2 novembre 1847
Ero ancora lì, incredulo, a osservare il corpo
senza vita dell’uomo responsabile della morte dei miei genitori, quando gli
stallieri accorsero per verificare l’accaduto. Evidentemente erano stati messi
in allarme dalle urla e dal rumore dello scontro.
Uno dei più giovani, mi si avvicinò e con fare
ossequioso m’ informò che erano stati costretti ad avvisare le guardie di
palazzo e, che da lì a poco, sarei stato condotto al cospetto dell’imperatore.
Aveva un modo tanto timoroso, da indurmi a
sorridergli con indulgenza. «Seguirò le guardie senza opporre resistenza.» gli
dissi per rassicurarlo.
Lui s’ inchinò «Mio signore, mi dispiace!» mi
sussurrò con tristezza.
Ero un samurai e, per il valore dimostrato nel
recente passato, mi ero guadagnato la stima e il rispetto di tutto il popolo.
Consegnai le armi alle guardie che mi
scortarono tra due ali di addetti e d’ inservienti silenziosi e riverenti nei
miei confronti.
Trascorsi alcuni giorni rinchiuso nelle segrete
del palazzo in totale isolamento, senza vedere nessun altro oltre il carceriere.
Avevo fatto subito richiesta di essere ricevuto dal sovrano, ma fino a quel
momento, la mia domanda era stata ignorata. Non era un buon segno e
nemmeno credevo fosse normale. In fin dei conti ero appena stato nominato alto
dignitario di corte, con delle mansioni della massima importanza per i confini
del regno, perché l’imperatore non mi concedeva un colloquio dandomi modo di
spiegare le mie ragioni?
Non avendo null’ altro da fare, passavo il mio
tempo a rimuginare e le notti le trascorrevo insonni.
Finché, il quarto giorno di prigionia, le
guardie mi scortarono nella sala del trono.
I dignitari e i consiglieri di corte erano
tutti presenti e, nell’ avanzare verso il seggio imperiale, avvertii i loro
sguardi severi e accusatori sulla mia persona.
Cercai d’ ignorarli e quando fui davanti al
regnante, mi prostrai, come prevedeva il protocollo.
«Abbiamo accettato di parlare con voi, solo
perché abbiamo avuto l’onore di conoscere vostro padre. Ma sappiate che la
vostra condanna è irrevocabile!» dichiarò con voce aspra l’imperatore.
Dunque, a mia insaputa e senza possibilità di
difesa, si era già svolto un processo, ed era stato emesso un verdetto di
morte!
Quelle parole mi lasciarono allibito. Non era
prassi normale una procedura del genere. Quando si era trattato di emettere un
giudizio così estremo, il sovrano si era sempre comportato in modo equo
valutando con il massimo criterio le responsabilità di un indiziato. Nel mio
caso non era accaduto e vi era stato un processo sommario. Che fossi colpevole
della morte di suo cugino era lampante, ma quella morte non era stata premeditata
e, alla fine, ne ero solo la causa involontaria. Possibile che non venisse
nemmeno presa in considerazione la fatalità dell’evento? C’era qualcuno che
desiderava la mia eliminazione e che tramava all’ oscuro contro di me dopo aver
agito contro la mia famiglia?
Ma ormai che importanza poteva avere saperlo?
Ero stato condannato e senza possibilità di appello. Conclusi con amarezza il
mio pensiero.
Il mio sguardo si posò sui dignitari presenti.
Incrociando i loro occhi ero in grado di discernere l’imbarazzo e talvolta la
vergogna per il giudizio espresso. In modo particolare, mi colpì l’atteggiamento
elusivo di un altro parente stretto dell’imperatore, che sapevo molto legato al
dignitario ucciso. Percepivo chiaramente la sua ritrosia a sostenere il mio sguardo
e allora intuii. Anche lui era coinvolto nel complotto ordito contro di me. Ma
che potevo fare se non maledirlo mentalmente per le sue malefatte? Ero sicuro
che, a quel punto, lanciare accuse non sarebbe servito a niente. Chi mi avrebbe
creduto?
La voce dell’imperatore mi strappò dalle mie
riflessioni: «Per quale motivo ci avete chiesto udienza?»
Mi riscossi, ormai rassegnato al mio destino:
«Non sono qui per aver salva la vita, mio signore! Ma solo perché mio padre aveva fiducia e rispetto per voi. Ed è per questo che vorrei affidarvi la sacra lama che egli mi affidò poco prima di morire, sapendo di metterla in mani sicure. Vi prego soltanto di credere che non sono uno spietato assassino e di non farmi subire l’onta del capestro!»
L’ imperatore mi scrutò attentamente, quindi mi
fece un breve cenno d’ assenso.
Quella sera stessa fui accompagnato nella
piccola sala del Tempio, dove i soldati mi lasciarono solo, con una spada
appoggiata su di un cuscino. M’ inginocchiai davanti, mettendola in posizione.
Non ho mai temuto la morte, ma l’ho sempre
considerata compagna fedele di ogni guerriero.
Il mio unico rammarico era quello di dover
lasciare troppe cose in sospeso.
E mentre la lama era già puntata sul mio
ventre, i miei ultimi pensieri erano rivolti alle persone care ormai perdute e
alla mia dolce Hashiko.
Stavo per lasciarmi andare con brutalità sulla
punta della spada, quando un ululato risuonò alto nel silenzio circostante. Mi
girai in tempo per vedere, oltre la paratia di cartapesta, le ombre dei due
soldati di guardia che cadevano, poi la parete si aprì e mi apparve il suo
sorriso luminoso.
«Sono felice di essere arrivata giusto in
tempo, Aiashi!» disse dolcemente, mentre mi porgeva le mie armi.
«È stato un arrivo tempestivo!» risposi
inchinandomi. In fin dei conti non avevo tutta quella fretta di morire. E
quella era la seconda volta che lei mi salvava la vita.
Corremmo fianco a fianco coperti dalle frecce e
dalle lance dei miei compagni. Mi resi conto che erano accorsi tutti per
salvarmi e la cosa mi commosse.
Non trovammo una grande resistenza, anzi,
qualche soldato diede l’impressione di cedere il passo e le armi con più
trasporto di quanto fosse conveniente. Qualcuno non combatté nemmeno, lasciando
che io e i miei compagni passassimo, elargendoci addirittura un inchino. La
fama che aleggiava attorno ai samurai aveva fatto breccia anche nei cuori di
quei giovani soldati.
Non fu difficile uscire dalle prigioni, e
quando comunicai ad Hashiko che mi rimaneva un altro compito da svolgere e che
non sarei tornato con loro, lei annuì, sorridendomi. Aveva capito le mie
intenzioni e le approvava.
L’ abitazione dell’ultimo complice era difesa
da alcune guardie armate, tuttavia, silenzioso come un giaguaro affondai gli
artigli nelle sentinelle e me ne liberai dopo una lotta furiosa con i bastoni.
Entrai nella casa immersa nell’ oscurità. Per
qualche istante pensai che fosse stato sin troppo facile e che forse si
trattava dell’ennesima trappola ordita ai miei danni, ma poi capii per quale
motivo non avevo trovato molta resistenza.
Il vile aveva appena abbandonato la sua
famiglia, la moglie e i figli al loro destino.
La donna, forse, non aveva fatto in tempo a
fuggire e probabilmente si aspettava la mia visita. Non si nascose e nemmeno
tentò una fuga inutile; come poteva con tre bambini piccoli? La trovai in piedi
in una stanza con i suoi piccoli stretti a sé, in un vano tentativo di difesa.
A mia volta non mi aspettavo certo di
trovare la famigliola e, in quel momento, commisi l’errore di guardare i
bambini incrociando il loro sguardo terrorizzato.
La collera glaciale che mi aveva sostenuto fino
allora e, la mia risolutezza nel cercare di vendicare i miei genitori, si
spensero nell’ espressione spaurita di quelle anime innocenti.
Abbassai la mia spada, non avevo più motivo di
brandirla minacciosamente e, sotto gli occhi vigili della madre, mi avvicinai
al più piccolo sollevandogli con delicatezza il mento. Lo sentii tremare come
un uccellino indifeso e quel tremito mi coinvolse, m’ intenerì. Allora fu la
mia mano a tremare, mentre posavo una lieve carezza sulla testa della tenera
creatura.
La donna mi guardò attraverso un velo di lacrime,
poi, senza dire una parola s’ inchinò rispettosamente, subito imitata dai suoi
figlioli. Annuii e ricambiai il saluto, grato per il dono che ci eravamo,
vicendevolmente, scambiati.
Corsi fuori. Hashiko non mi aveva abbandonato,
anzi si era data da fare con i miei compagni fedeli, ed era riuscita a
catturare l’ultimo artefice delle mie disgrazie.
L’ istinto mi suggeriva di farmi giustizia sul
posto; la mia sete di vendetta bramava il sangue di quel traditore. Ma rimasi
come interdetto davanti a lui, con la spada brandita e puntata sul suo petto.
Ero pronto a colpire, tuttavia, qualcosa me lo
impediva. Cos’era? La pietà o la ragione? Forse era più la ragione, considerato
che quel tizio non meritava la mia compassione. Lui non ne aveva dimostrata con
i miei cari.
Ma con la fuga dalle carceri ero diventato un
fuorilegge e da quel momento la mia vita si sarebbe svolta in latitanza, braccato
come una belva feroce e, probabilmente, sarei stato costretto a una fuga
continua.
No! La mia coscienza si ribellò!
Non avevo faticato anni per diventare un
guerriero per ridurmi a vivere come un comune delinquente.
Per tornare a essere un fiero samurai, dovevo
riconquistare la fiducia dell’imperatore. «Non posso ucciderlo! Sono un
samurai, non un assassino!» dissi ad Hashiko, che mi stava osservando e non si
era persa nemmeno una mia espressione.
Lei mi venne ancor più vicina e io percepii il
dolce profumo che il suo corpo emanava. Aspirai avidamente quel sentore, ne
sentivo un bisogno viscerale, soprattutto in quel momento. Quanto mi era
mancato durante la prigionia.
Il suo odore spazzò gli ultimi sprazzi di
collera dalla mia mente e iniziai a riflettere con più calma.
Abbassai la spada e la presi per mano,
allontanandomi di qualche passo e lasciando i miei guerrieri a guardia del
prigioniero.
Per la prima volta nella mia vita, non avevo
certezze sul come agire e quell’ indecisione mi turbava.
Le chiesi consiglio:
«Cosa devo fare, Hashiko? Lo consegno all’
imperatore o mi macchio per sempre la coscienza di quest’ infamia?»
Il suo tono dolce mi carezzò i nervi che
sentivo ancora a fior di pelle: «Il solo fatto che tu consideri un’infamia
infierire su quell’ uomo è già di per sé una chiara risposta ai tuoi dubbi.
Segui la via che t’ indica il cuore, Aiashi e vedrai che così farai la scelta
più giusta.»
Annuii; aveva ragione, eppure esitavo
ancora. In fin dei conti anche lei, liberandomi, era diventata fuorilegge.
Era giusto condurla davanti all’ imperatore?
Hashiko aveva indovinato il mio pensiero,
perché riprese: «Non temere per me. Il sovrano è un uomo giusto e comprenderà i
motivi che mi hanno spinta ad agire in quel modo.»
«Lo credi davvero?»
Lei mi sorrise: «Se anche così non fosse,
andremo insieme incontro al nostro destino!»
L’ abbracciai, quindi, insieme ai miei
guerrieri chiesi un’altra udienza al nostro sovrano.
Ripercorrendo il lungo corridoio che portava al
trono, notai che l’atmosfera di diffidenza che avevo avvertito la volta
precedente, si era come dissipata. I volti dei consiglieri e dei dignitari di corte
non sembravano più tanto ostili nei miei confronti, anzi.
Io e la Sharez ci prostrammo e rimanemmo in
quella scomoda posizione, in attesa che l’imperatore interloquisse con
noi.
«Seppure la presenza della Grande Sharez
deponga a vostro favore, ci dovete molte spiegazioni, Aiashi Hamamoto!»
esclamò, piegando appena la testa in un riverente inchino verso la
sacerdotessa.
Avevo il permesso di rispondere e mi lasciai
andare. Le parole proruppero dal mio cuore travolgendo gli ascoltatori nella
sala, come un fiume in piena.
Parlai del rapimento di mia madre e delle
violenze subite, dell’agguato tessuto ai danni di mio padre e del suo
assassinio. Parlai del complotto perpetrato affinché la carica di shogun
assegnatami in seguito, venisse designata al cugino del sovrano. Poi, ordinai
che fosse portato il prigioniero e, con lui, presentai le prove del tradimento.
Quando smisi di narrare gli avvenimenti, il
volto dell’imperatore era accigliato. Evidentemente deluso e dispiaciuto per il
comportamento di persone care in cui riponeva la massima fiducia e che invece
avevano tramato anche alle sue spalle. Tacque per lunghi, interminabili
istanti. Il suo nervosismo, la sua amarezza erano palpabili. Attendemmo tutti
con il fiato sospeso, finché emise il suo verdetto:
«In passato abbiamo commesso dei grossi errori
di valutazione nei vostri confronti e ce ne rammarichiamo. Il colpevole pagherà
per i crimini commessi e voi sarete reintegrato con onore nelle vostre
funzioni.»
«Grazie, mio signore!» risposi, sollevato.
L’imperatore fece un gesto e il ciambellano gli
consegnò prontamente un involto, che il sovrano sciolse, mettendo in mostra la
mia spada e brandendola in alto. La lama, lucida come uno specchio, catturò la
luce delle lampade a olio e baluginò con riflessi accecanti.
Il sovrano scese i gradini e me la porse: «Questa
lama è vostra di diritto. Andate in pace Aiashi Hamamoto e continuate a
servirci con onore. Questo regno ha bisogno di difensori della giustizia come
voi e i vostri fedeli guerrieri.»
Io e la Sharez ci congedammo con la mano sul
cuore, quindi, indietreggiamo verso l’uscita senza mai volgergli le spalle.
Ripensando ai miei genitori, ebbi la certezza
di aver fatto la scelta giusta e che, finalmente, avrebbero riposato in pace.
La stessa pace che sarebbe scesa presto sul mio cuore e sulla mia mente
turbata.
10 novembre 1847
Affrontammo un lungo viaggio per trasferirci
nel villaggio dove avrei svolto le mie mansioni di shogun ai confini dell’impero.
I mesi passarono nella totale tranquillità e io e Hashiko, tra un allenamento e
l’altro, ci concedevamo lunghe passeggiate tra i ciliegi ancora colmi di fiori.
Lei era sempre la Grande Sharez ed espletava le
sue funzioni nel grande tempio situato al centro del villaggio.
Come avevo sognato sin da ragazzino, era
diventata la mia dolce sposa e passavamo tutto il tempo libero senza mai
perderci di vista. Andavamo a caccia, ci allenavamo con l’arco e con la spada,
o ci dedicavamo alla meditazione.
Adoravo starle accanto e ascoltare il suono del
suo respiro quando, a occhi chiusi, rimanevano zitti a sublimare l’essenza
della vita e la natura. Tutto acquisiva un senso: un fiore, un albero, persino
un sasso che a prima vista sembrava inerte, poteva celare nel suo nucleo la
memoria di cose remote. Quando calava il crepuscolo, ci attardavamo all’
aperto per ammirare lo spettacolo che, da lì a poco, ci avrebbe offerto il
cielo. Non finivamo mai di stupirci davanti alle meraviglie del firmamento e ne
discutevamo, confrontando le nostre reciproche conoscenze.
I giorni e le notti si alternavano sotto il
segno dell’amore che ci univa.
Poi, accade qualcosa che scosse profondamente
la nostra pace.
Eravamo usciti per una cavalcata quando, sulla
strada del ritorno verso il villaggio, notammo un cavaliere solitario galoppare
nella nostra direzione.
«Chi sarà mai?» domandò con apprensione
Hashiko.
Continuai a scrutare l’avanzata del cavaliere.
Quel suo modo forsennato era foriero di brutte notizie.
«Lo sapremo presto.» risposi, mantenendo un
tono tranquillo, anche se, in cuor mio, già presagivo il peggio.
Andammo incontro al cavallerizzo e lui ci salutò
con la mano destra sul cuore.
«Mio signore! Mia signora! Porto un messaggio dell’imperatore!»
riuscì a dire con voce rotta dalla fatica.
«Riprendi fiato, soldato e riferisci con calma
il messaggio del sovrano.»
«Porto brutte notizie, mio signore!» rispose,
respirando più volte, poi, riprese: «Le orde di ribelli nell’ estremo sud del
paese, si sono spinte di nuovo sui sentieri di guerra e l’ imperatore ti prega
di tornare, assumere il comando delle armate e difendere la città.»
Era peggio di quanto avessi presagito. Dovevamo
tornare a combattere e non era affatto semplice.
Finite le ostilità dei mesi precedenti, avevo
sciolto la parte dell’esercito formata da volontari, mentre gli effettivi e i
guerrieri più fedeli, avevano voluto seguirmi in questa nuova avventura.
Purtroppo, anche se si trattava soltanto di poche centinaia di unità, non era
comunque possibile sottrarsi alla chiamata del regnante.
Scambiai uno sguardo preoccupato con Hashiko,
che aveva ascoltato in silenzio, ma nei suoi occhi lessi un accenno d’
incoraggiamento. La mia compagna annuì, trasmettendomi un sentimento di
speranza e di fiducia.
Congedai il messaggero: «Prenditi qualche ora
di riposo e di ristoro, quindi fai ritorno al palazzo e riferisci all’
imperatore che il vessillo del lupo tornerà a garrire per il popolo e per l’impero!»
«Torniamo al villaggio!» dissi, spronando il
cavallo.
«Aiashi» esordì, mentre cavalcavamo in fretta
verso casa. «Dobbiamo inviare messaggeri in tutte le direzioni e, nel
frattempo, iniziare il viaggio verso la città imperiale. I guerrieri che
risponderanno all’ appello possono riunirsi a noi sulla via del ritorno.»
«Faremo come suggerisci.» risposi, ringraziando
le stelle per avere al mio fianco quella donna così bella e così saggia.
Radunai in fretta e furia i miei più fedeli,
quindi, inviai messaggeri in tutte le province pregandoli di ricongiungerci
lungo il cammino e partimmo con il cuore oppresso per gli imminenti scontri.
Lungo la strada, gruppi di uomini e donne in
armi, infoltirono gradatamente il nostro contingente e, in poco tempo, un
piccolo esercito di samurai cavalcava verso la città imperiale.
Durante il viaggio ebbi la netta sensazione di
essere seguito e mi volsi indietro parecchie volte per controllare, senza
peraltro notare nulla di strano.
Hashiko colse le mie occhiate nervose e
intervenne per rassicurarmi: «I lupi sono con noi, Aiashi!»
Tesi i sensi allo spasimo, finché, proprio
sulla cima di un’altura, scorsi il grande lupo grigio che mi guardava. La sua
presenza mi rassicurò. Ancora una volta, il mio piccolo esercito di samurai
avrebbe avuto il supporto del branco.
Quando arrivammo, l’imperatore si era già
ritirato in un luogo sicuro e la guardia regolare aveva già organizzato i primi
preparativi di difesa.
Assunsi il comando, come era stato ordinato
dall’ imperatore e iniziai a impartire disposizioni.
Il primo intervento da fare era quello di
mettere al sicuro i vecchi, le donne che non erano in grado di combattere e i
bambini, quindi ci preparammo all’ attacco dell’esercito invasore.
10 novembre 1847
Avevo schierato i miei migliori arcieri e i
frombolieri sulle mura difensive della città, tra i merli protettivi del
camminamento di ronda.
Hashiko mi era accanto, con la sua presenza
discreta eppure essenziale, pronta a sostenermi e consigliarmi.
Guardai i miei compagni e le mie compagne.
Erano tutti protesi verso la valle, impavidi, ardimentosi. Pronti a combattere
fino alla fine. Sui loro giovani volti lessi la stessa determinazione che
sentivo dentro me stesso.
Mi avviai alle loro spalle per controllare che
non vi fossero vuoti nella difesa e a ogni uomo e ogni donna diedi un segno d’
incoraggiamento. Non che ne avessero bisogno; solo per dare una dimostrazione
di stima e di fiducia da parte mia. Ognuno di loro mi rispose con un cenno o
con un sorriso.
Kento, il mio attendente, sovrintendeva il
reparto di cavalleggeri che stavano in paziente attesa dietro il principale
portale d’ ingresso che immetteva nella città.
Ci scambiammo uno sguardo d’ intesa. Tutto era
pronto per una sortita veloce tra le fila nemiche.
La tattica l’avevo studiata in collaborazione
dei miei ufficiali e prevedeva, oltre alla difesa sistematica sulle mura,
qualche repentina incursione della cavalleria all’ esterno, con lo scopo di
provocare sconcerto e caos tra la fanteria nemica, che formava la prima linea.
L’ esercito nemico era già allineato e ovunque
si posasse il nostro sguardo coglievamo i bagliori emanati dall’ acciaio delle
armi. Misurai le forze, ancora una volta impari, forse ancor più che negli
scontri precedenti, ma dalla nostra parte, questa volta, avevamo le spesse mura
perimetrali che avrebbero retto bene agli assalti del nemico.
«Aiashi!» la voce della Sharez mi strappò dai
miei pensieri: «Sono molti di più di quanto pensassimo!»
«Non sarebbe la prima volta che affrontiamo
forze molto superiori alle nostre in termini numerici. Ciò nonostante, rimango
abbastanza fiducioso sull’ esito finale. Finché rimaniamo a combattere
entro le mura, per i ribelli non c’è alcuna possibilità di prevalere e, in caso
di assedio, i magazzini sono colmi di scorte alimentari. No! Non mi preoccupo
per il numero spropositato dei nemici.» terminai con un sospiro.
Non lo dissi alla mia compagna, ma la mia
inquietudine era ben altra.
Ci furono ancora alcuni minuti di totale
silenzio, rotto solo dal frinire delle cicale nella vallata sottostante, poi, i
corni da segnalazione, emisero un lungo, lugubre segnale e le ostilità ebbero
inizio.
I dubbi che poc’anzi non avevo espresso, si
materializzarono sotto forma di gigantesche macchine d’ assedio.
Alcune torri mobili stracariche di guerrieri,
nonché un mastodontico ariete da sfondamento e due catapulte fecero la loro
comparsa, subito dopo le innumerevoli file di fanti e di arcieri che
precedevano il grosso dell’esercito a cavallo.
Hashiko non disse nulla, ma potevo avvertire
tutta la sua ansia nel respiro diventato all’ improvviso più affannato. Anche
nei miei samurai serpeggiò qualche istante di sconcerto e potevo capire la loro
emozione. In fin dei conti si trattava di guerrieri avvezzi alla lotta corpo a
corpo sul campo aperto e non una difesa sistematica tra quattro mura
costrittive.
Decisi di dividere il tiro di fuoco che avevo a
disposizione in quattro gruppi distinti, per cui tornai dai miei arcieri e
impartii i primi ordini: «Voi laggiù, mirate prima agli uomini assiepati su
quei trabiccoli; voi, invece, mirate agli animali che trascinano le catapulte.
Voi al centro vi occuperete degli uomini che cercheranno di affondare con l’ariete,
mentre tutti gli altri colpiranno nel mucchio. Dobbiamo impedire che le
macchine si avvicinino troppo alle mura.»
I miei guerrieri annuirono, quindi, incoccarono
le frecce e si misero in posizione di tiro.
Fu allora che sguainai la spada e lanciai il
nostro urlo di battaglia. La risposta dei miei compagni non si fece attendere,
subito seguita dal suono cupo dei corni.
Tesi la spada verso l’alto e la lunga lama d’
acciaio mi rispose, esplodendo in un lampo di luce accecante.
E nel momento in cui nella vallata si espanse un
lungo, lugubre ululato, ebbi il sentore che qualcosa di assolutamente magico
stesse avvenendo.
Gli occhi di migliaia di guerrieri si volsero
verso le colline circostanti, mentre un’orda di lupi famelici si riversava
sulla pianura. Il grande lupo grigio era in testa alla massa di belve ululanti,
che si riversarono sull’ esercito nemico provocando sconquasso tra le file fino
ad allora compatte.
La Sharez diede l’ordine agli arcieri di scoccare
le loro frecce. Una pioggia di dardi infuocati si abbatté sui barbari nemici
che, attaccati su più fronti, accusarono il contraccolpo e sbandarono
visibilmente.
«Hashiko, ti lascio il comando sugli spalti,
mentre io mi unisco a Kento per una sortita tra il nemico.»
«No!» si oppose, alzando il tono di voce. «Non resterò
qui a seguire i combattimenti. Verrò con te!»
Era la prima volta che si ribellava e
trasgrediva ai miei ordini, per giunta davanti ai subalterni e, per un istante,
il suo atteggiamento mi lasciò interdetto.
«Il mio posto è al tuo fianco!» esclamò risoluta,
rinforzando il concetto e allora capii che non avrei potuto nulla per farla
desistere dal suo proposito.
Rassegnato, impartii lo stesso ordine all’
ufficiale superiore in grado, quindi, raggiungemmo Kento e i suoi cavalieri, in
trepidante attesa sul portale d’ ingresso.
Indossammo i nostri elmi dalle maschere
ghignanti. «Siete tutti pronti?» domandai, rilevando la mia voce soffocata e
cavernosa. Era una domanda retorica. Ero perfettamente consapevole di quanto
fossero tutti impazienti di combattere.
«Per l’onore, per la gloria e per l’impero!»
gridai a squarciagola. Seguì l’urlo unanime di tutti i miei samurai, quindi, spronammo
i cavalli e ci catapultammo all’ esterno come tanti diavoli forsennati con le
spade sguainate. Nel mezzo della bolgia ritrovai il branco dei lupi e combattei
fianco a fianco con quello grigio.
8 marzo 1910
Mia zia entrò nella stanza, proprio nel momento
in cui, chiusi il diario di mio nonno. Ero commosso. La storia dei miei avi mi
aveva preso, coinvolto e suggestionato, a tal punto, che sentivo gli occhi
velati di lacrime. E fu attraverso quel velo che intravidi mia zia mentre
mi porgeva un oggetto. Con il petto gonfio di orgoglio, riconobbi la spada del
samurai.
«È tua adesso!» sussurrò, evitando di
guardarmi, forse per non mettermi in imbarazzo.
«Zia, è troppo, non posso accettare. Non ne
sono degno.»
«Ora forse non lo sei, ma un giorno potresti
brandirla con orgoglio. Pensaci.» mi disse, con voce dolce.
Cosa aveva voluto dire? pensai, dubbioso. Feci
scorrere la lama dal fodero e l’alzai verso l’abbaino. La lama catturò la luce
che filtrava dai vetri ed emanò un bagliore improvviso, come se sortisse dal
cuore dell’acciaio.
L’ ammirai sin nei minimi particolari, mentre un’idea
si faceva strada nella mia mente.
Forse era già tutto scritto nelle stelle e nel
mio destino e mia zia mi aveva solo indicato con discrezione la mia strada. Ora
diventava tutto chiaro: sarei diventato un samurai io stesso. Avrei frequentato
la stessa scuola già frequentata tempo addietro dai miei antenati.
All’ improvviso, l’amuleto che avevo appeso al
collo tramite una cordicella di cuoio, si riscaldò sul mio petto, suscitando un
moto di sorpresa da parte mia. Vi posi le mani, non sapendo bene cosa
aspettarmi. Mia zia mi scrutò con attenzione riuscendo a intravedere ciò che in
quel momento stringevo sul torace, poi sorrise: «Le stelle sono con te. Aiashi
Hamamoto!» e annuendo, uscì dalla stanza.
Lettura piacevole.Personaggi affascinanti.Stupende le figure che accompagnano i capitoli.chiaro e riposante il colore delle pagine e dell'inchiostro.Apprezzati i valori della storia:AMORE,ONESTA'e RISPETTO.Brava Vivì!!!!!!!!!
RispondiEliminaUn brano molto intenso, e significativo, che ho molto apprezzato nella sua densa lettura...
RispondiEliminaBuon pomeriggio carissima Vivì, silvia