Fantasia

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La brama della scrittura arde come una fiamma in un cuor propenso. Vivì

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venerdì 15 maggio 2020

L'emblema del lupo (3a parte)

                                   




 

                                   



I lupi, invece, non si vedevano. Fino allora, il capobranco, aveva rispettato gli accordi tenendosi in disparte. Quei lupi sarebbero diventati la nostra risorsa segreta. Anche il branco si sarebbe diviso e, una parte avrebbe aggirato la cavalleria attaccandoli poi alle spalle e seminando il terrore e lo scompiglio tra i frisoni da guerra, mentre l’altra, avrebbe dilagato con ferocia attaccando sui fianchi la fanteria.

Ci catapultammo sulla linea del fronte, galoppando come forsennati e, la terra di nessuno, venne divorata dai ventri e dalle zampe dei nostri cavalli in una manciata di secondi.

L’afrore di tanti corpi sudati, misto a quello dei cavalli e al sentore delle zolle umide sollevate dal nostro passaggio, mi salì alle narici.

Il cuore prese a battermi all’ impazzata, scandendo il tonfare degli zoccoli sul terreno. Avvertivo l’adrenalina scorrere a fior di pelle. La macchina da guerra che era in me, si era avviata e nessuno avrebbe potuto smorzarne l’ardore.

L’impatto sulle prime linee nemiche fu irruente e catastrofico per i fanti nemici. La selva di giavellotti issati a mo’ di palizzata difensiva, sembrava il dorso di un istrice con gli aculei irti, ma non resse alla carica e si ruppe in pochi secondi. Avevamo sfondato la prima linea, senza riportare grossi danni e ciò era già una cosa positiva.

Venni preso dalla frenesia del combattimento e, in poco tempo, la mia spada era lorda del sangue nemico.

Nel bel mezzo della battaglia mi trovai, all’ improvviso, circondato da un nugolo di nemici armati di lance. Ne avevo già abbattuti tre, ma altri quattro si facevano avanti, forti della superiorità numerica. Mi accorsi di trovarmi in difficoltà sebbene combattessi e mi difendessi con furia selvaggia, quando risuonò nell’ aria un ululato rabbioso.                               

Non ebbi subito modo  di girarmi, ma due dei nemici caddero nella polvere e quando infine con la coda dell’occhio osai sbirciare alle mie spalle, mi accorsi che c’ era lei che combatteva con me. 

Hashiko mi fece un cenno d’ assenso, incoraggiandomi a non indugiare con le domande e io tornai a combattere con nuovo vigore. Quel giorno la Sharez mi aveva salvato la vita.

 

8 maggio 1902

Mia zia fece scorrere l’anta della porta e mi sorrise, chinando il capo. Indossava il tradizionale kimono e se ne stava inginocchiata sull’ ingresso, con accanto il vassoio del tè e tante altre prelibatezze. «Sono ore che sei chiuso qui dentro. Ho pensato che volessi mangiare qualcosa.»

Le sorrisi. Fino a quel momento ero rimasto tanto immerso nella lettura, da non avvertire il languorino che mi assalì, invece, alla vista del contenuto del vassoio.

«Tu pensi sempre a tutto. Grazie zia.»

Lei entrò, chiudendo la paratia alle sue spalle, poi, proprio come un’impeccabile geisha, mi servì la bevanda calda.

«Vedo che trovi interessante la storia dei tuoi antenati.»

«La trovo affascinante, zia.» risposi, con la visione vivida della battaglia. Nella mia mente risuonavano alti gli ululati dei lupi e il clangore delle armi che cozzavano. Rivedevo Hashiko, mia nonna, cavalcare al galoppo mentre accorreva in aiuto del nonno, facendo salire alto il suo urlo da battaglia.

In quel momento pensai che dovessi essere fiero di loro.

«Zia, la mamma è al corrente di questa storia?»

«Sono io la custode di queste memorie. Tua madre non sa nulla del passato della nostra famiglia. Solo alcuni di noi sono votati a custodirne la leggenda e tu sarai il prossimo, Aiashi Hamamoto.»

«Io…?» la mia voce tremò, incerta.

«Io sono vecchia ormai. Toccherà a te tramandare la storia di questi gloriosi guerrieri.»

«Perché proprio io, zia?»

«Perché tu, ancora non lo sai, Aiashi, ma il tuo è un cuore da samurai.»

La sua risposta mi lasciò interdetto. In realtà, ho sempre creduto di essere un ragazzino timido, non molto coraggioso, ligio agli studi e all’allenamento della mente, più che del corpo. Non ero avvezzo alle arti marziali e alla lotta e, in un eventuale combattimento, avrei perso di sicuro.

La zia si sbagliava sul mio conto. Non meritavo quella nomina e glielo avrei fatto presente quando fosse tornata.

«Cuor di leone!» mi presi in giro da me, sbocconcellando il cibo e riprendendo la mia lettura.


18 ottobre 1847

Erano trascorse alcune ore dalla fine della battaglia. Ero esausto e il mio sguardo vagava sullo scenario apocalittico che si stendeva ai piedi della collina. 

Con l’aiuto dei lupi e il supporto dei samurai della Sharez avevamo vinto quella prima battaglia. Non ci illudevamo che fosse anche l’ultima, la maggior parte dei ribelli si era ritirata, ma appena avessero radunato le forze e la ragione, sarebbero tornati al contrattacco.

Lo sapevo, me lo aspettavo, ma per il momento potevo assaporare il gusto amaro dal calice della vittoria.

A quale prezzo avevamo prevalso!

Era stata una carneficina. Guardavo con amarezza i corpi riversi di tanti giovani guerrieri, le cui vite erano state sacrificate sull’ altare della brama del potere e dall’avidità. 

Quanta miseria e superficialità potevano albergare nel cuore di un essere umano? Quanto poteva essere dissennato?

Per un vero samurai non aveva senso quello spreco di vite umane. Eravamo addestrati per uccidere, è vero! Perfette macchine da guerra! Ma un vero samurai possedeva anche un grande cuore e non toglieva la vita per il solo gusto di farlo, ma al contrario, cercava di evitarlo finché gli era possibile.

Un vero samurai sublimava il mistero della vita e l’osannava ogni giorno, in ogni sorgere dell’alba e in ogni tramonto di sole.

Era il rispetto per ogni forma di vita che ci veniva insegnato e inculcato, fin dal primo giorno di addestramento.

Era questo che avevo imparato. E in quel momento, il mio animo, non poteva fare a meno di smarrirsi alla vista di tanto orrore.

Tra i tanti corpi riversi riconobbi anche quelli dei lupi caduti. Anche il branco del grande lupo grigio aveva subito perdite ingenti. Finiti gli scontri ci eravamo scambiati uno sguardo, poi lui si era dileguato all’improvviso, seguito dai suoi gregari. Mi aveva lasciato un senso di doloroso distacco e tanto rammarico. Chissà se lo avrei più rivisto.

Mi accorsi di avere accanto la Sharez solo quando mi parlò. Da quanto tempo mi stava osservando con quell’aria preoccupata?



«Aiashi…» esordì. La guardai con attenzione. Aveva combattuto come una leonessa al mio fianco. Ci eravamo aiutati e protetti reciprocamente. Avevo avuto modo di osservare la sua tecnica di combattimento e l’avevo ammirata mentre prevaleva sugli occasionali avversari.

In particolare, ricordo che in un’occasione, credendo erroneamente si fosse trovata in difficoltà con un avversario che aveva una stazza imponente in confronto alla sua, avevo cercato di superarla per affrontare io quel nemico.

Ma, indovinate le mie intenzioni, le bastò un solo gesto imperioso per farmi capire che dovevo allontanarmi e lasciare a lei lo spazio per il duello.

Quanto l’ammirai! Così esile e per nulla fragile! Aveva l’aspetto di una colomba e il cuore da guerriera. Ero fiero di lei e onorato di combattere al suo fianco.

Rimanemmo in silenzio per un po’, a osservare i miei guerrieri aggirarsi sulla distesa sterminata di corpi, alla ricerca di superstiti e di feriti da curare.

«Sono parole amare da pronunciare, ma i samurai, quest’oggi, hanno compiuto un grande prodigio. L’imperatore può essere orgoglioso dei suoi miliziani.» sussurrò Hashiko.

«Non so trovare motivo d’ orgoglio in questo scempio!» le risposi con mestizia, poi, diedi di sproni forzando il cavallo a una giravolta e tornai all’ accampamento.

Lei mi seguì senza aggiungere nient’ altro. Poteva comprendere il grado di amarezza di un comandante che ha perduto una buona parte dei suoi soldati?

Dopo quella nostra vittoria, ci furono soltanto delle scaramucce, che ci videro affrontare piccoli contingenti di ribelli e i giorni passarono in modo vorticoso.

Durante i periodi di tregua, oltre all’addestramento quotidiano con le armi, io e la Sharez ogni mattina, al sorgere del sole, effettuavamo i nostri esercizi di meditazione.

Tra noi si era instaurato un legame profondo, anche se nessuno dei due aveva avuto il coraggio di confessarlo. Avevo perso la timidezza della gioventù, tuttavia, davanti a lei tornavo a essere un ragazzino che arrossisce per un nulla. In quel periodo mi accontentavo di godere della sua presenza e della benevolenza che mi mostrava. Ma in cuor mio sentivo che anche lei provava un sentimento per me.





Un giorno le sentinelle ci avvertirono dell’arrivo di un piccolo drappello nemico, che ostentava il drappo della trattativa. Gli shogun volevano parlamentare, così, io e la Sharez incontrammo il gruppo in una radura situata nella terra di nessuno, in modo da garantire la sicurezza degli ambasciatori.

Gli accordi vennero presi dopo un lungo mercanteggiare, anche perché dovevo rendere conto delle mie azioni all’imperatore. I miei messaggeri iniziarono un continuo andirivieni da e per il palazzo reale, fino a che non trovammo una soluzione equa per entrambe le parti belligeranti.

Così diedi l’ordine a Kento di provvedere a smontare l’accampamento e, un pomeriggio, domandai alla Sharez un colloquio.

Ci incontrammo nella radura, lontani da sguardi indiscreti, ed ebbi la netta sensazione che lei conoscesse già l’argomento che avremmo trattato.

Quando arrivò, posai la mano sul cuore e m’ inchinai.  

«Seppur a caro prezzo, abbiamo centrato il nostro intento di pace.» le dissi, prendendo tempo.

«Non so quanto potrà durare. I messaggeri parlano ancora di shogun che continuano a sobillare e a istigare il malcontento tra i ribelli. Dobbiamo tenere alta l’attenzione, per non lasciarci sorprendere dall’ennesima rivolta.»

«Lo so, mia signora. Nessuno abbasserà la guardia. Ho impartito ordini precisi perché questo non accada.»

Lei inarcò un sopracciglio, ostentando sorpresa: «Hai dato ordini?»

«Tu sai che ho lasciato in sospeso il giuramento che ho fatto nel tempio. Domando il permesso di assentarmi, per andare alla ricerca dello stupratore e dell’assassino dei miei genitori.»

Hashiko mi guardò, ma nei suoi occhi, questa volta, lessi una pena infinita.

Presi coraggio e mi avvicinai, afferrandole le mani delicate.

La conoscevo bene. Aveva la stessa espressione il giorno che aveva dovuto dirmi della morte dei miei.

«Che succede? Perché quello sguardo così… smarrito? Cosa mi nascondi Hashiko?»

«Ho fatto un sogno premonitore. Grossi nembi oscuri si addensavano sul tuo cammino e ti seguivano minacciosi. Ho veduto l’emblema del lupo strappato e portato via dal vento e la tua spada imbrattata dal tuo sangue. E poi ancora sangue e ancora dolore. Oh, Aiashi!» esclamò, buttandosi nelle mie braccia. «Non andare ti prego! Quel sogno è foriero di disgrazia!»

Mi fece tanta tenerezza: tremava come un pulcino bagnato e io ero felice di poterla consolare. Per un po’ rimasi in silenzio limitandomi a stringerla e ad accarezzarle i capelli. Erano soffici e scivolosi come fili di seta. Profumavano di pulito, di fiori di campo e di primavera. Il suo esile corpo emanava un sentore femminile che mi rapì i sensi. Aspirai avidamente il suo odore, caldo e confortevole. Quel suo profumo sarebbe rimasto impresso nella mia mente, nei miei sensi, per sempre.

«Cara. Non piangere. Non mi accadrà nulla, te lo prometto.» le sussurrai, sollevandole il mento con delicatezza e costringendola a guardarmi.

I suoi occhi velati di lacrime avevano la lucentezza di due stelle. Le sorrisi, ponendo due baci lievi sulle palpebre umide di pianto.

«No, ti prego! Vorrei andare con il tuo sorriso stampato nel cuore. Mi sarà di conforto e sostegno nei momenti di bisogno.»

«Ho un brutto presentimento.» insistette lei.

La baciai, impedendole di parlare. In seguito, ci fu soltanto il nostro amore.

Il mattino dopo la salutai. L’ultima immagine che ho di lei era la sua figura che si stagliava tra il verde della natura.

Sorrideva, ma nel suo cuore, come nel mio, sapevo che era sceso il gelo.

 

22 ottobre 1847

                         

 

Svestita l’armatura del samurai, mi aggirai tra i villaggi assumendo l’aspetto di un comune ramingo. Se volevo svolgere indagini precise, nessuno doveva sospettare la mia vera identità.

Avevo sostituito il mio imponente frisone da guerra con un cavallo giovane, ma dall’aspetto modesto e mansueto, adatto alla parte che mi ero prefisso.

Mi aggirai tra le case cercando di porre domande discrete sul tizio che era stato notato presso l’abitazione dei miei, poco prima che fosse perpetrato lo stupro ai danni di mia madre.

Quell’uomo portava sul viso i segni inconfondibili del vaiolo e, speravo non sarebbe stato difficile rintracciarlo.

Impiegai tempo e denaro. Per fortuna, Hashiko, aveva previsto che avrei potuto averne bisogno e mi aveva generosamente rifornito di una borsa piena di oro e monete. Non potevo rifiutarla. Si trattava del mio compenso per i servigi straordinari resi all’imperatore.

Con quella borsa riuscii a ottenere preziose informazioni su un mercante di stoffe e mi misi sulle sue tracce sull’antica via della seta, che attraversava per un tratto, anche il nostro glorioso impero.

Fui baciato dalla fortuna e dalle stelle, poiché fu poco tempo dopo aver avviato la mia ricerca che entrai in contatto con il sospettato. In quei giorni si stava organizzando un mercato che aveva una valenza e un’importanza nazionale e che si verificava soltanto una volta all’anno. Per questo motivo, non fu complicato trovare la bancarella delle stoffe, con un uomo impegnato ad allestirla.

Che fu sin troppo facile, me ne resi conto troppo tardi. Preso dalla foga della caccia, come una belva che avverte l’usta della preda e si getta a testa bassa nell’inseguimento, avevo perso di vista la prudenza, così da non accorgermi che da cacciatore ero diventato, a mia volta, una preda.

Ignaro della trappola, così abilmente tesa e che stava per scattare, mi avvicinai alla mercanzia e, con occhio critico, presi a maneggiare i tessuti come fossi un vero intenditore.

Ebbi il sentore dell’inganno solo quando mi ritrovai due uomini ai fianchi e, quando avvertii una spada puntata nelle reni, seppi con certezza di non avere via di scampo.

«Stavi cercando me, samurai?» domandò con ironia qualcuno alle mie spalle.

I due mi costrinsero a voltarmi e davanti a me vidi l’uomo dal volto butterato che stavo cercando.

«Proprio te.» risposi con tono tranquillo. Non era certo la minaccia di una spada o i volti truculenti di un manipolo di delinquenti che poteva spaventarmi.

«Vedo che non hai perso la tua boria. Sei uno stolto! Non ti rendi conto di trovarti in un mare di guai?»

Lo guardai, sprezzante: «In realtà, posso ritenermi anche un abile marinaio, poiché ho imparato a navigare in mari più avversi di questo.»

Lui sospirò, inscenando una parodia: «Perché voi samurai dovete sempre essere così dannatamente orgogliosi?»

Mi girò intorno squadrandomi e sfidandomi con lo sguardo. «Sai che mi toccherà ucciderti!»

Per quanto mi fu possibile, mi protesi verso di lui, fino a coglierne l’afflato puzzolente:

«Per uccidere un samurai occorre prima renderlo inoffensivo. Sei davvero convinto che io lo sia?» gli domandai con strafottenza.

Colsi lo sguardo smarrito che intercorreva tra i miei carcerieri e fu proprio in quell’attimo che decisi di agire.

I due uomini che mi tenevano per gli avambracci, mi servirono per fare leva e usarli come una catapulta per una capriola volante.

Quando atterrai sulla bancarella con la spada sguainata, si stavano ancora osservando stupiti.

La mia era stata una manovra repentina e inaspettata. Li avevo colti di sorpresa ma non potevo perdere tempo a congratularmi con me stesso. Dovevo approfittare dei pochi istanti di vantaggio.

Con un altro balzo acrobatico scesi dal banco e iniziai a duellare con i miei avversari.

Non avvezzi al combattimento con le lame, riuscii a liberarmi dei primi due con estrema facilità, mentre con il terzo, fui costretto a impegnarmi un po’ di più. 

Fu solo quando riuscii a batterlo che mi avvidi della fuga del quarto uomo e mi gettai all’inseguimento.

«Vigliacco!» gli urlai, cogliendo lo svolazzare del suo mantello.

Lui non si voltò a rispondermi, ma anzi, aumentò la falcata della sua corsa.

Lo inseguii per i vicoli del villaggio, scansando tutti quelli che lui stesso aveva scansato e poi scaraventato a terra, come tanti ostacoli seminati alle sue spalle.

Era veloce e sembrava conoscesse quelle stradine come le sue tasche. Sgattaiolava, nascondendosi tra gli androni delle abitazioni e i buchi delle innumerevoli bettole ubicate lungo la via.  Infine, lo persi di vista dopo una curva, in un dedalo di vicoli stretti e maleodoranti. Mi maledissi per non essere riuscito a braccarlo e fermarlo.

A un certo punto, mi trovai a un bivio. Imprecai e tesi i sensi, ma ormai non avvertivo nemmeno più il risuonare dei suoi passi. Fui costretto a scegliere velocemente. Così persi ancor più tempo imboccando la stradina sbagliata e percorrendo con cautela quel budello lungo e oscuro, che poteva celare qualche trappola.

Mentre m’aggiravo in quella zona sconosciuta, alla ricerca di una traccia, colsi alcune grida soffocate che mi riportarono sul giusto percorso. Doveva trattarsi di una colluttazione e l’istinto mi suggeriva di affrettarmi. Tuttavia, quando raggiunsi il fuggitivo, lo trovai disteso in una pozza di sangue.

Qualcuno lo aveva aggredito e accoltellato. Quella era una zona malfamata e io pensai a un rapinatore che si era lasciato prendere la mano.

  Mi chinai sul ferito, ma solo per constatare che rantolava. Era alla fine. La vendetta mi era sfuggita dalle mani.

Il respiro era affannoso, ma lui continuava a guardarmi con sfida. Non so cosa mi trattenne dal finirlo con le mie mani!

«Ce l’hai fatta… a raggiungermi… samurai! Ma non… ti sarebbe riuscito, se non mi… avessero fermato!»

Mi permisi una piccola rivincita morale:

«Non ti rimane più molto tempo, assassino! Spero che la tua anima dannata vaghi per i meandri oscuri, e lungo vie desolate per l’eternità!»

Nonostante fosse in fin di vita, la sua bocca si distorse in un ghigno strafottente: «Credimi… non ho paura della morte e poi… non ho rimpianti… mi sono divertito molto… durante la mia vita!»

L’allusione a quello che aveva fatto a mia madre mi mandò il sangue al cervello. Lo sollevai per il bavero scrollandolo senza alcuna pietà e gli sibilai in faccia:

 «Qualcuno mi ha tolto il piacere di ucciderti con le mie mani! Ma forse, posso ancora rendere un briciolo di giustizia a mia madre offrendo il tuo misero corpo come pasto ai topi che prolificano nelle fogne. Ti piace l’idea, maledetto?»

Lo vidi sussultare. Il ghigno lasciò il posto a un’espressione terrorizzata.

«No… non puoi… farmi questo! Il mio corpo… va bruciato e le ceneri… sparse nel corso del fiume sacro!»

Ormai parlava solo con un filo di voce. Dovevo affrettarmi con le domande.


«Allora, dimmi chi ti ha pagato! Dimmi chi è il mandante e ti prometto che pagherò personalmente la tua pira funebre.»

Ormai il suo corpo era scosso da brividi e i suoi occhi si rovesciavano, mostrando la sclera bianca, tuttavia, feci in tempo a raccogliere il suo ultimo bisbiglio, che mi lasciò basito.

Quell’uomo aveva appena fatto il nome di una persona molto vicina all’imperatore.

«Non è possibile!» mormorai, esterrefatto, mentre il malvivente esalava l’ultimo respiro.

Quel tizio aveva detto la verità, o si era ancora vendicato dicendo l’ultima bugia?

Pagai perché il cadavere venisse arso, così come avevo promesso e lasciai il villaggio. Dovevo recarmi a palazzo reale, presentarmi a ossequiare l’imperatore e, in modo discreto, iniziare a indagare sulla persona che era stata nominata da quel delinquente.

Impiegai due giorni a raggiungere la città imperiale e venni subito ricevuto dal sovrano con tutti gli onori che mi spettavano per i servigi resi durante i combattimenti.

L’imperatore era circondato dai consiglieri e dai cortigiani più fedeli e mi diede segno di grande magnanimità e benevolenza.

«Avremmo voluto ricevervi con grandi onori e dimostrazioni di stima, ma la vostra visita improvvisa ci coglie impreparati.» esordì, alzandosi dal trono e scendendo i gradini.

Come esigeva il protocollo, mi ero prostrato con la fronte sul pavimento, in attesa che fosse lui a darmi il permesso di guardarlo. Nonostante la posizione riuscivo a spiarne le mosse e vidi che mi porgeva una mano per aiutarmi a sollevarmi. Penso che non fosse mai accaduto prima e, quel gesto tanto amichevole nei miei confronti mi sorprese, come d’altronde sorprese anche i presenti.

Presi la mano che il sovrano mi stava offrendo, mi sollevai e gli fui grato per tanta considerazione.

Lui sorrise: «Meritate ben altri onori, Aiashi Hamamoto. Voi e la grande Sharez avete impedito che gli shogun ribelli minacciassero il nostro trono e questo vi rende degni della massima stima. Per dimostrarvi la nostra gratitudine abbiamo deciso di assegnare a entrambi una vasta porzione di territorio a nord, dove si sono verificate le sommosse e nominare voi, shogun di quella parte dell’impero. Sempre che la cosa vi sia gradita.» concluse, squadrando la mia reazione.

M’inchinai, ringraziando per l’onore concessomi, anche se dentro di me non potevo fare a meno di sorridere per l’astuzia e l’abilità stratega di cui stava dando prova il giovane imperatore.

Nominandomi shogun, infatti, si assicurava un servitore fedele e un abile combattente, nonché un valido esercito di samurai alla guardia di uno dei confini dell’impero più soggetti all’invasione di barbari.

«Ne sono onorato, maestà!» risposi anche se, al contrario, mi sentivo come se avesse appena emesso la mia condanna. Ma avevo giurato fedeltà a quell’uomo e, rifiutare l’incarico, sarebbe stato ritenuto un affronto e punito come tale.

«Non ringraziatemi. Del resto era un titolo che vi spettava di diritto essendo quello ereditato da vostro padre.»

Caddi dalle nuvole! Non sapevo nulla di quella nomina.

«Purtroppo, a vostro padre, gli dei non hanno concesso il tempo di assumere l’incarico.»

Quella rivelazione contribuiva a dissipare un po’ il mistero che circondava la morte del mio genitore.

Decisi di prendere tempo.

«Maestà» dissi umilmente, sempre a testa china «domando soltanto qualche giorno per portare a termine un impegno preso tempo addietro con i miei.»

«Possiamo sapere che genere d’impegno?»

«Promisi ai miei che, in caso di bisogno, mi sarei occupato io dei loro possedimenti e vorrei adempiere alla parola data.» mentii. In fin dei conti, la scusa della casa padronale non era del tutto campata in aria. I miei possedevano un grande podere nei dintorni, con tanti servitori, alcuni fattori e mandriani e, con la morte dei miei cari, ero diventato io il proprietario di tutti i loro beni. Affidando a una persona leale l’amministrazione dei beni, avrei potuto dedicare il resto del tempo alle indagini che mi ero prefissato.

«Vi concediamo una settimana, Aiashi Hamamoto, dopodiché vi preparerete alla partenza.»

M’inchinai e indietreggiai soddisfatto. Una settimana, mi ripromisi, sarebbe bastata.

In realtà, mi occorsero solo tre giorni.

continua...





Racconto pubblicato sul sito Scrivere
Immagini PNGWave      e Pinterest                                     
                                       


4 commenti:

  1. Bella anche questa parte, suggestiva perché fantastica e le immagini scelte molto appropriate. Complimenti.

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  2. Buona sera Vivi,
    ha sido una settimana di tanta azione, apprendimento e avventura, Aiashi sta diventando un coraggioso guerriero romantico, preparato fisica e moralmente, per resistere ai pericoli e agli sforzi che derivano dalla difesa del codice samurai. Bel capitolo!
    Abbraccio da... Carolina, si! jajaja =D

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  3. Molto bello e ben costruito questo stralcio di racconto che parla delle prodezze dei samurai, guerrieri giapponesi pieni di passione ed ardimentosi nel combattere coloro che sono contro il popolo. Ajsha è il loro erede romantico che , sicuramente avrà una parte importante nella storia che stai raccontando Vib^. Un caro saluto di buona giornata da Grazia.

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