8 maggio
1902
Il vento
soffiava e sibilava, accompagnando l’ululato d’ un branco di lupi famelici.
Il ragazzo
correva a perdifiato; a volte inciampava e perdeva i pochi metri di vantaggio
accumulati durante la forsennata fuga. Allora, il terrore che lo pressava, lo
induceva a ritrovare in fretta l’equilibrio e a correre ancora più forte.
Il suo
cuore batté all’impazzata quando si accorse che, a causa dell’ultima caduta, un
paio di lupi erano riusciti a sorpassarlo e in quel momento lo precedevano,
pronti all’ agguato.
Il branco
che lo inseguiva, invece, aveva guadagnato terreno e a lui, sembrava quasi di
sentirne il fiato sul collo.
Il ragazzo
era circondato e si sentì sull’ orlo di un abisso.
Aiashi
Hamamoto si svegliò di soprassalto, il pigiama ormai zuppo di sudore gelido.
L’ incubo
era tornato di nuovo a tormentarlo. Erano anni che lo subiva. Sempre lo stesso
sogno, le stesse immagini terrificanti, con lo stesso finale che non cambiava
mai. Decine e decine di lupi ululanti in una tormenta di vento gelido, si
dirigevano in gruppo verso le montagne e, arrivati presso un sentiero che s’
inerpicava scosceso su fino a una vetta, si fermavano. Il capo branco si girava
improvvisamente verso il fuggitivo e con occhi iniettati di sangue, gli
parlava:
“Tu verrai
da me, piccolo refolo e insieme cresceremo diventando tempesta e spazzeremo con
il gelo i sentieri di guerra!”
Aiashi,
seduto sul suo letto, si chiedeva turbato se, quel sogno ricorrente, potesse
avere un significato.
Era un
ragazzino come tanti di undici anni, molto bravo a scuola. Era nato in una
grande città giapponese che si estendeva alle pendici del maestoso vulcano,
dalla cima perennemente coperta dalla neve. I suoi genitori lavoravano e quando
tornava da scuola, andava a pranzo da una zia, sorella di suo padre.
Aiashi era
molto affezionato a quella donna minuta e dallo sguardo buono, che lo aveva
cresciuto come fosse stato suo figlio.
Il
ragazzino le aveva già parlato una volta del suo incubo ricorrente, parecchio
tempo prima e ricordava benissimo lo sguardo sorpreso della zia e il suo
impercettibile sussulto. Subito dopo, la donna aveva abbassato gli occhi,
nascondendo al nipote ogni altra emozione e, con aria indifferente, aveva
cercato di tranquillizzarlo, per poi cambiare discorso.
Aiashi
aveva capito che per qualche strano motivo sua zia non voleva parlare d’ incubi
e, dopo quella incomprensibile reazione, aveva lasciato perdere.
Ma il sogno
era diventato troppo frequente e lui si sentiva angosciato. Avvertiva un
disagio senza fine e il bisogno di confidare il suo stato d’ animo con
qualcuno. Sarebbe andato a scuola e, al ritorno, avrebbe chiesto consiglio alla
donna.
Narumi,
così si chiamava la zia, lo ascoltò con attenzione mentre le narrava dei lupi
e, quando il ragazzo terminò il racconto, il tono della donna risultò grave e
composto:
«I sogni a
volte sono premonitori e ci parlano Aiashi, sta a noi interpretarli e seguirne
le labili indicazioni che ci suggeriscono. I lupi hanno sempre fatto parte
della vita dei nostri antenati e della nostra stessa esistenza. Fino adesso, ho
ritenuto che tu fossi troppo piccolo per conoscere la storia di un samurai
morto da tempo e della dolce Sharez, sua sposa. La fama delle loro gesta rimase
scolpita nella memoria di quanti ebbero la fortuna di conoscerli e di combattere
al loro fianco, tramandando la loro gloriosa storia alle generazioni che son
venute dopo. La storia di tuo nonno, di cui tu porti il nome glorioso e quella
del suo grande amore, Hashiko, Fior di Ciliegio, tua nonna!»
Il
ragazzino era rimasto basito. Non si aspettava certo che la zia le parlasse di
misteri di famiglia tenuti nascosti per anni.
«Vieni con
me, Aiashi. C’è qualcosa che vorrei mostrarti!» gli disse la donna, vedendolo
interdetto.
«Dove mi
porti, zia?» domandò a quel punto, ormai tutto preso dalla curiosità di sapere.
«Vieni.»
ripeté lei con quel suo dolce modo di fare.
La donna
fece scorrere una paratia divisoria composta da vari pannelli di seta dipinti a
mano e per qualche istante Aiashi si soffermò ad ammirarne i disegni. Erano
scene di caccia e di guerra, ma in tutti, venivano rappresentati guerrieri d’
altri tempi, che indossavano armature elaborate e dall’ aria antica.
«Sono i
nobili guerrieri chiamati samurai. Ne hai mai sentito parlare, ragazzo?» gli
chiese la zia.
Lui ci
pensò un attimo. Forse a scuola, l’insegnante aveva sfiorato l’argomento, ma
Aiashi non era certo di ricordare qualcosa di preciso in tal proposito.
«Il maestro
ce ne ha parlato, zia, ma mi piacerebbe saperne qualcosa di più.» rispose,
affascinato dalle immagini suggestive che sembravano prendere vita in quelle
scene. Ma l’immagine che più colpì il ragazzino fu quella di un’orda di lupi,
che sembravano seguire con molto interesse il combattimento tra due samurai.
«Quanti
lupi, zia!»
Lei gli
sorrise: «Te l’ho detto! Quegli animali fanno parte della storia della nostra
famiglia e dovrai abituarti a vederne spesso. Ma vieni, non indugiamo oltre. La
storia che desidero narrarti è molto lunga.»
La zia lo
precedette su per la lunga scala a pioli che portava nel solaio, una stanza
tenuta linda e ordinata, che prendeva luce da un grande abbaino posto sulle
tegole del tetto spiovente. Appena entrati, un odore di lavanda salì alle narici
del ragazzo, che fece scorrere il suo sguardo meravigliato in giro alla grande
stanza.
Era
incredibile! Com’era possibile che non avesse mai saputo dell’esistenza di
quella stanza? Aiashi conosceva ogni angolo della casa della zia e, in quel
momento, gli sembrò assurdo di aver ignorato che esistesse un locale nel
sottotetto.
Anche
quello era un mistero. «Non mi avevi mai parlato di questo ripostiglio.
Perché?»
«Ti sembra
un ripostiglio, Aiashi? Guardati bene intorno!»
Il
ragazzino sbirciò in ogni angolo della stanza e arrossì. Sua zia aveva ragione.
Quello non era certo uno sgabuzzino, ma una stanza tenuta in perfetto ordine.
Non vi era un filo di polvere, tipico dei vani di servizio e nemmeno una
ragnatela che facesse pensare a un locale disabitato e trascurato nel tempo.
Proprio
sulla parete di fronte all’ ingresso, su dei supporti in legno, come fossero
manichini, facevano bella mostra due armature da samurai. Non avevano per
niente l’aspetto di cose dimenticate e ammuffite delle soffitte ma, al
contrario, le rifiniture in cuoio erano talmente lucide, da sembrare che i
guerrieri che le avevano indossate, le avessero appena tolte.
Proprio in
quel momento, il suo sguardo cadde sugli elmi dalla forma caratteristica di
testa di lupo e, come per magia, l’immagine vivida di una battaglia abbagliò la
sua mente.
Sentì il
suono cupo e profondo dei corni, le urla di battaglia e il clangore delle
spade. Vide la figura di un’amazzone, splendida nella sua armatura e il
caratteristico elmo, con la spada sguainata sul cavallo lanciato al galoppo.
Udì l’urlo di battaglia della donna samurai temeraria, mentre si avventava con
audacia in mezzo a un gruppo di nemici.
Fra loro si
stagliava l’alta figura di un altro samurai, con la spada imbrattata di sangue.
Il ragazzo intuì di aver avuto la visione dei suoi nonni sul campo di
battaglia. Fu solo un attimo, ma quando si riscosse si guardò in giro smarrito,
la visione della battaglia era stata talmente reale e repentina, da lasciarlo
senza fiato.
Cercò lo
sguardo della zia, ma solo per constatare che la donna, in quel momento, si era
persa in chissà quali ricordi.
Aiashi ebbe
modo di osservarla per bene. Era tanto immersa nei suoi pensieri, che non
sembrava essersi accorta di quanto a lui era appena accaduto. Il ragazzino
provò a chiamarla con tono dolce, pacato, per non spaventarla e lei si volse,
mantenendo però gli occhi bassi.
Ma Aiashi
s’ avvide di uno strano luccicore. Sua zia, chissà per quale motivo, si era
commossa e stava tentando di nascondere al nipote le sue lacrime.
Era
inginocchiata presso un grande baule dove, tra tutte le cose conservate con
cura, prelevò un libro dalla copertina nera incisa con una testa di lupo e
chiusa da lacci di cuoio usurati dal tempo.
Come fosse
un reliquario, la donna lo porse al ragazzo e, ormai in preda a una commozione
irrefrenabile, si congedò.
Aiashi si
sedette a gambe incrociate davanti alle armature e cominciò la lettura:
15 dicembre
1840
“Il mio
nome è Aiashi Hamamoto e sono un monaco guerriero, come mio padre prima di me.
Il mio nobile genitore era un samurai alla corte dell’impero, addetto alla
difesa del suo nobile signore. In quei giorni, venti di ribellione spiravano
forti, alimentando le fiamme dei piccoli focolai di guerra, su quasi tutte le
numerose provincie assoggettate agli shogun locali. Erano molti i signori della
guerra che volevano far cadere l’impero, prendendo in mano le redini del
potere. Mio padre fu mandato dall’ Imperatore stesso per cercare di sedare le
sommosse e le numerose lotte interne, riunire tutti i capi dei molteplici clan
formatosi e cercare di formare, a sua volta, un unico esercito di esperti
samurai.
Non fu una
missione facile. Gli shogun non volevano cedere gli uomini e nemmeno il loro
comando. E, sebbene i guerrieri fossero sparsi in un territorio ampio e
selvaggio, mio padre riuscì a convincerli e a formare con loro un suo esercito,
nominando suoi generali i loro shogun.
E in capo a
pochi mesi, li guidò alle porte della città imperiale.
La mia
storia cominciò allora, quando i venti di guerra parevano momentaneamente
sopiti, mio padre decise che ero grande abbastanza per frequentare la scuola da
samurai.
18
febbraio1841
Finalmente
dopo ore d’ interminabile arrampicata a dorso di mulo apparvero i tetti del
villaggio, tra cui spiccava quello più alto e spiovente del tempio.
Quel giorno
arrivai accompagnato da uno zio al piccolo villaggio sperduto sulle montagne
ancora coperte di neve, poiché mio padre, impegnato a sedare il malcontento che
ancora regnava tra i guerrieri, non poté accompagnarmi, com’ era tradizione da
secoli. Presi la cosa come un cattivo presagio e arrivai al monastero con l’animo
scontento.
Salutai mio
zio pregandolo di portare un messaggio a mio padre e lui gentilmente,
accondiscese. Nel messaggio avevo scritto che non gli portavo rancore per la
sua assenza, perché avevo compreso i gravi motivi che lo avevano spinto ad affidarmi
al fratello che lo sostituiva. Gli rinnovavo, inoltre, la mia intenzione di
applicarmi negli studi, ma soprattutto, la grande volontà di voler seguire le
sue orme e diventare un samurai coraggioso e nobile come lo era lui.
Avrei
voluto anche scrivere che oltre a rispettarlo e ammirarlo, ero molto fiero di
essere suo figlio e provavo anche tanto amore nei suoi confronti. Ma non ne
ebbi il coraggio, forse perché mi sembrava che, esternare troppo i miei
sentimenti, fosse un segnale di debolezza e io non desideravo affatto che mio
padre pensasse a me come a una femminuccia isterica. Così ridussi il mio
scritto all’ essenziale.
Quell’ anno
la primavera stentava ad arrivare, l’aria gelida sferzava ancora le colline a
ridosso del villaggio impedendo ai ciliegi di sbocciare e di inondare i dintorni
del dolce profumo dei fiori.
Ma al mio
arrivo, avvenne un fatto che avrebbe potuto apparire come una bizzarra
coincidenza, ma che in quel momento m’ impressionò alquanto, lasciandomi un
senso di disagio inspiegabile per parecchi giorni. Si trattava dell’eco
profondo di cupi e prolungati ululati, che rimbalzò lungo le pareti scoscese
delle montagne incombenti sul piccolo paese. In quel momento sentii la mia
pelle accapponarsi e, per parecchi minuti, rimasi a scrutare ogni anfratto e
ogni roccia, alla ricerca del branco che aveva emesso il lugubre richiamo.
Venni
distolto da un lieve fruscio nell’ aria e, quando levai gli occhi al cielo,
potei ammirare il volo superbo di due splendide aquile reali. Per un po’ seguii
le loro leggiadre evoluzioni tra le vette dei dintorni e solo quando divennero
due piccoli punti in lontananza, mi decisi a fare il mio ingresso nel
monastero.
Con un
briciolo di rammarico, mi lasciai alle spalle le bellezze incomparabili della
natura selvaggia e iniziai la mia nuova e austera vita in quel luogo sperduto
tra le montagne.
Recavo con
me un piccolo papiro arrotolato, con la firma dello shogun con il quale mio
padre collaborava e mi recai al tempio per consegnarlo nelle mani del
Venerabile Maestro a capo del monastero. Mi presentai subito all’ ingresso dove
sostavano due monaci guardiani in divisa da samurai, che mi accolsero con aria
impassibile.
Guardai a
quegli uomini con sguardo ammirato, senza che mi ponessero domande, poi uno di
loro suonò un gong situato vicino al portale d’ ingresso e con un cenno
m’ invitò a entrare.
Venni preso
all’ istante dalla malia emessa dalla sacralità del luogo.
Fui avvolto
dal silenzio e dalla penombra del tempio e subito, mi giunse alle narici, il
leggero e piacevole profumo d’ incenso aleggiante nell’ aria, mentre il suono
di un altro piccolo gong annunciò l’ingresso del Gran Sacerdote.
Chinai
rispettosamente il capo aspettandomi di vedere un vecchio dalla lunga barba
bianca e dal passo incerto, mi ritrovai, invece, davanti a una splendida ragazza
e sgranai gli occhi per la sorpresa
«Salute a
te Aiashi, figlio di Aiashi Hamamoto e benvenuto. Ma ti vedo meravigliato, non
ti aspettavi una donna, forse?» domandò con un tono che mi parve melodioso,
come il canto di un usignolo tra i rami in fiore.
«Perdona
uno stolto ragazzo, Grande Sharez, la stanchezza e l’inesperienza giocano
brutti scherzi. Sono onorato di fare la tua conoscenza.» esclamai, ritrovando
il mio spirito ardito, ma chinando il capo in un rispettoso inchino.
Lei mi
sorrise, con un sorriso tanto soave e franco che mi diede l’impressione di
assistere al sorgere di un’alba radiosa. Solo molto tempo più tardi, mi
raccontò che quel ragazzo lo aveva colpito per il suo portamento impavido e per
il suo aspetto.
Non so se
si accorse del benefico effetto che avevo tratto dalla sua condiscendenza,
dalla sua disponibilità, so soltanto che mi si avvicinò e il suo profumo mi
inebriò i sensi.
Mi sentii
arrossire fino alla radice dei capelli e, per nascondere la mia confusione,
finsi di guardarmi intorno.
Ignara di quanto avveniva nella mia coscienza, lei proseguì: «Porgimi la
notifica del tuo shogun, in modo che possa leggerla. E va a riposarti, domani
stesso comincerai l’addestramento con il gran Maestro d’ armi.»
Mi
congedai, evitando di guardarla e indietreggiando, senza mai volgerle le
spalle. Solo quando fui al portale, la salutai con un ultimo inchino e sparii
velocemente dalla sua vista.
Tuttavia,
un’altra sorpresa m’ attendeva l’indomani quando venni convocato e mi recai nel
cortile della scuola. Il Gran Maestro era la stessa giovane dai tratti fieri e
nobili e dal corpo esile e flessuoso come un germoglio di bambù, che mi aveva
accolto al tempio.
Ancora una
volta, rimasi basito e non soltanto per l’aura che emanava dalla sua persona,
ma anche perché mi parve ancora più bella del giorno prima.
Indossava
la divisa da combattimento. Il kimono di seta candida, stretta in vita dalla
fusciacca che denunciava il grado di apprendimento di ogni aspirante guerriero.
La sua cintura era nera, con le applicazioni di vari simboli crittografici e
ideogrammi giapponesi, era il massimo traguardo per un monaco guerriero.
“Devo
combattere con una donna?” pensai, contrariato. Non mi aspettavo certo di
allenarmi con un’appartenente al genere femminile. Anche perché non avevo mai
sentito parlare di una donna samurai. Ancora non sapevo che tra gli aspiranti
samurai vi erano anche delle adolescenti e che avrei condiviso con loro tutti
gli anni di addestramento.
«Quando sei
pronto, possiamo iniziare.» Pur mantenendo un cipiglio autorevole, adatto alle
circostanze, il tono della Sharez era lievemente scherzoso. Ricordo che
arrossii di nuovo, così assunsi la posizione rigida del saluto e m’ inchinai,
pronto al combattimento.
La giovane
sacerdotessa rispose al saluto, quindi, in modo repentino, divaricò le gambe e
tese le braccia, afferrandomi per la tunica e scagliandomi per aria.
Mi parve
che il mio volo non terminasse mai e, quando atterrai, rimasi senza fiato per
il duro impatto. Indugiai in quella buffa posizione per qualche secondo, gli
occhi sbarrati un po’ per il dolore e un po’ per la sorpresa.
«Non eri
affatto pronto!» mi redarguì lei, tendendomi una mano e aiutandomi a rialzarmi.
«Scusami,
Grande Sharez!» balbettai incerto. «Il fatto è che… io… non…» non riuscendo a
trovare le parole adatte, m’ interruppi.
«Mi chiamo
Hashiko e preferirei che tu mi chiamassi per nome.» mi disse lei, quindi
proseguì «Non ti aspettavi di doverti allenare con una donna? Perché tu è questo
che noti soltanto in me, vero? Una semplice, delicata ragazza, che ritieni non
idonea alla vita dura da samurai.»
Ancora una
volta non riuscii a replicare. Lei aveva colto nel segno i miei dubbi e le mie
incertezze.
«Pregiudizi.
Sono soltanto pregiudizi! La maggior parte degli uomini crede che la lotta, la
guerra, siano prerogative non consone al genere femminile. Ma ti dimostrerò
quanto, questa atavica credenza sia sbagliata.»
Tacqui, mi sentivo ferito nell’ orgoglio, forse perché, in cuor mio, mi ero
sempre sopravvalutato e avevo avuto la presunzione di considerarmi imbattibile.
Hashiko mi aveva impartito la prima e grande lezione di vita.
Quasi mi
avesse letto nei pensieri, lei mi ammonì: «Ricorda, mai sottovalutare un
avversario, ma soprattutto, mai giudicarlo per il suo aspetto fisico. Ne
convieni?»
Abbassai
rispettosamente il capo, in fin dei conti, anche se mi aveva dato il permesso
di tralasciare le formalità, avevo sempre davanti la Grande Sharez. «Ho inteso
bene, Hashiko! Me lo ricorderò!»
Lei annuì,
proseguendo «Bene! Vedi, Aiashi, in genere non addestro i nuovi allievi alla
disciplina della Sacra Lotta, non spetta a me, anche se il titolo di Gran
Maestro me lo sono guadagnata per meriti personali. Ma tu sei un allievo
speciale e ho voluto metterti alla prova. Il tuo destino è scritto nelle stelle
ed è proprio dalle stelle che mi sei stato affidato.»
La Sharez
fece una pausa, forse per farmi metabolizzare quanto appena detto, o forse per
darmi il tempo di rispondere.
«Che genere
di destino?» domandai a quel punto, incuriosito.
«A questa
domanda troverai la risposta a tempo debito. Ora permettimi di dirti che sei troppo
mingherlino per la tua età! Devi mettere su qualche chilo di muscoli, se vuoi
diventare samurai.»
«Mi
allenerò tutti giorni, Hashiko. Te lo prometto!»
«Hai un
grande avvenire davanti e una semplice promessa non può bastare, Aiashi! Sappi
che ti terrò d’ occhio! Esigo che t’ impegni il doppio, rispetto ai tuoi
compagni, anche fino allo sfinimento. Hai davanti a te anni duri, di sacrificio
e dedizione completa all’ impegno che ti sei assunto.»
Deglutii a
vuoto. Quella sembrava più una minaccia, che un avvertimento. Tuttavia, a quei
tempi ero tanto orgoglioso, da non lasciarmi abbattere da nessuna difficoltà.
Inoltre, particolare per niente trascurabile, avrei goduto del privilegio di
avere lei come insegnante. Hashiko, Fior di Ciliegio. Un nome dolce, che sapeva
di Primavera, proprio come la sua persona.
Allora non
sapevo quanto potesse essere inflessibile la Grande Sharez.
A quei
tempi ero molto giovane, con il cuore colmo di illusioni, speranze e sogni.
Hashiko mi
appariva come una dea e il cuore prese a battermi come impazzito ogni volta che
la vedevo.
Quel giorno
ebbe inizio il mio addestramento che durò per parecchi anni.
Ma le cose
non andarono nel modo in cui le parole della Sharez mi avevano fatto intendere.
La maggior parte delle lezioni le facevo insieme agli altri allievi e solo
raramente vedevo Hashiko, che compariva all’ improvviso e quando meno me lo
aspettavo. Allora mi ordinava di seguirla e ci appartavamo nella “Radura della
contemplazione”, così l’avevo nominata, perché era in quel luogo tranquillo che
lei pretendeva il massimo raccoglimento per effettuare i nostri esercizi zen.
Trovavo
rilassante quelle poche ore di spiritualità orientale, anche se a volte, mentre
era intenta nella meditazione, mi lasciavo distrarre dalla delicatezza dei suoi
lineamenti e, invece che sublimare la natura che ci circondava, mi perdevo a
contemplare lei.
Hashiko non
sembrava nemmeno accorgersi dell’ammirazione che provavo nei suoi confronti,
così le nostre lezioni continuarono, con mia profonda beatitudine.
Io e i miei
compagni, al mattino ci svegliavamo presto e dopo la colazione, indossati i
kimono d’ allenamento, ci recavamo tutti nel grande cortile all’ aperto, dove
aveva inizio la nostra lunga giornata di studio.
Si trattava
di lezioni di storia, geografia e matematica, ma anche di teoria sulle tecniche
di combattimento e persino di anatomia. Dovevamo essere consapevoli di ogni
muscolo e nervo del nostro corpo durante gli allenamenti e dovevamo conoscere
gli organi vitali.
Dopo le
lezioni ci disponevamo in fila e lanciavamo alto lo stesso urlo all’ unisono,
quello che avrebbe risuonato a lungo sui campi di battaglia e che ricordava l’ululato
di un branco di lupi.
Era un rito
che ci serviva a farci sentire uniti, ardimentosi e invincibili e dava il via
alle sfide corpo a corpo, e alla lotta con i bastoni. Una nobile arte quella,
antica come i samurai stessi, una pratica in cui eccellevo, distinguendomi tra
tutti gli altri allievi, che contro di me finivano spesso in mezzo alla
polvere.
Il nostro
addestramento comprendeva anche il tiro con l’arco, il lancio dei giavellotti e
l’uso della spada.
In poco
tempo il mio corpo e la mia mente si rinforzarono, trasformandosi, così come
quello dei miei compagni e compagne.
Vi erano
anche lezioni di equitazione. Dovevamo imparare a combattere con la spada,
lanciare con l’arco e nello stesso tempo cavalcare. Non era semplice scoccare
le frecce su di un cavallo al galoppo; le possibilità di colpire un bersaglio
in battaglia non erano molte, ma noi eravamo allenati e con i consigli e gli
esempi dei nostri istruttori, imparammo a farlo.
Vi era un
maestro in particolare, Hiroshi Hatamura, che c’ insegnava l’arte della lotta corpo
a corpo. Era un uomo ligio, dal carattere inflessibile, forgiato da anni di
campagne bellicose contro gli shogun ribelli.
In certi
giorni avevo l’impressione che mi avesse preso in antipatia, difatti, manteneva
un atteggiamento particolarmente duro con me; mi rimproverava spesso e, quando
sbagliavo, non perdeva occasione di riprendermi davanti ai miei compagni. E io
non potevo fare a meno di sentirmi umiliato.
Perlomeno,
era quella la sensazione che provavo. Allora non potevo sapere che aveva
ricevuto ordini precisi sul mio conto e che stava solo forgiando il mio
carattere, preparandolo all’ improrogabile destino che mi attendeva.
Ora, devo
riconoscere che quel suo comportamento così rigoroso nei miei confronti, nel
corso dei tragici eventi che si sono susseguiti, si è rivelato fondamentale.
Con lui
imparai ad affrontare anche le mie paure, compresa la grande ritrosia nei
confronti dell’acqua. Non avevo mai imparato a nuotare e l’elemento liquido m’incuteva
una soggezione, che arrivava a sfiorare i limiti del terrore. Tutti i miei
compagni erano a conoscenza di questa mia grande debolezza e, quando capitava
di recarci al fiume per addestrarci alla navigazione dello stesso o per le
nostre abluzioni, non erano rari gli scherzi che ideavano ai miei danni.
Ricordo che
una volta, in seguito alle piogge torrenziali cadute per giorni e giorni, il
corso del fiume aveva più che decuplicato la sua capienza e scorreva fragoroso
e minaccioso. Le acque, diventate scure per il limo e i detriti, precipitavano
spumeggiando e avevano già superato di un bel pezzo i piccoli argini di
contenimento.
Quel giorno
non mi avvicinai più di tanto all’ acqua, anche se il maestro Hiroshi mi aveva
già impartito alcune lezioni di nuoto, non ero ancora sicuro di poter
galleggiare senza l’aiuto e l’incoraggiamento del mio mentore. Eppure, poco
dopo il nostro arrivo, accadde qualcosa d’ imprevisto, che mi costrinse,
nonostante il divieto dei nostri insegnanti e mio malgrado, ad affrontare l’insidia
di quelle acque burrascose.
Una delle
mie compagne d’ armi possedeva un gattino che la seguiva dappertutto e ovunque
andasse. Anche quel giorno l’aveva seguita e, come al solito, si era trovato un
posticino su una roccia, abbastanza in alto rispetto alle acque, da cui poter
osservare la sua padrona e in cui si era acquattato tranquillo. Nessuno di noi
poteva sapere che il fiume aveva già eroso le rocce presso le quali facevamo
allenamento e nemmeno prevedere che, da lì a poco, sarebbe ingrossato ancor di
più a causa di un acquazzone improvviso e assai violento.
I maestri
ci diedero il permesso di correre al riparo e tutti quanti schizzammo verso gli
alberi che ci avrebbero offerto un minimo di copertura.
Mentre
correvo, il rumore del fiume era assordante e copriva ogni altro suono dei
dintorni.
Forse fu
soltanto l’istinto a indurmi a voltarmi e allora fui costretto a fermarmi. La
mia compagna, per salvare il suo gattino, era caduta nel fiume e stava per
essere trascinata via dalla corrente impetuosa. Il sangue mi si gelò nelle
vene. Fushiko, così si chiamava la ragazza, annaspava e s affannava per cercare
di rimanere a galla, tra l’altro stringendo a sé il gattino che le era tanto
caro. In quel momento, pensai, era condannata a una morte certa. Niente e
nessuno avrebbe potuto salvarla.
O forse no!
Forse ero l’unico che poteva intervenire per prestarle soccorso. Ma solo se ne
avessi avuto il coraggio.
Forza, m’
incitai. Non stare lì imbambolato a guardare la tua amica annegare. Fai
qualcosa, prima che sia troppo tardi. Affronta i tuoi spauracchi! Il cuore mi
esortava, la mia coscienza mi spingeva, ma i piedi, le gambe erano come di
piombo e si rifiutavano di reagire. Furono istanti interminabili. Dove trovare
l’audacia di gettarmi in acqua? Io, che stentavo a mantenermi a galla!
In quei
tragici momenti, mi sovvennero le parole che la Grande Sharez aveva pronunciato
in seguito a una mia specifica domanda, durante una lezione: «E se il coraggio
mi venisse a mancare di fronte alla spada di un nemico?»
«Cosa credi
che sia il coraggio? Una dote innata di tutti i guerrieri? Anche di quelli che
dimostrano più valore sul campo? Oh no, Aiashi! Nessuna creatura al mondo nasce
coraggiosa per natura. Tutti proviamo l’emozione della paura innanzi a un
avvenimento che ci appare più grande delle nostre possibilità e quindi
insormontabile. Occorre saper gestire quest’ emozione, occorre saper dominare i
nostri peggiori timori. Solo così impareremo a essere degli ottimi guerrieri.
Ricorda sempre, ragazzo, non esiste coraggio, se non esistesse prima la paura.»
Quelle
parole pulsarono nella mia mente, simili al lampeggiare in cielo durante il
temporale. Allora, i piedi mi si sbloccarono e compii quel gesto folle che mi
portò a cercare di salvare la mia compagna e il suo amato gattino.
Le acque
gelide avvolsero il mio corpo in un abbraccio che mi mozzò il fiato. Resistetti
all’ impulso di voltarmi e tornare a riva e le braccia e le gambe si mossero d’
istinto portandomi nella direzione in cui avevo visto annaspare Fushiko. Non fu
un’impresa facile combattere contro la forza della corrente e dovetti impegnare
ogni stilla di energia per raggiungere la mia amica.
Quanta fatica, quanti dubbi e ripensamenti! Quanto bevvi!
“Impara a
tenere la bocca chiusa!” mi ordinava il maestro durante le lezioni di nuoto.”
Impara a trattenere il fiato e nello stesso tempo, procedi a bracciate vigorose
e con la testa immersa sotto l’acqua.” Era una cosa contro natura. Inaudita!
Io, che avevo sempre provato terrore per l’acqua, dovevo prendere il fiato, trattenerlo
e immergere la testa nell’ elemento che più temevo. Era semplicemente una cosa
folle! Infatti, durante le lezioni, non mi ero mai riuscita. Ma in quel momento
e d’ istinto, forse per evitare di trangugiare altra acqua, mi riuscì e mi
ritrovai a nuotare sotto il pelo dell’acqua, senza mandarne giù un solo sorso.
Tre bracciate con la testa sotto, quindi riemergevo e respiravo; tre bracciate
e un respiro, così di seguito. In quel modo mi ritrovai Fushiko tra le braccia.
La poverina
era esausta. Mi accorsi di averla raggiunta appena in tempo. Tossiva e sputava
l’acqua fino allora ingerita. Era ormai senza fiato e difatti stava per perdere
i sensi. Meglio così, pensai, girandone il corpo in modo da poterla trascinare
a riva. Il gattino glielo posizionai sul ventre, tanto, avevo constatato, che
per il terrore si era aggrappato con gli artigli al kimono della sua
padroncina. Non sussisteva il pericolo di perderlo.
Non so come
riuscii a tornare a riva, ma quando sentii il terreno sotto i piedi, credo proprio
che sarei crollato in acqua se non fosse stato per il sostegno del maestro
Hiroshi e dei miei compagni.
Ricordo
ancora lo sguardo orgoglioso del mio mentore.
Oggi, posso
solo dire grazie maestro Hiroshi per avermi aiutato a diventare l’uomo e il
samurai che sono.
«Ho saputo
dell’impresa che hai compiuto al fiume e sono qui per congratularmi con te.» mi
disse quel giorno stesso la sharez e io arrossii.
«Tuttavia,
non vorrei che tu ti sentissi invincibile e ti crogiolassi troppo sugli allori.
Sono qui anche per constatare a che punto sei con l’addestramento.»
Non mi
diede il tempo di rispondere e fece una mossa improvvisa cercando di farmi l’equilibrio.
Ma questa volta non mi ritrovò impreparato, anzi, resistetti a tal punto, che
lei rinunciò ad abbattermi. Poi mi sorrise, un sorriso enigmatico che mi rimase
impresso e se ne andò.
Nella
tranquillità del monastero, gli anni passarono senza nemmeno rendermene conto,
se non per il mio fisico che maturò. Presi coscienza dei cambiamenti avvenuti
in me guardandomi allo specchio. Il riflesso rimandato era quello di un giovane
uomo dal fisico possente e dall’ aria vigorosa.
Quel giorno
mi girai e mi squadrai, in modo forse troppo vanitoso e mi compiacqui dell’immagine
che lo specchio rimandava. La testa completamente calva, a parte il codino
tradizionale che partiva dalla nuca e mi scendeva sulle spalle, metteva in
risalto i lineamenti mascolini e regolari e i miei occhi scuri, grandi e
obliqui.
Ero giovane
e mi sorpresi a domandarmi se potessi piacere alla Sharez. Il mio sentimento
per lei era cresciuto negli anni alla pari del mio fisico.
Ogni tanto
veniva a controllare i nostri progressi e fu proprio durante una delle sue
visite che volle mettermi alla prova.
Io e miei
compagni ci eravamo disposti in due file, gli uni contro gli altri, brandendo i
bastoni per la lotta. Un attimo prima avevo Hakihito, come avversario davanti a
me e, nemmeno il tempo di distrarmi per sistemare la cintura del kimono che,
sollevando gli occhi, trovavo Hashiko al posto del mio compagno.
Il cuore
prese a galopparmi in petto, ma dovetti assumere un’espressione da ebete,
perché lei sorrise, divertita.
Non mi
diede nemmeno il tempo di rispondere al tradizionale saluto e partì all’
attacco. Riuscii a placcare soltanto alcuni dei colpi abbattuti di seguito e
con estrema vigoria e, quelli che invece andarono a segno, risultarono tutti
molto dolorosi.
Avevo tanto
a cuore quella splendida creatura, che non reagii nel modo dovuto alle sue
bastonate limitandomi a una difesa senza senso e lei se ne accorse, perché s’
immobilizzò con il bastone alto sulla mia testa.
«Che ti succede,
Aiashi? Perché non combatti?»
Sentii il
sangue defluirmi dal viso. Balbettai un’improbabile scusa e mi sentii un
babbeo. Avevo gli sguardi di tutti gli altri compagni puntati su di me,
compreso quello del maestro Hiroshi e, in quel momento, mi parve che tutti
leggessero il sentimento che provavo per lei.
Lo sguardo
di Hashiko si fece severo e l’apparizione, la fanciulla incantevole che avevo
davanti un attimo prima, ritornò a essere l’inflessibile Sharez che comandava
il monastero.
Abbassò il
bastone e me lo puntò sul torace: «Avevo posto grande fiducia nel tuo spirito
combattivo. Purtroppo, debbo constatare, che sei un uomo solo nell’ aspetto,
mentre nel cuore sei rimasto un ragazzino.»
In quel
momento compresi che Hashiko sapeva il sentimento che provavo per lei e lo
disapprovava. Stava per voltarmi le spalle, ma la trattenni:
«Ti prego»
dissi, ritrovando il mio orgoglio e puntando il mio bastone contro il suo petto.
«Dammi un’altra possibilità e ti dimostrerò quanto ti sbagli. Il mio cuore può
essere quello di un ragazzino, ma la mia mente e il mio corpo sono stati
addestrati affinché io diventassi un guerriero ed è proprio questo che vorrei
dimostrarti.»
Sentii
serpeggiare un mormorio di sorpresa tra i miei compagni e difatti mi guardavano
tutti con aria sorpresa. Potevo capirli! Avevo avuto l’ardire e osato quello
che nessuno avrebbe mai osato, puntando il bastone contro la Sharez e
sfidandola. Il maestro Hiroshi, in modo brusco e indignato, avanzò di un passo,
forse per impedirmi di proseguire nella mia azione scellerata, ma lei lo bloccò
con un impercettibile gesto della mano.
Il maestro
chinò il capo e si ritirò in disparte.
Seguirono
lunghi attimi d’ imbarazzante silenzio; eravamo tutti in attesa che lei si
pronunciasse.
Mi
aspettavo il peggio, perché la sua espressione non prometteva nulla di buono,
ma all’ improvviso, il suo viso delicato si aprì in un sorriso malizioso e da
lì compresi che aveva accettato la sfida. Con il suo bastone toccò il mio,
provocando un sonoro schiocco, poi, partì all’ attacco e, questa volta, reagii
di conseguenza.
Ero uno dei
più bravi con quella tecnica di combattimento. Rare volte i compagni mi avevano
sorpreso e battuto e persino il maestro Hiroshi faticava e stentava a prevalere
in ogni nostro scontro.
Per un po’
mi limitai a parare e a stoccare qualche colpo, ma solo per farle capire che
ero presente e che la stavo studiando. Quando mi furono chiari i suoi punti
deboli e quelli di forza, mi buttai all’ attacco bersagliandola di colpi.
Hashiko
indietreggiò, sorpresa dalla mia irruenza e dovetti contenermi perché aveva
perso l’equilibrio e, per un attimo, temetti che rovinasse a terra. Per fortuna
riuscì a bilanciarsi e, con l’equilibrio, ritrovò anche tutta la sua grinta.
Per alcuni minuti combattemmo senza risparmiarci e senza che nessuno dei due
prevalesse sull’ altro. Ogni colpo inferto, veniva immancabilmente parato.
Nell’ aria risuonavano soltanto i rintocchi secchi dei nostri bastoni.
Usai tutte
le tecniche acquisite nel tempo e consistenti in giravolte veloci, finte e
stoccate a sorpresa. Ero consapevole di quanto il mio corpo fosse elastico, per
cui mi concessi anche qualche spettacolare capriola in aria per evitare il suo
bastone e lei ne approfittò, mettendo a segno una bastonata violenta nelle mie
reni. Avvertii un dolore sordo alla schiena, un dolore da togliermi il fiato e,
la mia acrobatica esibizione, terminò in una misera caduta.
«Sei forse
uno sprovveduto, Aiashi Hamamoto?» mi schernì lei.
Ero ancora
accucciato, con una mano appoggiata al terreno e l’altra che mi premevo la
parte dolorante. Avvertivo la collera sobbollirmi e montarmi dal profondo. In
quel momento mi sentii in grado di ucciderla. Era riuscita a umiliarmi davanti
a tutti i miei compagni. Non potevo sopportarlo. Raccolsi l’arma che mi era
scivolata dalle mani, poi, ebbi uno scatto come una molla e in un istante mi
ritrovai in piedi. Senza nemmeno ragionare, con il bastone la tempestai di
colpi e finalmente ebbi la soddisfazione di vederla indietreggiare. L’ avevo messa
in difficoltà, stava subendo il mio attacco senza altra possibilità se non
quella di difendersi. Lo capii dal suo sguardo che era confusa, smarrita, ora
dovevo soltanto disarmarla. Con un assesto più violento degli altri, le fece
saltare l’arma dalle mani, quindi puntai la mia sul suo petto indifeso.
Hashiko
alzò le mani, in segno di resa.
Eravamo
entrambi senza fiato e ci squadravamo trafelati, i visi arrossati dalla fatica.
Ero ancora
stravolto dalla collera e dalla voglia di vendicarmi.
Ma lei era
bellissima e mi smarrii nei suoi occhi. Poi, entrambi scoppiammo a ridere.
«Mi sono
sbagliata sul tuo conto. Non sei più un ragazzo!» mi disse, con un tono di voce
che non le avevo mai sentito.
La
ringraziai con un inchino e la guardai allontanarsi.
Buonasera, Vivi. Sono scioccato dal tuo talento, sei cosi prolifica, da Dio... che meraviglia. Questa storia e per mille e una notte, voy a dormire con un capitolo ogni giorno, pieno di avventure. Provo anche nostalgia, sento poesia, c'e un retaggio di onore ed eleganza nella storia. Dalla terra del ciliegio ... e il diario di un'avventura vitale. Sei una scrittora magnifica! Sono entrato in un mondo, un codice di valori, un modo di essere e di essere nella vita che ha lasciato un segno su di me. Oggi mancano storie specifiche che valorizzano il rispetto, la solidarieta, l'apprendimento, la tolleranza. Complimenti per il tuo nuovo blog e grazie per non aver mai perso di vista la ragazza dentro di noi.
RispondiEliminaBaci... e fantasia per sempre!
Sei tanto cara e io ti sono grata per i tanti complimenti. Non mi ritengo una grande autrice ma solo un'autrice con tanta fantasia. Ma hai ragione quando dici che non ho mai perso di vista la ragazza che è dentro ogni mente sognatrice, anzi, per essere più precisi la bambina. Ho scritto decine e decine di racconti fantasy e spero che vorrai continuare a seguirmi e a lasciare le tue impressioni, anche critiche se vuoi. Ti abbraccio e ti auguro una serena giornata.
RispondiEliminaGrazie Vivi! si, si, si, sei una grande scrittora, narratora e potisa. Mi piace molto il tuo lavoro. Siamo entrambi sognatori ma tu sei incredibilmente prolifica. Congratulazioni per la tua immaginazione!
RispondiEliminaUn racconto molto vitale, e avvincente, che ho molto apprezzato per il suo valido contenuto
RispondiEliminaBuona giornata, e un abbraccio, cara Vivì,silvia
Bellissimo racconto colmo di colpi di scena, di coraggio ardimentoso, e credo che non manchi neppure l'amore a sublimare una storia tanto bella che tiene il lettore col fiato sospeso dalla prima all'ultima scena del racconto. Complimenti Vivì, ammirata, ho molto apprezzato il tuo racconto. Un saluto affettuoso di buona serata da Grazia!
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