15 ottobre 1847
I venti di guerra, sopiti ai tempi di mio padre, cominciarono di nuovo
a spirare nei villaggi sparsi nei dintorni, portando di nuovo morte e
distruzione, e la Grande Sharez decise che eravamo pronti per scendere in
campo.
Ci fu una cerimonia altamente suggestiva, in cui parteciparono i
genitori dei giovani guerrieri. Nel momento solenne della nomina, il padre del
samurai si presentava recando su di un cuscino le sue armi gloriose, cedendole
ufficialmente al suo successore.
Mio padre era presente e recava con sé il suo elmo da battaglia, la
testa di un lupo che mi pose sul capo con sguardo fiero. Oltre quello, mise tra
le mie mani una magnifica spada dall’ elsa finemente cesellata, la cui lama,
cogliendo il bagliore delle fiamme accese delle lampade, baluginò come solo la
volta stellata può fare.
La Sharez benedì le mie armi, imponendomi il mio nome da battaglia: “Vento
che sibila tra le montagne”
Quel soprannome mi piaceva, pronunciandolo mi esaltava, mi faceva
gonfiare d’ orgoglio il petto.
Poi, un coro di ululati si alzò alto nel tempio. Quel giorno erano nati
dei nuovi guerrieri samurai e io ero uno di quelli.
Mio padre subito dopo la cerimonia, mi prese in disparte e con aria
grave mi parlò:
«Figlio, ora ti posso svelare il segreto di cui i samurai della nostra
famiglia sono custodi da generazioni. Si tratta della spada di cui ti ho fatto
dono. Non si tratta di una lama comune, ma in essa vi è celato un potere
straordinario. Ma ricorda, solo se richiamato in modo opportuno questo potere
potrà manifestarsi. Sono secoli che il nostro casato tiene celato questo
talismano, per impedire che cada nelle mani di chi può farne un uso malvagio e
distruttivo. Per questo non dovrai mai svelarne la vera essenza con nessuno
mai, poiché con la perdita della spada, cadrebbe in disgrazia tutto il nostro
glorioso popolo e le sorti stesse dell’impero sarebbero in serio pericolo.»
«Padre, mi sembra un onere troppo gravoso da portare. Credi davvero che
possa caricarmi di una simile responsabilità?» domandai, scrutandolo con
attenzione.
«Sei stato addestrato per questo. Vuoi forse esimerti dal compito
affrontato per millenni dai nostri antenati, prima di noi?»
Mio padre mi scrutava a sua volta e sembrava volesse trapassarmi l’anima.
Ma ormai ero un samurai e sostenni quello sguardo inquisitorio con tutta la
franchezza, l’ardimento e la passione del mio giovane cuore.
Lui annuì e continuò: «A te è ora affidato il segreto e la nostra storia.
Porta in alto il nome che ti è stato imposto quest’ oggi, cercando di far splendere
gloriosamente anche il nome della nostra onorata famiglia davanti ai nemici.
Va’ e che la luce della saggezza illumini la lunga e difficile strada che hai
intrapreso, figlio mio!»
Salutai mio padre soffermandomi a guardarlo, mentre passava fieramente
al piccolo trotto tra due ali di folla che s’ inchinavano al suo passaggio.
Era l’ultima volta che lo vedevo. Rimase ucciso in un’imboscata, tesa
dal rapitore di mia madre.
Miyako. Una donna bellissima e coraggiosa. Un’ amazzone da molti uomini
temuta in combattimento. Fu presa prigioniera, ma ci vollero più di due uomini
esperti, per averla vinta su di lei. In seguito, seppi che per la vergogna per l’oltraggio
subito, fece karakiri con la sua nobile spada. Toccava dunque a me riscattarne l’onore
spargendo il sangue del traditore.
La notizia della morte dei miei genitori mi venne data solo al ritorno
della nostra prima missione.
Fu allora che mi recai al tempio recando con me un’offerta, che misi
nelle mani della Sharez in persona e lei si commosse nel vedere di cosa si
trattava. Era la sacra fusciacca. Proprio la fascia che denotava il mio
nobile status di samurai, il mio grado all’interno del contingente e il
battaglione al quale appartenevo. Era la fascia che ogni guerriero del nostro
squadrone portava fieramente sulla fronte ogni volta che scendeva sul campo di
battaglia.
Mi era stata donata durante la cerimonia di iniziazione e, in teoria,
non avrei mai dovuto separarmene, se non per qualche grave e improrogabile
motivo.
«Aiashi» mi domandò Hashiko con lo sguardo
lucido. «Perché?» Conosceva già la risposta.
«Mio padre e mia madre sono stati trucidati e io non ho potuto fare niente
per evitarlo. Ora, qui, in questo luogo sacro, davanti a te e davanti agli dei,
io, Aiashi Hamamoto, offro in dono questo simbolo e giuro solennemente che non
avrò pace finché gli assassini non saranno presi e giustiziati.»
La vidi abbassare gli occhi, forse per nascondermi la sua commozione, poi,
con appena un filo di voce e guardando la fusciacca, mi sussurrò: «Sono la
sacerdotessa di questo tempio e per questo ho deciso, Aiashi Hamamoto, che la
tua offerta non verrà considerata un dono, ma solo un prestito. Custodirò per
te la sacra fusciacca e rimarrà esposta, rammentando ai fedeli la tua solenne
promessa. Quando avrai reso giustizia alle persone che ti erano care, torna,
sarò lieta di sciogliere questo tuo giuramento.»
«Non so se riuscirò a tornare. I messaggeri hanno riportato infauste
notizie sull’esercito nemico. Pare che gli shogun traditori, possano contare di
oltre cinquemila soldati. Noi raggiungiamo a malapena i mille. Le forze sono
impari. Per quanto valorosi siano i miei samurai, quattro nemici contro uno,
sono veramente troppi. Manda un messaggero all’ imperatore, mi occorrono
rinforzi.»
Hashiko mi guardò e io percepii una profonda amarezza in lei.
«Mi dispiace, Aiashi. I samurai del generale Tashika sono stati inviati
al confine, per arginare eventuali attacchi da oriente. Gli shogun di quelle
regioni hanno trovato alleati tra i ribelli indocinesi. Non posso accontentare
la tua richiesta.»
Le sue parole suonarono come una condanna.
«Se non puoi fare altro, ti prego, impartiscimi la tua benedizione.» le
dissi, chinando il capo in attesa.
Avvertii il tocco leggero della sua mano sulla mia spalla. Mormorò
sottovoce una formula arcana e complicata, poi, chiaramente scandì: «Che la
luce delle stelle illumini sempre il tuo cammino, Aiashi Hamamoto.»
La lasciai, senza aggiungere nient’altro, accompagnato dal suo sguardo benevolo.
18 ottobre 1847
Fu poco prima il nostro primo scontro con l’esercito dei ribelli, che
mi apparve il branco di lupi. Ebbi l’impressione che mi avessero seguito e che
ora fossero fermi, in mia attesa, al limitare del bosco.
Il mio sguardo cadde sul più grande, davanti a tutti. Un lupo grigio
enorme, come mai avevo visto nemmeno nei miei sogni. La belva mi aveva puntato
addosso il suo sguardo di fuoco.
Un’indefinibile sensazione crebbe dentro di me. Era disagio o sollievo?
Kento, il mio attendente mi venne vicino e ci scambiammo uno sguardo.
Che intenzioni avevano quelle belve? Mi sentivo abbastanza tranquillo, ero
ormai abituato alla presenza silenziosa e costante di quegli animali, ma non
potevo affermare la stessa cosa per i miei guerrieri. Difatti, si erano
già allertati con le armi in pugno, pronti a contrastare un eventuale assalto.
Ordinai con un gesto imperioso che non si muovessero e rimanemmo così,
immobili a studiare le mosse dei lupi.
Anche il branco ci osservava. Il pelo dritto sul dorso e le fauci
sbavanti rimanevano fermi, emettendo profondi ringhi di gola.
Non rilevai un atteggiamento particolarmente minaccioso, ma non
distolsi mai lo sguardo da quello più grande, il lupo grigio che sembrava il
capo. I nostri occhi erano incatenati e mi parve che i suoi volessero
comunicare:” Combatteremo al vostro fianco, Vento che sibila.” Quel breve,
essenziale messaggio rimbalzò nella mia mente.
Ebbi un sussulto incontrollabile e Kento, che mi era a fianco, sobbalzò
di conseguenza.
«Che succede, capo?» domandò, con i nervi tesi allo spasimo.
Non risposi. Non potevo. Ero troppo turbato da quanto era appena
accaduto. Possibile che quel lupo avesse davvero comunicato il suo pensiero?
In che bizzarra situazione mi trovavo? Non avevo mai sentito di lupi
che pensassero e comunicassero, perlomeno, non con gli esseri umani.
«Capo!» ripeté Kento «Gli uomini sono preoccupati, che ti succede?» Mi
riscossi e, dal tono preoccupato, intuii che sarebbe bastato un nulla per far
scoccare la scintilla della violenza.
«Niente! State calmi! Ero solo soprappensiero.»
«Cosa facciamo con i lupi? Si comportano in modo strano!»
Lo guardai e poi, guardai i miei guerrieri schierati in ordine
perfetto. Aspettavano i miei ordini. Uomini e donne addestrati alla perfezione.
Samurai nel corpo, nella mente e nel cuore. Abituati a combattere fianco a
fianco a guerrieri addestrati allo stesso modo.
Poi guardai verso lo schieramento avversario, immobile e in attesa
oltre il confine della terra di nessuno.
Erano tanti. Non si riusciva nemmeno a quantificarne il numero. Le
lance che i nemici tenevano puntate verso il cielo, facevano muro apparendo
come una fitta e intricata foresta che, col metallo degli scudi e delle spade
catturavano i raggi del sole ed emanavano bagliori che accecavano.
Per un attimo rimasi sconcertato. Non per me, ma per i miei guerrieri.
Potevo contare su mille, agguerriti samurai, ma quanti avrebbero visto sorgere
l’alba dell’indomani?
Mi vennero in mente le loro famiglie, i figli, i genitori.
Volsi verso di loro la mia attenzione, squadrandoli a uno a uno. Li
conoscevo da tempo; con alcuni avevo fatto lo stesso corso di addestramento;
avevamo riso e, qualche volta, persino pianto insieme. Avevamo condiviso gli
anni di gioventù. E ora, mi trovavo costretto a guidare molti di loro, verso la
morte.
Mi diedi dello stolto. Non era quello lo spirito giusto per affrontare
una battaglia. Basta recriminare! Ci eravamo allenati per tanto tempo, proprio
per diventare guerrieri e difendere il popolo contro le ingiustizie e le
barbarie.
“Sono davvero un buon comandante per loro? Non è un azzardo trascinare
mille guerrieri contro… quanto? Il triplo, il quadruplo dei nemici?” Quel
dubbio mi penetrava dentro, simile a un rovello.
Mi sovvennero le parole della Sharez: «Un vero capo è colui che non
getta allo sbaraglio i suoi guerrieri, ma pensa alla tattica migliore per
sconfiggere il nemico, senza peraltro sacrificare inutilmente la vita dei suoi
gregari.»
Pensa, mi esortai. Prima di scendere in campo, pensa. Hai dalla tua
parte anche un centinaio di lupi. Potrebbe rivelarsi la mossa strategica
vincente. Ma come?
Puntai lo sguardo sull’esercito nemico. Ne valutai gli squadroni, le
armi e le possibili tattiche. Dalla nostra posizione non erano visibili cavalli
e cavalieri ma, probabilmente, la cavalleria era tenuta in disparte, pronta a
balzare in campo una volta che la fanteria e poi gli arcieri avessero terminato
il loro compito.
Così elaborai quella che mi parve la tattica migliore.
I miei mille guerrieri li avrei divisi in quattro battaglioni e li
avrei mandati a coprire i quattro punti cardinali. Poi, a proposito dei lupi,
mi venne un’idea e spronai il cavallo avvicinandomi al capobranco.
Il mio frisone stronfiò, innervosito dalla vicinanza della belva e
dovetti trattenerlo, forzando sul morso. Quando capì che era inutile
scalpitare, smontai, affidandolo a un mio compagno.
Kento urlò qualcosa alle mie spalle, ma io non ci badai. Per
precauzione sguainai la mia spada, quella preziosa, ricca d’incisioni misteriose
ereditata da mio padre e, a una decina di metri dal branco, mi accosciai al livello
del lupo grigio.
Ero circondato dalle belve e pensai che i miei compagni, in caso di
attacco, avrebbero potuto ben poco. Il pensiero di finire sbranato mi fece rabbrividire,
tuttavia, non desistetti ma cercai d’ ignorare i ringhi minacciosi che mi giungevano
da tutti i lati.
Guardai il lupo negli occhi evitando di assumere un atteggiamento di
sfida, ma al contrario, cercando di mostrarmi umile.
In verità, mi sentivo uno sciocco. Che ci facevo accosciato davanti a
quel lupo, dalla stazza gigantesca e le fauci digrignanti e bavose?
Qualunque cosa, pur di aumentare le nostre probabilità di sopravvivenza, mi
dissi, così tentai un’altra connessione mentale.
” Sei in grado di percepire il mio pensiero, creatura magica?”
Lui ringhiò, indietreggiando innervosito. “Qual è la tua richiesta,
umano?” La sua risposta cavernosa rimbombò nel mio cervello dandomi la scossa.
Avvertii un altro, interminabile brivido lungo la schiena.
“Le nostre rispettive stirpi sono millenarie “esordii “ e, pur se non
ne conosco il motivo, combattono affiancati, dagli albori del tempo, le
ingiustizie e la tirannia. Oggi ci attende una nuova battaglia. L’esercito
nemico si stende numeroso in quella vallata. Noi, al contrario, siamo pochi. Ma
possiamo farcela a contrastarne l’avanzata, se seguiamo una valida strategia.
Sei disposto a scendere a patti con me?”
Il lupo mi squadrava. Ebbi l’impressione che valutasse le mie qualità
di stratega e la sua risposta tardò ad arrivare, per qualche interminabile
istante.
“Sono qui per questo, Vento che Sibila tra le Montagne.”
Il fatto che conoscesse anche il mio nome da battaglia, non mi
meravigliò più di tanto, perché consideravo già straordinario il fatto che riuscissimo
a comunicare.
“Bene!” approvai, mettendolo al corrente del piano che avevo elaborato.
Quando terminai, il muso della belva assunse un’espressione che mi fece
pensare stesse sorridendo.
Tuttavia, avevo ancora un dubbio da chiarire e lo esposi: «I tuoi
compagni saranno in grado di distinguere i guerrieri nemici dai miei samurai?»
Lui non smise mai di fissarmi negli occhi e questa volta mi parve
proprio risentito.
“Per una buona alleanza occorre che entrambe le parti ripongano fiducia
l’una nell’altra. E, comunque, in tanti secoli di battaglie, non è mai accaduto
l’ errore che tu paventi.”
Annuii, alzando la mano in un segno di pace.
“Combatteremo al tuo fianco e tu, da vento diventerai tempesta. “ mi
comunicò, mentre si allontanava con i suoi gregari. Rimasi a guardarlo,
assorto. Le sorti di quella battaglia dipendevano tutte dal comportamento del
branco. Quel lupo avrebbe rispettato i patti?
Prima di sparire tra gli alberi, si voltò e io ebbi la straordinaria
sensazione che volesse rassicurarmi: “Ancora una volta, uomini e lupi
spazzeranno di gelo quel campo di battaglia!”
L’ultima visione che ebbi, fu quella del branco che lo
seguiva.
Tornai dai guerrieri che avevano assistito, senza parlare e senza
capire, alla tacita scena che si era svolta tra me e l’animale selvaggio.
«Capo» mi disse Kento, con un tono incredulo «Lo so che non è una cosa
possibile, ma sembrava che steste comunicando.»
Liquidai la questione: «Se gli dei ci favoriranno, un giorno ti
spiegherò, amico mio.» quindi con tono pacato, mi rivolsi alle mie truppe.
Ma proprio in quel momento, il suono cupo di un corno da segnalazione
rimbombò alle nostre spalle.
Per qualche istante rimanemmo immobili, come basiti. Non si capiva da
dove provenisse il richiamo. Poi, la terrificante verità, si fece largo nella
mia mente. Eravamo caduti in un agguato!
Il rimbombo di centinaia, forse migliaia, di zoccoli di cavalli risuonò
nella vallata e una schiera infinita di guerrieri, si allargò a ventaglio,
impedendo ogni via di fuga.
La cresta della collina che ci sovrastava, era punteggiata di centinaia
di alabarde minacciose.
I generali nemici mi avevano giocato! Avevano schierato la maggior
parte dell’esercito davanti a noi, mentre un contingente ci accerchiava alle
spalle. Ci trovavamo schiacciati in una morsa che ci avrebbe costretti a
combattere su due fronti. Imprecai contro me stesso e la mia dabbenaggine. Come
avevo potuto essere così sprovveduto, io, che mi credevo un grande stratega?
I miei ardimentosi guerrieri mantennero i nervi saldi. Non diedero
segno di inquietudine e nemmeno di temere lo scontro.
I due schieramenti si fronteggiavano spavaldamente. Non riuscivo a
vedere i volti dei nemici nascosti dalle celate delle maschere dai musi
ghignanti.
Poi, le fila dei nuovi arrivati si allargarono, lasciando intravedere
l’arrivo di un nuovo cavaliere, preceduto dal suo porta-vessilli, con le
insegne che garrivano al vento. Prima ancora di riconoscere l’armatura del
guerriero, riconobbi lo stendardo e il mio cuore tremò dall’emozione. L’aquila
dorata che si librava sul campo verde. Erano le insegne della Sharez.
Mi rilassai, riponendo la spada.
Anche i miei samurai le riconobbero e si allargarono, lasciando libero
il passo.
Hashiko indossava l’elmo con la celata abbassata. Appena mi si affiancò
se ne liberò e, la treccia in cui aveva raccolto i capelli, le cadde sulle
spalle. Mi sorrideva e io le sorrisi grato, a mia volta.
Pensai che fosse splendida anche ricoperta dalla corazza di cuoio,
plasmata alla perfezione per seguire e proteggere le curve del suo corpo.
Lei si accorse della direzione presa dai miei pensieri e mi redarguì
con uno sguardo severo, quindi, con tono più lieve, mi disse: «Ti vedo
sorpreso, comandante! Non mi avevi fatto richiesta di rinforzi?»
Annuii con decisione. Per quanto potevo appurare, aveva portato con sé
almeno altri cinquecento samurai.
Le nostre probabilità di contrastare l’avanzata del nemico aumentavano
ancora.
«Non me lo aspettavo, mia signora e ti sono grato per questo!» le
dissi.
«Siamo tutti ai tuoi ordini. Hai già studiato un piano?»
«Questo vostro provvidenziale arrivo, mi consentirà di rinforzarlo.»
«Vuoi mettermene al corrente, Vento che Sibila tra le Montagne?»
«Sì!» risposi «Ma avrei ancora una richiesta da porti.»
«Parla, dunque e se sarà in mio potere, ti accontenterò!»
«Cavalcherai al mio fianco, mia signora?»
Il suo viso si aprì in un sorriso che non avrei più dimenticato per
tutta la vita.
«Cavalcherò con te, Aiashi Hamamoto.»
Posi la mano destra sul cuore chinando il capo, quindi la misi al
corrente. Le parlai anche dei lupi e lei non parve sorpresa.
«Mi sembra un’ottima strategia.» affermò, annuendo «Ma sbaglio o ti
apprestavi a parlare ai tuoi guerrieri?»
«Sì», le risposi, avvolgendo in un unico sguardo circolare anche i suoi
samurai. «Ho ancora alcune cose da dire!»
Squadrai i guerrieri delle prime file a uno a uno, poi, alzando un po’
il tono, in modo che mi sentissero tutti, iniziai il mio breve discorso:
«Questo è un giorno speciale per noi, perché è quello del nostro
esordio in campo. I nostri nemici sono tanti, troppi, numerosi come uno
sciame di cavallette e noi, al contrario, siamo ancora pochi. Ma i nostri cuori
sono colmi di grandi ideali, come la libertà, la giustizia e la pace. Ottimi
alleati, che centuplicheranno le nostre forze.» feci una pausa e poi impressi
più decisione al mio tono: «Ma oggi, avremo il privilegio di schierare dalla
nostra parte un branco di belve assetate come noi del sangue dei nostri nemici.
Essi ci accompagneranno, combattendo al nostro fianco.» feci un’altra pausa, mentre
il mio cavallo, a causa della lunga attesa, girava innervosito su se stesso.
Quando lo dominai, ripresi, mettendo più enfasi nelle mie parole: «Io
vi dico di non temerli, di non ostacolarli, ma al contrario, lasciate che
scorrazzino liberamente tra i nostri nemici. Oggi, molto sangue scorrerà su
questo campo, ma io vi prometto che non sarà soltanto il nostro, ma la maggior
parte sarà quello dell’esercito traditore.»
I guerrieri mi avevano ascoltato senza fiatare e, mi accorsi dal loro
sguardo ardente, che il mio discorso aveva infiammato i loro animi.
Sguainai un’altra volta la spada, puntandola verso il nemico: «Siete
pronti a dare l’anima in cambio della libertà?» urlai con tutto il cuore
e loro risposero, sguainando le loro armi, in un ruggito unanime.
Quando cavalcammo giù dalla collina, l’eco della vallata decuplicò
l’ululato che era il nostro inno di battaglia.
Guardai i miei guerrieri. Giovani donne e uomini pronti al sacrificio estremo per i loro ideali. I volti erano coperti dalle maschere di cuoio dai ghigni satanici ma, le feritoie per gli occhi, lasciavano intravedere lo stesso mio sguardo iniettato di sangue. Sorrisi tra me. I nemici avrebbero tremato alla vista di un esercito di diavoli forsennati.
Prende e lascia la voglia di conoscere il seguito. Spero presto. Complimenti all'autrice.
RispondiEliminaUn racconto avvincente, che niente lascia all'immaginazione, per le svariate avventure che presenta, durante la narrazione.
RispondiEliminaSempre bello leggerti, cara Vivì, sereno giorno, silvia