sala per
poi posarsi in modo glaciale sul prigioniero, che era parso del tutto
insensibile agli strepiti appena cessati delle arpie e alle infide occhiate in
cui lo avevano avvolto le serpi.
Una
strana atmosfera d’attesa calò nel vasto ambiente. I presenti erano tutti con
il fiato sospeso ad attendere che Malefico prendesse la parola, ma il sovrano
taceva, limitandosi a studiare con attenzione il giovane costretto a
inginocchiarsi da una poderosa spinta assestatagli sulla schiena da Taresh.
L’espressione
del re rimase indecifrabile; nessuno era in grado di intuire il suo
scetticismo. Zephar non era affatto convinto dell’ottusità scesa a lambire la
mente del ragazzo, cosicché aveva escluso ogni altro suono e visione concentrandosi
su di lui e cercando di coglierne il minimo segnale d'intelligenza.
Il viso
di Mark rimase immobile quanto quello del re. Lo sguardo inesorabilmente vacuo,
fisso una spanna al di sopra della regale figura.
“Nessun
segnale di vitalità e di coscienza. Se sta fingendo è un’ottima interpretazione”
pensò il sovrano, poi fece un gesto improvviso e nelle sue mani apparve una
sfera infuocata, che lanciò immediatamente contro il viso del ragazzo. “Vediamo
sin dove può arrivare questa finzione.”
Purtroppo,
la mente di Mark ottenebrata dall’incantesimo non era in grado di discernere il
pericolo,
e se il proiettile fosse stato reale lo avrebbe centrato in pieno.
Abbacinati
dalla finta esplosione, i presenti distinsero soltanto quel globo di luce
abbagliante accompagnato da un gran fragore; si coprirono il volto e di seguito
impiegarono qualche istante a riacquistare la vista.
Mark,
invece, non reagì. La percezione dell’abbaglio giunse in ritardo nella sua
mente, così come lo scoppio, ma la sua coscienza non distinse nemmeno la
situazione di pericolo.
Non
ancora del tutto convinto, Zephar decise di fare un ulteriore tentativo.
“Aiutami
tu a smascherare questo imbroglione!” pensò afferrando con delicatezza una
delle sue amate serpi, quindi, dopo aver posato un bacio sul capo triangolare,
con una mossa repentina la lanciò addosso al giovane.
Le spire
della serpe s’attorcigliarono intorno al collo del ragazzo e si strinsero
mentre la coda e la linguetta biforcuta presero a vibrare davanti ai suoi occhi
azzurri.
La
situazione sarebbe risultata traumatica per Mark se fosse stato vigile, e il
cuore gli sarebbe carambolato in petto per l’orrore, ma non era cosciente, e
avvertì soltanto la stretta alla gola che gli impediva di respirare. Il suo
volto arrossì, diventando ben presto cianotico, e fu solo l’intervento
tempestivo del re a salvarlo dal soffocamento.
«Non
esagerare, piccola mia. Noi non vogliamo che questo giovane tanto promettente
ci lasci così prematuramente. Non è vero?»
Il sovrano tese le mani e la serpe, con un
guizzo, mollò la presa, quindi contorcendosi tornò dal suo padrone.
Mark
tossì a lungo prima di riuscire a riprendere fiato.
Zephar
sorrise: «Bene! Bene, mia piccola amica! Il nostro giovane Mark è veramente
pronto per servirci con alacrità e devozione. Hai qualche suggerimento, mia cara,
su quali compiti potremmo affidargli?»
La serpe
fece guizzare velocemente la linguetta, quindi, sibilando, avvicinò la
testolina all'orecchio del suo sovrano. Nessuno dei presenti fu in grado di
capire quello che l’essere ripugnante gli bisbigliò all’orecchio, ma quando si
girò verso il ragazzo, un sorriso satanico aleggiava sul volto del tiranno.
«Credo
proprio che tu mi abbia suggerito bene, mia cara amica fedele! Quale compito
migliore per un prode scudiero? E quale esempio migliore per un puledro restio
all'ubbidienza? E così sia!» esclamò Malefico con enfasi, poi si rivolse a
Taresh, rimasto ai piedi del trono in attesa degli ordini.
«Voglio
che il prigioniero venga condotto nelle scuderie reali insieme all’unicorno
ribelle. Sarà lui a occuparsi sia della salute che dell’educazione di quel
testardo di un puledro. Ma nel frattempo tu, mio fido Taresh, li dovrai tenere
a bada. Ricorda: risponderai personalmente nel caso riuscissero a fuggire.»
«Sì, mio
signore!» esclamò lo sgherro battendosi con vigore un pugno sul petto.
Zephar
annuì, poi sembrò volere aggiungere un ultimo avvertimento rivolto al
prigioniero, ma lo sguardo del tutto vuoto di Mark lo convinse a desistere.
«Vai,
Taresh, e tienimi informato su ogni minimo cambiamento; se ce ne fossero»
terminò quasi in un bisbiglio.
Ancora
una volta Mark venne trascinato via, per essere poi condotto nelle stalle
occupate dalle creature alate del sovrano.
Le
scuderie erano situate in un edificio diviso in tanti scomparti, tutti
occupati, tranne quelli posti più in fondo. L’arrivo del prigioniero venne
salutato da un grande digrignare di denti e da un sonoro coro di nitriti
nervosi. Le creature, per metà pegasi e
per metà unicorni, stronfiarono e scartarono, allontanandosi da quell’essere
che emanava un odore per loro sgradevole. Gli occhi torvi di una decina di
animali si puntarono sul giovane stalliere che, del tutto ignaro di tanto
malanimo, continuò a trascinarsi in modo svogliato.
Taresh
cercò un box vuoto e vi scaraventò in malo modo il ragazzo.
Mark finì
bocconi sulla paglia e lo sgherro fu costretto a sollevarlo per il colletto e
metterlo seduto. «Stammi bene a sentire. Non sono affatto sicuro che il sovrano
abbia ricevuto un buon suggerimento da quell’essere infido e strisciante di cui
si fida molto e non sono contento che tu sia qui. Ma ormai ci sei e non posso
fare altro che sopportarti. Non so se stai fingendo o se davvero ti sei
rimbambito, comunque sia ti voglio dare un avvertimento. Cerca di non crearmi
problemi e tutto andrà bene, ma fai solo una mossa falsa e in questa stalla
finirai i tuoi giorni. Mi sono spiegato?» gli ruggì sul volto.
Il
ragazzo sbatté le palpebre, ma non perché avesse inteso la lunga tiritera,
bensì per la tanfata di alito cattivo emessa dal proprio sorvegliante.
Esasperato
dall’indolenza dimostrata dal giovane, Taresh scrollò la testa, quindi se ne
andò. I Pegasi Oscuri continuarono a essere inquieti per la presenza
dell’essere umano di cui avvertivano l’odore. Per un po’, tra quei box separati
da paratie di legno risuonò soltanto lo scalpitio degli zoccoli, lo sbruffare e
lo scuotere delle criniere; quindi all’improvviso scese uno strano silenzio.
Persino
Mark, nella sua incoscienza, avvertì il cambiamento.
continua...
Buonasera Vivi, come stai!
RispondiEliminaquesto post e dolcissimo, Gyldor e la nostra guida di luce,
il silfide ha fatto uno scherzo all'amato guardiano del regno.
Sei un'ispirazione per molti scrittori fantasy,
oltre che produttori di film fantastici, mio cara amica! 👸
Ti mando un grandissimo abbraccio pieno di affetto ꒱ ࿐ ♡ ˚. *
Una narrazione fluida e mozzafiato. Un racconto con tanti colpi di scena e una trama intrigante. L'amore che unisce i giovani protagonisti a due e a quattro zampe è tenero ed emozionante. Complimenti.
RispondiEliminaChe fantasia. Molto scorrevole. Ciao.
RispondiEliminaMi piace tantissimo leggerti, è sempre molto avvincente!!!!
RispondiEliminaA questa parte mi ero dovuta fermare un po' perché c'erano troppi elementi perturbanti che non mi permettevano di godermi la lettura. Alla fine sono riuscita a riprendere con calma a godermi questa bellissima avventura.
RispondiEliminaNon vedo l'ora di leggere la continuazione 😉
Genial relato te mando un beso
RispondiEliminaMi piace tantissimo questo racconto. Diventa sempre più avvincente. Un abbraccio a te.
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